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1948 09 12 * Antonio De Viti De Marco, uomo civile * Ernesto Rossi

Notizie biografiche

Il marchese Antonio De Viti De Marco, nato a Lecce il 30 settembre 1858 morì a Roma il 1° dicembre 1943. Nel 1883 fu chiamato all’università di Camerino e poi a Macerata e a Pavia. Dal 1887 insegnò scienze delle finanze all’università di Roma. Dal 1890 al 1913 fu, con Pontaleoni, condirettore del “Giornale degli economisti” e poi, con Salvemini, condirettore del settimanale “l’Unità” dall’8 dicembre 1916 al 31 dicembre 1918. Eletto deputato nel 1900 fu riconfermato nel mandato fino al 1921. Nel 1931 lasciò l’insegnamento per non prestare il giuramento fascista, dando le dimissioni con la seguente lettera, indirizzata al prof. De Francisci, rettore magnifico dell’università di Roma:

    “Ill.mo Professore e Caro Collega,

    il giuramento di cui Ella ha avuta la cortesia di farmi leggere la formula, mi porrebbe in contraddizione con i miei precedenti politici, e con la dottrina che ho sempre professata. Né più potrei riprendere a continuare il mio insegnamento teorico della Finanza e dell’Economia senza ricorrere alle riserve mentali di uso comune, che a me ripugnano. Sono, per ciò, venuto nella decisione - quanto mai per me penosa - di chiedere il collocamento a riposo. Mi permetto di accludere la domanda, grato se vorrà trasmetterla a S.E. il Ministro.

    Roma 5 novembre 1931”.


Fra le pubblicazioni scientifiche vanno specialmente ricordate

    “Monete e prezzi” (Città di Castello, 1885);
    “Saggi di economia e di finanza” (Città di Castello, 1898);
    “Il carattere teorico dell’economia finanziaria” (Roma, 1888);
    “La funzione della banca” (in Rendiconto dei Lincei, 1898, ristampato a Torino nel 1934);
    “Principi di economia finanziaria” (Torino, 1934, edito anche in inglese e in tedesco).


I suoi principali scritti politici sono stati raccolti nel volume: “Un trentennio di lotte politiche (1894-1929)”.

Ernesto Rossi 


Discorso tenuto da Ernesto Rossi alla Fiera del Levante il 12 settembre 1948, alla presenza del Presidente della Repubblica, e pubblicato a cura dell’amministrazione della provincia di Bari.


Ringrazio gli amici pugliesi che hanno voluto affidarmi il compito di questa commemorazione. Ho accettata la loro offerta perché avevo un debito di riconoscenza che desideravo in qualche modo assolvere verso De Viti De Marco e perché mi è sembrata fosse questa una buona occasione per leggere pubblicamente alcune delle pagine di maggiore attualità fra quelle che egli ci ha lasciate.

Ho un primo debito di gratitudine verso De Viti De Marco, prima di tutto per ciò che mi ha insegnato con i suoi scritti di economia finanziaria e di politica, e poi per la cordialità con la quale mi ha sempre accolto in casa sua e per l’interessamento che ha dimostrato verso di me durante il periodo in cui ero in carcere.

Conobbi personalmente De Viti De Marco nel 1925, per mezzo di Salvemini, che da molti anni gli era intimo amico, e subito fui affascinato dalla sua bontà, dalla sua intelligenza, e dal suo tratto da gran signore. Queste ultime parole possono oggi sembrare un elogio fuori posto a coloro che ritengono l’aggettivo “democratico” sinonimo di “scamiciato”, o di “sbracato”. Basterebbe l’esempio di De Viti De Marco per dimostrare quanto questa identificazione sia errata. Nessuno più di lui era preoccupato degli interessi generali del popolo; nessuno più di lui sentiva l’urgenza di elevare il tenore di vita e la educazione degli ultimi strati sociali per portarli ad una sempre più consapevole e libera partecipazione alla vita dello Stato; ma nella sua figura, in tutte le sue parole, nel senso di misura che metteva nei suoi gesti e in tutto quello che faceva, De Viti De Marco era veramente un gran signore; naturalmente otteneva il rispetto di tutti coloro che l’avvicinavano perché si capiva che per primo egli rispettava sé stesso.

Nel 1925, quando lo conobbi, stava rivedendo le sue dispense universitarie, di cui solo nel 1923, dopo 43 anni di insegnamento, aveva consentito la stampa, in un ristrettissimo numero di copie, per i suoi studenti. Nella prefazione a queste dispense, pubblicate nel 1923, dopo un richiamo ai suoi precedenti didattici De Viti De Marco scriveva:

    “Intendo ringraziare alcuni dei miei colleghi che mi hanno fatto l’onore insigne di tener conto, nei loro pregevoli scritti, delle mie lezioni litografate, quantunque abbiano dimenticato di ricordarne l’esistenza”.

Mi pare ancora di vedere il lampo di benevola arguzia che illuminava il suo sguardo dietro le lenti.

Quel che mi fece più impressione, discutendo la prima volta con De Viti De Marco le idee che egli doveva poi sviluppare nel suo grande trattato, fu la sua modestia, la sua capacità di prendere in considerazione anche le critiche di un “pivellino”, di un giovane sconosciuto quale io ero, per trarre incitamento ad approfondire il proprio pensiero, per continuare nell’appassionante ricerca della verità.

E solo questo, non titoli accademici ed il numero delle opere stampate, distingue, secondo me, l’intellettuale dal “pennarulo”.

Il De Viti De Marco amava più discutere che scrivere. Direi quasi che provasse una certa ripugnanza a scrivere perché nonostante la linearità del suo pensiero, che collega le ultime pagine alle prime quasi fossero state scritte contemporaneamente, riteneva di non essere sufficientemente chiaro: gli sembrava di non aver mai raggiunta la forma definitiva di espressione.

Se - come è stato detto e come io credo - per uno scrittore, chiarezza equivale ad onestà, basta leggere gli scritti di De Viti De Marco per dare un giudizio sulle sue qualità morali.

Come il Ferrara, come il Pareto, come il Pantaleoni - che con lui hanno formato il piccolo gruppo di economisti che hanno veramente onorato la scienza italiana, a cavallo fra i due secoli - il De Viti De Marco aveva in uggia tutte le teorie astratte, nebulose, ermetiche che direttamente o indirettamente derivano dalla filosofia hegeliana. Per poter ragionare, anche lui riteneva che i concetti dovessero essere nettamente definiti: le categorie da utilizzare come strumenti di lavoro dovevano essere scatole con pareti ben squadrate, che consentissero di capire quel che c’era dentro e quel che ne rimaneva fuori.

“Sarà un bravo giovane - mi disse un giorno parlandomi di Piero Gobetti - ma gli ho rimandata la sua “Rivoluzione Liberale” perché scrive in un modo che non riesco proprio a capire quello che vuol dire. Io non sono un filosofo”.

Lunghe discussioni di economia, e specialmente di politica, ebbi poi con De Viti De Marco nelle due settimane che fui suo ospite, nel 1928, per raccogliere gli scritti che vennero pubblicati nel volume “Un trentennio di lotte politiche”. Di quelle giornate conservo ancor vivo il ricordo per il sereno godimento intellettuale che mi dette conoscere meglio l’umanità del De Viti De Marco.

Egli era più un artista che uno scienziato. Aveva scarsissima memoria e quindi doveva continuamente riscoprire le stesse verità a cui era già arrivato per suo conto. Bastava dare un’occhiata alla sua biblioteca per capire che le sue opere non erano il frutto di un lavoro ordinato, sistematico. Non aveva alcun aiuto di schedari con riferimenti ai diversi autori. In mezzo alla stanza della biblioteca c’era un lunghissimo tavolo con una massa di libri e di fogli in gran confusione. Quando l’estate andava in campagna copriva il tavolo così com’era con un lenzuolo, ed al suo ritorno non permetteva a nessuno di rimetterlo in ordine. Procedeva nel suo lavoro per rapide intuizioni più che per caute deduzioni logiche.

Amava le cose belle. La sua bella villa di Roma se l’era costruita aggiungendo e rifacendo, secondo i suoi piani, su un vecchio edificio rustico, e se l’era ammobiliata secondo i suoi gusti.

Ma la sua maggior passione era l’agricoltura. Quando parlava dei miglioramenti introdotti nei fondi, o della ricostruzione che per primo nella provincia aveva fatta dei vigneti filosserati, o della piccola invenzione che gli aveva consentito di raffreddare automaticamente il mosto durante la vinificazione, si entusiasmava più che per qualsiasi altro argomento.

In carcere ebbi poi ancora più volte notizie di De Viti De Marco dai miei familiari che, arrivando a Roma andavano spesso da lui, trovando sempre la più cordiale accoglienza, nonostante le seccature che si tiravano addosso coloro che mantenevano rapporti con i detenuti politici. E l’atto di coraggio civico che non dimenticherò mai, e per il quale specialmente ho verso di lui il debito di gratitudine a cui ho accennato in principio, furono le poche righe che egli premise, nel giugno del 1931, alla edizione tedesca del suo trattato: ringraziandomi, con le parole ch’egli sapeva mi avrebbero potuto fare più piacere, per la revisione critica che io avevo fatto del trattato, il De Viti De Marco, non solo scrisse, per ben individuarmi, il mio nome e cognome e il riferimento all’Istituto tecnico di Bergamo in cui avevo insegnato, ma precisò anche: “recentemente condannato dal Tribunale speciale a 20 anni di carcere come uno dei capi dell’organizzazione politica Giustizia e Libertà”. Fu questa una manifestazione di solidarietà verso chi era in carcere e un atto di accusa contro il fascismo, che forse nessun altro intellettuale si sarebbe allora azzardato di fare pubblicamente in Italia.

Lo stesso giorno in cui, il 31 luglio del 1943, uscii da Regina Coeli, telefonai per domandare notizie della sua salute. Sapevo che era a letto gravemente ammalato da molti mesi. I suoi familiari mi dissero che desiderava vedermi e mi scongiurarono di non lasciare Roma senza essere stato prima a trovarlo. Nonostante avessi un’ansia vivissima di tornare subito dai miei, mi fermai a cena e a dormire a casa sua. Lo trovai che quasi non riusciva a parlare. Ma la sua testa conservava ancora la nobiltà dei vegliardi disegnati da Michelangelo. Mi abbracciò commosso. La mattina successiva mentre, prima di partire, prestissimo, stavo facendo colazione, lo vidi entrare sostenuto dalla donna di servizio. Dal piano di sopra aveva voluto in tutti i modi farsi accompagnare nella stanza da pranzo per stare ancora qualche minuto con me. Mi tenne a lungo la sua mano pesante sulla mia e pareva volesse dirmi tante cose. Ma non disse parola.

Poi non l’ho rivisto mai più. Sono passai ormai cinque anni, ma quell’addio mi pare di ieri.

Quando rifletto a quello che è stato per me De Viti De Marco devo concludere che, se la sua figura spicca col più forte rilievo nella mia mente non è tanto per la stima grande che ho di lui come economista; né perché dalle sue opere ho preso alcuni schemi concettuali che mi sono stati e mi sono molto utili per la migliore comprensione dei fenomeni finanziari. E’ perché il De Viti De Marco, fra gli uomini che ho conosciuti della generazione precedente alla mia, è uno dei pochissimi (fra i meridionali lo metto in compagnia solo di Giustino Fortunato e di Gaetano Salvemini) che abbia veramente impersonato quei valori che sono l’espressione suprema della nostra civiltà. Dico “nostra civiltà”, e non civiltà occidentale, perché tutti i popoli, anche quelli dell’oriente, possono divenire civili solo in quanto riconoscano in forma sempre più ampia e conformino in modo sempre più consapevole la loro vita a tali valori.

Questi valori non consistono certo nella bomba atomica e nel perfezionamento degli altri mezzi di distruzione; e neppure consistono nell’aumento dei beni e dell’attrezzatura produttiva, nella rapidità dei trasporti, nelle invenzioni meccaniche ed in altri materialistici aspetti del così detto progresso tecnico. Un popolo può progredire in tutto questo e diventare sempre più barbaro. Civiltà significa rafforzamento della coscienza morale, tolleranza verso tutte le eresie, ricerca disinteressata del vero, sforzo continuo per creare le condizioni che consentano una sempre più completa espressione della personalità umana.

Se, nonostante tutte le sue deficienze, le sue ingiustizie, i suoi orrori, noi non rinneghiamo la nostra civiltà, ma anzi ci sforziamo di difenderla e di potenziarla, è perché uomo civile è per noi un uomo come il De Viti De Marco.

Il pensiero politico di De Viti De Marco rientra nella grande corrente del pensiero liberale-democratico, che, scaturendo dall’illuminismo del ‘700, trovò nel secolo scorso i suoi maggiori teorici in Bentham e in Stuart Mill. La tradizione perde il suo fascino religioso; è rispettata come forza conservatrice solo in quanto determina i sentimenti e i bisogni dei viventi. L’unica guida per trovare la strada verso forme superiori di convivenza sociale è la ragione. Tutte le leggi e le istituzioni vengono continuamente sottoposte alla critica per accertare se rispondano effettivamente all’interesse collettivo, così come viene inteso dalla maggioranza, in rapporto al mutare continuo delle conoscenze, dei sentimenti e dei bisogni. Tutti i vantaggi che l’ordinamento giuridico assicura a individui e gruppi particolari, tutti i vincoli e le limitazioni alle libertà individuali vanno saggiati a questa pietra di paragone e devono essere eliminati se non trovano una sufficiente giustificazione nell’interesse collettivo. Fiducia solo nella persuasione per indurre gli uomini ad attuare quel che la ragione consiglia. Rifiuto di ogni mezzo coattivo per imporre la verità.

Questo atteggiamento lo ritroviamo in tutti gli scritti politici del De Viti De Marco: in quelli che riguardano particolarmente l’Italia meridionale; in quelli che considerano questioni di carattere nazionale ed in quelli che prendono in esame i maggiori problemi internazionali.

Sul pensiero scientifico del De Viti De Marco economista non parlerò affatto, perché non mi sembra questa l’occasione opportuna. Ricorderò, invece, il suo pensiero politico, cominciando dai suoi scritti e dai suoi discorsi sui problemi del Mezzogiorno.

Per il De Viti De Marco anche questi problemi sono essenzialmente problemi di giustizia sociale; non sono altro che particolari aspetti della lotta contro i privilegi, contro gli sperperi, contro le camorre.

Prima di tutto contro i privilegi che nascono dalla politica perfezionista.

Il De Viti De Marco fu uno dei primi e più decisi avversari della tariffa doganale del 1887.

Tutti gli ostacoli agli scambi con l’estero danneggiano in due modi gli agricoltori meridionali - egli spiegava fin dal 1890 - e perché la contrazione delle esportazioni li costringe a vendere le derrate agricole a prezzi più bassi, e perché la riduzione delle importazioni li obbliga a comprare i manufatti industriali a prezzi più alti.

Contro Luzzatti e altri politicanti che volevano dare a intendere che, in conseguenza delle tariffe doganali, gli agricoltori avrebbero avuto un compenso per le diminuite esportazioni con l’aumento degli scambi interni, il De Viti De Marco spiegava:

    “L’interesse industriale italiano e quello agricolo sono in antagonismo naturale e necessario; vi è tra essi il contrasto che si manifesta quando un ettolitro di vino si scambia con uno o con due metri di stoffa”.

Questo contrasto secondo il De Viti De Marco non poteva essere superato facendo appello alla solidarietà nazionale contro gli stranieri.

     “Non esiste un interesse italiano comune ed omogeneo a tutti i produttori italiani, contro un interesse tedesco, o svizzero o austro-ungarico, similmente comune ed omogeneo a tutti i gruppi produttori in ciascuna di queste nazioni. Esistono invece, in ognuna di esse, interessi antagonistici, alcuni dei quali sono favoriti, altri offesi dalla rispettiva tariffa modanale. E però esiste in Italia un interesse agricolo e in Germania un interesse industriale che si danno la mano per concludere trattati nel reciproco interesse. Similmente esiste in Italia un interesse industriale e in Germania un interesse agricolo che si danno la mano per non concludere trattati”.

Il contrasto assumeva in Italia un carattere regionale solo per la circostanza accidentale che gli interessi industriali trovavano nel Nord la loro maggiore rappresentanza e quelli agricoli nel Sud. Ma gli agricoltori meridionali “difendendo il loro interesse di esportatori difendono l’interesse di tutte le industrie italiane esportatrici, cioè di tutte le forze vive e vitali dell’espansione commerciale italiana”.

La protezione doganale non può proteggere l’industria nazionale. Questo è uno dei punti sui quali il De Viti De Marco ha più insistito nella sua propaganda.

    “Certo - egli spiegava - la singola industria nazionale che per mezzo del dazio è riuscita a scacciare il molesto concorrente è una delle industrie nazionali, ma non è, né rappresenta l’industria nazionale. Il ragionamento protezionista non va oltre il bilancio particolare di una industria alla volta; ma perde di vista le ripercussioni necessarie che gli extra profitti realizzati dagli industriali protetti esercitano sui bilanci di quelli che non sono protetti; costoro pur fanno parte dell’industria nazionale, ma sono chiamati a un’altra funzione economica: quella di pagare i prezzi artificialmente più alti, cioè di pagare sui loro ordinari guadagni di straordinari guadagni degli altri. Per i protezionisti il lavoro nazionale è rappresentato soltanto dalle industrie protette. Le altre, tra cui l’agricoltura, pare che non impieghino lavoro nazionale e però non meritino gli stessi riguardi”.

    “D’altra parte - egli ammoniva rispondendo a coloro che l’accusavano di sollevare il Sud contro il Nord, quando sarebbe stata già necessaria la concordia fra tutti gli italiani - un naturale contrasto di interessi economici non si trasforma e degenera in conflitto politico, se non quando interviene un atto legislativo che alteri artificialmente e coattivamente i termini naturali dello scambio”.

    “L’azione a cui invito i miei amici e concittadini non è regionalista, ma essenzialmente unitaria e patriottica - affermava nel 1903 - perché, con la difesa del diritto e la conseguente eliminazione di una ignobile legislazione di classe e di regione, si mira ad elevare il Mezzogiorno economico e sociale al livello dell’altra parte d’Italia. Fino a quando noi faremo durare la sperequazione tributaria e quella ancora più grave della legislazione doganale e della politica commerciale, noi non saremo un grande paese di 33 milioni d’abitanti, ma un piccolo stato, grande quanto il Belgio e l’Olanda, che sta a piè delle Alpi, e una popolosa colonia di sfruttamento, che si stende lungo l’Appennino al mare”.

I 33 milioni di abitanti sono diventati 46 milioni. Sono mutati completamente gli strumenti della politica protezionista. Ormai guardiamo con rimpianto ai bei tempi in cui, nonostante la protezione doganale, anche nel commercio internazionale funzionava il meccanismo del mercato per riadattare continuamente la produzione nazionale alla domanda: si potevano importare tutte le merci che si volevano al prezzo internazionale aumentato del dazio, che costituiva solo un ostacolo analogo a quello per le spese di trasporto; il mercato era più ristretto di quello che altrimenti sarebbe stato, ma, almeno nel suo interno, era ancora possibile raggiungere un equilibrio di concorrenza. Le tariffe doganali ormai non hanno più alcun significato in confronto ai controlli sui cambi, alle casse di compensazione, ai contingentamenti, alle assegnazioni, ai permessi di importazione, e a tutte le altre diavolerie, con le quali ogni particolare scambio con l’estero è ormai sottoposto all’arbitrio dei politicanti e dei burocrati. Il gioco è diventato molto più complesso e di difficile comprensione per i laici. A tutti i vecchi sofismi protezionistici si è aggiunto quello monetario, col quale i cosiddetti “esperti”, con un linguaggio sempre più ermetico, spiegano la necessità di un continuo intervento dello Stato per assicurare il pareggio nella bilancia dei pagamenti internazionali. Ma la sperequazione derivante dalla politica commerciale non è stata ridotta, anzi è stata enormemente aggravata, negli ultimi due decenni, sicché le parole del De Viti De Marco conservano tutto il loro valore.

    “Nell’ora attuale - ripeto quello che egli diceva 45 anni fa - siamo alle mercè degli industriali che hanno il loro quartiere generale nello Stato libero di Sant’Ambrogio, e di là dirigono, capi irresponsabili, la politica commerciale italiana”.

In secondo luogo la campagna del De Viti De Marco fu diretta contro tutti i privilegi tributari e contro le leggi che, dietro un’apparenza di uniformità di trattamento per tutta l’Italia, discriminavano a danno delle regioni meridionali, per la diversità delle condizioni in cui queste si trovavano.

Così, ad esempio, l’imposta fabbricati esentava le case rurali perché il loro reddito giustamente era compreso in quello delle terre di cui erano beni complementari. Ma la definizione formale della legge era tale che la stessa casa, adibita al ricovero dei lavoratori e della conservazione dei prodotti e alla custodia degli animali era colpita nel Mezzogiorno dall’imposta edilizia, perché la popolazione agricola meridionale non vive sui fondi, ma in agglomerazioni e in centri abitati.

Così pure la legge uniforme faceva sentire molto più grave il peso dei dazi consumo nell’Italia meridionale, in cui la popolazione viveva agglomerata, che nell’Italia settentrionale e centrale in cui era più sparsa.

E quel che il De Viti De Marco diceva per la legislazione tributaria lo ripeteva per i lavori pubblici, per la scuola, per il credito, per le assicurazioni sociali.

Un sussidio uniforme chilometrico alle imprese private per la costruzione delle ferrovie avvantaggiava il Nord, perché si costruivano più ferrovie dove c’era più traffico. Il rimborso della stessa percentuale del costo della bonifica avvantaggiava il Nord, perché il capitale veniva investito di preferenza nelle bonifiche settentrionali in cui, a parità di costi, il rendimento era maggiore. Un uguale contributo a tutti i comuni per il mantenimento delle scuole avvantaggiava il Nord, che aveva un numero maggiore di scuole. Il credito a condizioni di favore alle industrie avvantaggiava il Nord, dove era situata la maggior parte delle industrie. Le assicurazioni sociali avvantaggiavano il Nord perché erano riservate agli operai delle fabbriche, mentre nel Mezzogiorno la quasi totalità dei lavoratori eran contadini.

Se il soldi con cui venivano fatte queste spese, a vantaggio particolare del Nord, fossero piovuti dalla luna, i meridionali non avrebbero avuto ragione di lamentarsi. Ma i sussidi, i contributi, le pensioni e gli altri interventi dello Stato erano pagati con i soldi dei meridionali. Così avveniva che le province più povere del Mezzogiorno erano costrette a fare regali alle province più ricche del Settentrione.

E quello che il De Viti De Marco rilevava al principio del secolo dobbiamo rilevarlo oggi, in forma molto più grave.

Il De Viti De Marco ci ha insegnato a distinguere dietro le apparenti uniformità della nostra legislazione, le iniquità sostanziali verso il Mezzogiorno.

Si aggrava la pressione tributaria, si mettono nuove imposte su tutti senza perfezionare l’amministrazione finanziaria; in conseguenza cresce l’evasione dei redditi mobiliari in confronto a quella dei redditi immobiliari, più difficilmente occultabili, e così aumenta la sperequazione a danno del Mezzogiorno, in cui la proprietà fondiaria costituisce una parte molto più rilevante della ricchezza generale. Lo Stato stampa cinque miliardi al mese per mantenere in piedi le aziende IRI, ma la maggior parte delle aziende IRI sono nel Nord. Le assegnazioni di materie prime a condizioni di favore, le ordinazioni statali a prezzi che coprano i costi calcolati dai produttori, la sanatoria per il mancato versamento dei contributi assicurativi, questi e molti altri favori dello stesso genere lo Stato li concede esclusivamente alle grandi industrie, la maggior parte delle quali sono localizzate nel Settentrione. Lo Stato fa prestiti e garantisce il credito da parte di finanziatori stranieri ad aziende “decotte” che non restituiranno mai i quattrini, ma queste aziende si trovano quasi tutte nel triangolo Milano-Torino-Genova. Il “jurnataro” siciliano, il bracciante pugliese se la mattina non trova chi lo ingaggia al lavoro, difficilmente riesce ad ottenere il sussidio di disoccupazione e se l’ottiene è di 219 lire al giorno e dura solo tre mesi. Ma chi ha avuto la fortuna di essere assunto durante la guerra in uno stabilimento del Nord - anche per il lavoro più eccezionale, più provvisorio - col blocco dei licenziamenti è diventato intoccabile. Continua a ottenere la paga quasi completa, oggi di un migliaio di lire al giorno, anche se da tre anni non lavora perché in soprannumero.

La uniformità delle leggi molte volte mette in condizioni di parità per il Sud rispetto al Nord come, nella favola di Esopo, la volpe metteva in condizione di parità la cicogna, che aveva invitato a cena, dandole il cibo su un piatto senza fondo eguale al suo.

Noi vogliamo atti di giustizia sociale e non concessioni graziose, ha detto e scritto mille volte il De Viti De Marco. Questa era ed è l’impostazione giusta dei problemi del Mezzogiorno. Ma bisogna riconoscere che le parole del De Viti De Marco come quelle del Salvemini, del Fortunato, e degli altri meridionalisti che tenevano il suo stesso linguaggio, hanno riscosso scarsi consensi tra i meridionali.

Se il problema del Mezzogiorno, dopo tre quarti di secolo dall’unificazione, è ancora un problema insoluto la colpa maggiore è dei meridionali. I meridionali possono contare sulla comprensione e sull’aiuto di quella élite di tutte le regioni dell’Italia che è sensibile agli appelli per una maggiore giustizia sociale e che considera il problema del Mezzogiorno come uno dei più importanti problemi nazionali.

Ma non possono pretendere che i settentrionali in generale prendano a cuore i problemi del Mezzogiorno come se fossero i loro problemi.

Chi vuole Cristo se lo preghi - dicono a Firenze. Devono essere i meridionali a organizzarsi per la difesa dei loro comuni interessi, a impostare bene i loro problemi, ad agire con intelligenza, con tenacia, con onestà per realizzare le migliori soluzioni.

Invece… invece… E’ meglio che anche qui faccia parlare il De Viti De Marco.

    “La politica dello Stato - egli scriveva - sfugge completamente all’esperienza pubblica dei meridionali. Il più largo orizzonte è il municipio; il campo di lotta è il consiglio comunale. Il deputato deve solo aiutarli presso il governo centrale, dal cui arbitrio tutta la vita locale dipende, per ottenere o impedire una vittoria amministrativa; in tutto il resto egli è libero; può votare il dazio sul grano, o la tariffa protezionista, o la rottura di un trattato di commercio, o la spedizione africana, o la guerra, o le imposte; tutto egli può fare: per un trasloco di un prefetto o di un pretore, o per una grazia o per il condono di una multa, o per un concordato coll’agente delle imposte, egli può mercanteggiare a Roma l’interesse di tutta una regione che paga con miliardi della sua proprietà le bizze di una lotta di consiglieri comunali”.

E’ una diagnosi scritta mezzo secolo fa. Possiamo dirla superata?

Non credo. Non lo credo perché molte volte ho dovuto io stesso constatare la facilità con la quale a Roma riescono a trovare rappresentanti del Mezzogiorno che, nelle commissioni e nelle conferenze economico di carattere nazionale, facciano la parte dei finti tonti, consentendo supinamente al punto di vista dei settentrionali. La figura del “rappresentante del Mezzogiorno” somiglia, direi, a quella del “rappresentante dei consumatori”, che gli uomini di governo hanno sempre molto piacere di veder comparire nelle commissioni incaricate di risolvere i problemi economici generali: sulla giacca di qualsiasi “Pinco Pallino” che aspira ad una piccola indennità e ad una modesta soddisfazione delle sue ambizioni personali, attaccano un cartello con scritto “rappresentante dei consumatori”; non c’è poi pericolo che dia noia a nessuno. Ed al pubblico, pare impossibile, ma fa una buona impressione leggere sui giornali che, nella seduta del comitato per le importazioni, o per la determinazione dei prezzi, o per le assegnazioni delle materie prime, era presente anche “Pinco Pallino” che aveva il compito di difendere gli interessi dei consumatori.

De Viti De Marco parlando del modo in cui venivano formate le delegazioni per i trattati di commercio formate le delegazioni per i trattati di commercio nel 1903, osservava amaramente:

    “E’ probabile si cerchi un meridionale che si associ al collegio dei negoziatori. Ma di meridionali pronti a fare gli interessi del Settentrione, è piena la storia politica d’Italia ed è pieno il Mezzogiorno”.

Finché le cose continueranno ad andare così; finché i meridionali non leveranno con energia la loro voce contro tutti i “Pinchi Pallini” che si arrogano di rappresentare nelle commissioni economiche gli interessi del Mezzogiorno, senza alcuna delega da parte dei meridionali; finché i meridionali non impareranno a scegliere per rappresentanti uomini che si preoccupino veramente degli interessi generali delle loro regioni, la soluzione del problema del Mezzogiorno non potrà fare un passo in avanti.

Il problema del Mezzogiorno è essenzialmente un problema di uomini: è il problema della formazione di una classe dirigente, veramente degna di questo nome, nell’Italia meridionale.

     “Se da noi - scriveva il De Viti De Marco -, più che altrove, manca una opinione pubblica, ciò è dovuto anzitutto al fatto che troppi qui aspettano che il Governo provveda. Questa attitudine ricorda da vicino le tradizioni dell’assolutismo e accarezza la inveterata tendenza nostra al fatalismo politico. Se non vi aiutate voi, né la Provvidenza, né il Governo vi aiuteranno; poiché il governo parlamentare è più che mai il rappresentante di interessi organizzati; e se voi vi astenete dall’organizzarvi per la vostra difesa, non isperate la salvezza dal di fuori, e dal governo italiano meno che da qualunque altra forza esterna”.

Ho detto che, nel pensiero del De Viti De Marco il problema meridionale è solo un aspetto della lotta contro gli sperperi, contro i privilegi, contro le camorre, contro quella che egli chiamava la “quadruplice interna”: l’oligarchia burocratica, l’oligarchia militare, l’oligarchia industriale e l’oligarchia proletaria.

Combattere contro questa “quadruplice” sul piano nazionale significa prendere un atteggiamento estremamente impopolare su quasi tutti i problemi di interesse collettivo, perché significa offendere i gruppi particolari che valutano molto bene il danno diretto, immediato, che risentirebbero da ogni radicale mutamento della situazione creata a loro favore dalla legislazione speciale. Questi gruppi si agitano, prendono iniziative, si danno da fare, per trovare appoggi nella stampa, nei sindacati, nei partiti politici, nel parlamento, dovunque; si arrampicano sugli specchi per dimostrare che il loro interesse sezionale coincide con l’interesse dell’intera collettività; impietosiscono il pubblico mostrando la loro miseria, domandando come potrebbero vivere se non facessero quello che oggi fanno; minacciano di prendere le più estreme risoluzioni se il governo si azzarda a toccare i diritti acquisiti.

D’altra parte la grande massa dei veri produttori, ed in genere dei consumatori non privilegiati, difficilmente è disposta a sostenere coloro che vogliono seriamente aumentare la produttività del lavoro e ridurre gli sperperi, perché i resultati di questo indirizzo difficilmente sono riconoscibili da chi non è abituato all’analisi economica, e, in tutti i modi, tendendo a migliorare l’ambiente, a dare a tutti maggiori possibilità di successo nella vita, nessuno può sapere se e quando ne ricaverà individualmente un beneficio e valutarlo in lire nel proprio bilancio familiare.

L’uomo comune che in regime democratico, attraverso i suoi rappresentanti al parlamento e al governo, fa le leggi e amministra la cosa pubblica, interpreta ancora i fenomeni economici con la ingenua semplicità del selvaggio appena arrivato nel mondo civile dalle più tenebrose foreste dell’Africa centrale: ritiene ci sia “sfruttamento dell’uomo sull’uomo” tutte le volte che un datore di lavoro fa profitti vendendo il prodotto ottenuto con la collaborazione di operai che guadagnano poco, senza in nessun modo prendere in esame l’utilità sociale dell’opera del datore di lavoro e le condizioni alternative che si presenterebbero al lavoratore se quel datore di lavoro scomparisse; non immagina neppure gli innumerevoli modi di sfruttamento legale che oggi consentono di accumulare le più grandi fortune senza bisogno di far lavorare dei salariati, ottenendo dallo Stato monopoli, permessi di importazione, assegnazioni a condizioni di favore, facilitazioni sui cambi controllati, interventi per speculare in borsa a colpo sicuro; non riflette che certe forme di parassitismo distruggono somme di ricchezza enormemente maggiori di quelle di cui fan beneficiare i parassiti e non concepisce che possa essere un parassita anche colui che appena riesce a campare con quel che guadagna: non pensa che mille tafani possono succhiare più sangue di una sola sanguisuga. Sempre insoddisfatto per la insufficienza dei suoi mezzi in confronto ai suoi desideri, accetta come buone tutte le dimostrazioni che gli interessati fanno di aver diritto, per vivere decentemente, ad un aumento delle remunerazioni, continuando a lavorare come lavorano, anche quando il loro lavoro è socialmente meno utile che pesare l’acqua in un mortaio. Non pensa che quando si elevano le remunerazioni degli uni al di sopra della loro produttività, necessariamente si abbassano le remunerazioni degli altri. Anzi, dando il suo appoggio alle rivendicazioni di qualsiasi gruppo di salariati, anche di coloro che hanno remunerazioni di gran lunga superiori alle sue, ha sempre l’impressione di contribuire ad un aumento del livello generale dei salari, di cui egli stesso potrà beneficiare in un successivo momento. Nel caso l’impresa in cui sono occupati coloro che chiedono i miglioramenti non possa dare salari maggiori senza fallire…ebbene provveda in qualche modo lo Stato. Non tiene conto che quel che lo Stato dà agli uni toglie agli altri, lo toglie anche a lui. Nel suo intimo è convinto che se il governo sapesse fare il suo mestiere, potrebbe risolvere la questione sociale stampando biglietti e distribuendoli generosamente a tutti coloro che ne hanno bisogno.

Contro questi sofismi, per educare l’uomo comune a ragionare un po’ meglio sulle questioni economiche, nell’interesse della collettività e nel suo stesso interesse, il De Viti De Marco ha continuato la sua critica e la sua propaganda impopolare fino a quando il fascismo non gli impedì di scrivere e di parlare.

Il carattere di questa propaganda risulterà chiaro da alcuni brani che adesso leggerò e che, se non ne conoscessimo la data, potremmo credere pubblicati su un giornale o su una rivista di oggi:

    “Più crescono gli stipendi degli impiegati e più diminuiscono i salari dei lavoratori; più crescono le imprese pubbliche passive e più diminuiscono le imprese private attive; più si assumono impiegati per soccorrere la disoccupazione o la pigrizia mentale dei figli della piccola borghesia e della burocrazia, e più cresce la disoccupazione involontaria dei veri lavoratori; più si eleva il tenore di vita di coloro che vivono negli uffici pubblici, e nelle imprese di Stato, e più si abbassa il tenore di vita di coloro che lavorano nei campi e nelle officine. La disoccupazione di particolari gruppi di lavoratori è uno dei pretesti per elargire il risparmio nazionale ad imprese antieconomiche che producono beni il cui valore di mercato non copre il costo. Il che vuol dire che si impiega lavoro per distruggere materie prime, che altrimenti sarebbero trasformate in beni utili da altre imprese. Ora sono queste soltanto che possono razionalmente curare la disoccupazione. Le prime ne eliminano temporaneamente il sintomo, ma ne aggravano permanentemente la causa”.

Sono verità semplici, verità elementari, che pare dovrebbero essere subito capite da ogni persona di buon senso. Ma su quali giornali oggi si leggono? E chi è veramente disposto a sostenere un governo che si impegni seriamente a tenerle come bussola di orientamento per la sua politica economica?

Non certo i partiti a più larga base popolare che si presentano come i sostenitori degli interessi della povera gente. Essi continuano nella loro vecchia politica - oggetto delle più vive critiche da parte del De Viti De Marco - che consiste nel vendere gli interessi dell’intera classe lavoratrice, per giovare ai gruppi che hanno un maggior peso elettorale. Così il De Viti De Marco faceva il bilancio dei resultati dei compromessi, del do ut des tra i vecchi gruppi parassitari della borghesia e i nuovi gruppi parassitari del proletariato:

    “I partiti popolari non hanno mai fatto una campagna a fondo, né contro il sistema doganale, né contro il sistema tributario, né contro l’imperialismo e il militarismo, né contro gli zuccherieri, né contro le sovvenzioni marittime; appunto perché in cambio del dazio sul grano e sui ferri, in cambio delle spese militari, han preferito ottenere una nuova fettolina di leggi sociali: - a voi il dazio sul grano, a noi il riposo festivo; a voi i dazi industriali, a noi i probiviri; a voi un nuovo corpo di esercito, a noi la cassa di maternità, a voi il regime degli zuccheri, a noi la banca per le cooperative, a voi i grassi appalti e i palazzi di giustizia; a noi qualche bonifica a prezzi di favore; a voi le sovvenzioni marittime, a noi qualche esenzione fiscale per le case popolari. Entrati nella via del compromesso, la legislazione sociale non può non degenerare rapidamente, diventa un complesso di leggi e provvedimenti e favori, a beneficio non della intera classe lavoratrice ma di alcuni gruppi proletari e a danno della collettività dei lavoratori”.

Ma le pagine del De Viti De Marco che hanno oggi più viva attualità, sono quelle ch’egli scrisse contro la sempre più crescente invadenza della burocrazia:

    “Gli interessi che vivono delle spese pubbliche - spiegava il De Viti De Marco nell’agosto del 1922 - si sono impadroniti della macchina legislativa. Ecco il punto centrale del problema. Anche qui troviamo la burocrazia in prima linea. Che con l’ingrandimento accentratore della macchina burocratica essa si sia giorno per giorno sottratta al controllo del ministro politico; che sia riuscita a rendersi a lui indispensabile ed abbia finito per asservirlo ai suoi interessi, è un processo che da lungo tempo si preparava in Italia. Che la burocrazia non sia più l’organo esecutivo della volontà del suo ministro, ma questi sia diventato il portavoce parlamentare dei ‘desiderata’ della sua burocrazia, è uno spettacolo al quale tutti abbiamo assistito.”

     “Su questa posizione di monopolio tecnico - concedendo o rifiutando favori a tutti i cittadini o enti che vengono a contatto con l’amministrazione (e chi oggi può evitare questi contatti?) - ha fondata la sua crescente potenza politica. Nella stampa, nel campo elettorale, nel parlamento, non ha operato come partito politico, ma come il più formidabile sindacato professionale. Disseminata in tutti i partiti ha posto la sua influenza politica al servizio dei suoi interessi economici di classe.”

    “Contro questa organizzazione burocratica il governo è impotente”.

Purtroppo questa impotenza è sempre più aumentata. Né possiamo farne una colpa al governo.

Quale governo può contenere la burocrazia nei suoi giusti limiti, ridurne i pletorici organici, impedirne la intromissione nel campo legislativo, eliminare i suoi poteri arbitrari, spezzare i vincoli camorristici che la legano ai gruppi parassitari, ripristinare la disciplina, stabilire efficaci controlli sugli uffici, se non è sostenuto dall’appoggio dell’opinione pubblica? E quali ceti, quali gruppi, quali organizzazioni sono oggi disposti ad appoggiare una politica così impopolare?

Bisogna che ognuno di noi assuma la sua parte di responsabilità.

Parlando degli sperperi governativi, il De Viti De Marco scriveva:

    “Di questa politica interna dissipatrice sono responsabili tutti i partiti: i conservatori che hanno offerto le elargizioni, e i popolari che le hanno accettate per favorire alcuni gruppi in danno della collettività dei contribuenti, cioè di tutta la massa della popolazione più povera. Il governo vorrebbe ora dar macchina indietro. Forse è tardi, ma noi dobbiamo aiutarlo, creando nel paese una corrente popolare che faccia da argine all’aumento indefinito delle spese”.

Non sembra questo un appello scritto per noi? Non sembra scritto per la nostra situazione presente?

“Forse è tardi”… Infatti era già tardi. E nelle ultime pagine politiche che il De Viti De Marco scrisse nel 1929, come prefazione a “Un trentennio di lotte politiche” non gli restò che tirare le somme del fallimento della democrazia, indicandone le principali ragioni:

    “Le nuove libertà - concesse forse più per spirito dottrinario che non per domanda del popolo - servirono di fatto ai nuovi arrivati per organizzarsi in difesa dei propri interessi e del proprio diritto; ma questa difesa non la fecero consistere nel combattere il privilegio altrui per arrivare all’egual trattamento di tutti sulla base della legge comune, ma nel reclamare nuovi privilegi per sé. Ogni nuovo privilegio era reclamato a titolo di egual trattamento con un privilegio preesistente. Così è avvenuto in Italia che il progresso dell’idea liberale e democratica è consistito nella graduale crescente estensione dei favori legislativi, passando dai gruppi maggiori ai minori, dai gruppi della vecchia formazione ai gruppi di nuova formazione, dai proprietari terrieri agli industriali, ai funzionari dello Stato, alle cooperative di braccianti, alle organizzazioni proletarie. Si ebbe la gerarchia dei grandi, dei medi e dei piccoli privilegi. Il parlamento diventò logicamente il mercato dove si negoziavano i grandi e i piccoli favori dello Stato, la cui spesa era fatta dalla gran massa dei consumatori e dei contribuenti. La difesa di questi era esulata dall’arena parlamentare. Ogni singolo elettore spingeva il singolo deputato su questa via e lo sfruttava per conseguire interessi particolari. Ma la massa anonima dei cittadini aveva finito per disprezzare l’istituto parlamentare”.

Il disastro a cui ci ha condotto il fascismo aveva ridato un certo prestigio alle istituzioni democratiche anche nel nostro paese: la massa anonima dei cittadini aveva speranza, aveva fiducia nell’ordine nuovo, che ci aveva restituita la libertà, che aveva ridato ad ognuno di noi la responsabilità della cosa pubblica. Questo patrimonio spirituale di speranze e di fiducia si sta esaurendo con una spaventosa rapidità per lo scarso senso dello Stato e dell’interesse collettivo di tutti coloro che fanno professione di politica. L’accumularsi degli errori sempre più diffonde l’idea fra gli uomini comuni - che ben poco del loro tempo possono dedicare alla politica, e che vogliono lavorare, allevar figlioli, avere un minimo di sicurezza di vita - che così non si può andare avanti. E questo è uno stato d’animo estremamente pericoloso per la democrazia.

    “Noi avemmo in comune col fascismo un punto di partenza, la critica e la lotta contro il vecchio regime - conclude nella citata prefazione il De Viti De Marco -. La nostra critica, però, intesa a creare nel paese una più elevata coscienza pubblica contro tutte le forme degenerative delle libertà individuali e del sistema rappresentativo, aveva pur sempre di mira la difesa e il consolidamento dello stato liberale e democratico. Così il nostro gruppo fu travolto”.

In queste parole è un ammonimento che non dobbiamo dimenticare.

Le stesse esigenze che portarono il De Viti De Marco a combattere la politica sezionalista nell’interno del paese dovevano condurlo, e di fatto lo condussero, a combattere la polititica sezionalista anche nel campo internazionalista. Insieme al Salvemini, col quale allora dirigeva il settimanale “L’Unità”, il De Viti De Marco fu il più intransigente avversario della politica nazionalista di Orlando e di Sonnino, e il sostenitore più fervido della politica Wilsoniana, che tendeva a sostituire il regno del diritto al regno della forza anche nei rapporti internazionali.

Nella prima campagna elettorale dopo la guerra, in un discorso a Gallipoli, egli avvertiva il pericolo che il trattato di Londra rappresentava per la conclusione di una pace democratica:

    “Il suo pericolo oggi sta in ciò: che se il Governo italiano si ostina a salvarne il più possibile, invece di prendere tutta un’altra via per risolvere il problema nazionale, rischia di dover consentire agli imperialismi degli altri”.

E’ quanto poi avvenne alla conferenza di Parigi, dove la delegazione italiana appoggiò, contro Wilson, le rivendicazioni ed occupazioni territoriali della Francia, contando di averne a sua volta l’appoggio nella questione adriatica, con i risultati che tutti ricordiamo.

    “Finora - aggiungeva il De Viti De Marco - la storia europea si è svolta tutta sulla lotta per le frontiere. Ogni guerra è finita imponendo una soluzione che ha dato origine ad una nuova guerra. Perché le frontiere politiche non coincidono con le frontiere etniche, e non c’è frontiera militare ed economica, di cui l’egoismo di una nazione non possa desiderarne una migliore. Da questo fatto elementare è nato e si è perfezionato il sistema degli armamenti, delle alleanze e dell’equilibrio militare, causa prima e superiore della guerra attuale”.

     “Ora si badi che coloro i quali vogliono uscire da questa vecchia tradizione di guerre ritornanti non ritengono neppure che gli equi compromessi fatti per trattati bastino per assicurare la pace durevole; e pensano perciò che quelli debbano essere integrati con la fondazione di un ente politico supernazionale che è o dovrebbe essere la Lega delle Nazioni; - solo organismo che può sottrarre le contese di frontiere allo stesso legittimo sentimento di nazionalità che le alimenta giorno per giorno e le mantiene vive.”

    “Però la Società delle Nazioni è la sintesi e la condizione ultima della pace democratica”.

Ma la Società delle Nazioni che il De Viti De Marco auspicava era un’organizzazione molto diversa da quella che venne poi realizzata. Essa avrebbe dovuto portare alla statalizzazione delle industrie belliche, alla abolizione internazionale della coscrizione militare obbligatoria, al sindacato internazionale dei bilanci militari nazionali, all’abolizione dei trattati segreti.

E’ evidente che fini di questo genere non avrebbero potuto essere raggiunti altro che limitando le sovranità nazionali, come, con la consueta chiarezza, già aveva spiegato durante la guerra Luigi Einaudi, sul “Corriere della Sera”, in due articoli divenuti ormai classici nella nostra letteratura federalista.

Invero non si può dire che il pensiero del De Viti De Marco fosse chiaro come quello dell’Einaudi sulle caratteristiche giuridiche che distinguono l’organizzazione federale vera e propria - che implica la costituzione di un governo supernazionale, composto dai rappresentanti direttamente eletti di tutti i cittadini della federazione e la istituzione di una cittadinanza federale - della organizzazione confederale, o lega, o società delle nazioni, che dir si voglia, la quale, lasciando inalterata la sovranità degli stati nazionali, sostanzialmente non può essere niente di più che una conferenza permanente di ambasciatori.

Oggi, dopo il disastroso fallimento della Società delle Nazioni, ci è facile vedere quali ne erano i difetti strutturali, che impedivano il suo sviluppo in senso democratico, ma non altrettanto facile era riconoscerli quando mancava ancora questa esperienza.

Alla fine del 1919, in un discorso tenuto a Lecce, dopo aver dette le ragioni per le quali i democratici non potevano essere soddisfatti del trattato di Versailles, il De Viti De Marco aggiungeva:

    “Il trattato di Versailles è una tappa. E come tale deve essere approvato dal popolo e dalla sua futura rappresentanza. Ma dopo riprenderemo la lotta, Con la buona politica estera e senza nuove guerre, modificheremo, integreremo il trattato, infonderemo l’alito vitale all’organismo ancora esanime della Società delle Nazioni”.

Era, purtroppo, una illusione. L’organismo era esanime perché nato morto, Il principio dell’unanimità ed il diritto di recesso degli stati aderenti, inevitabili conseguenze del rispetto delle sovranità nazionali, rendevano impossibile qualsiasi sviluppo in senso democratico della Società delle Nazioni. Dare, come poi molti hanno dato, agli uomini di governo dei paesi democratici la colpa del fallimento dell’istituzione ginevrina è tanto assurdo quanto lo era dare la colpa alla malvagità dei capi delle diverse fazioni di non aver rispettate le “tregue del Signore” che santi uomini, con le loro prediche, riuscivano ogni tanto a far concludere, con grandi manifestazioni popolari di fraternità e di giubilo, nelle nostre città del Medio Evo. L’anarchia delle fazioni doveva necessariamente continuare finché un potere ad esse superiore non fosse stato capace di imporre a tutti il rispetto della legge comune. E la stessa cosa si deve dire per i rapporti internazionali.

Pure la Società delle Nazioni può essere considerata una tappa, come diceva il De Viti De Marco, verso l’ordine internazionale, così come la Confederazione americana del 1781, col dimostrare quali erano le insufficienze ed i pericoli della conservazione delle sovranità assolute degli stati, fu certamente una tappa per arrivare alla costituzione federale del 1789, che, eliminando ogni possibilità di guerre all’interno della federazione americana ed unificandone i mercati, ha consentito il suo sviluppo democratico fino alla presente prosperità e grandezza.

Il 16 marzo 1925, commemorando all’Università di Roma il grande economista Maffeo Pantaleoni, al quale era stato legato da una amicizia continuata inalterata 45 anni, nonostante i dissensi politici, il De Viti De Marco, dopo aver ricordato l’atteggiamento nazionalista preso dal Pantaleoni durante e dopo la guerra, osservò:

    “L’economista vide e non poteva non vedere, che il conflitto mondiale si risolveva in una gigantesca guerra civile intestina tra gli stati europei a vantaggio di altri continenti; preconizzò la necessità di una federazione almeno degli stati vittoriosi, per salvare la posizione del vecchio mondo nella nuova competizione dei continenti e anche per rendere possibile la riduzione degli eserciti stanziali, e manifestò la speranza che dalla federazione politica potesse anche nascere il disarmo doganale, che era ed è la macchina produttiva più potente per la ricostruzione economica dell’Europa e del mondo.

    Ma tutto ciò fu il lui come una visione lontana, di economia pura, di ciò che sarebbe stato teoricamente utile di fare, piuttosto che una previsione probabile di ciò che sarebbe avvenuto. E però nulla fece per spingere in quella direzione”.

E dopo aver rilevata la contraddizione, di chi, come il Pantaleoni, depone al confine politico le armi con le quali combatte nella politica interna gli egoismi di gruppo, il De Viti De Marco concludeva:

    “Ma qui mi fermo; perché qui nacque il dissenso politico che ci divise: anzi, che divise in due schiere la falange degli interventisti: divisione sull’ideale della pace mondiale, non sulla necessità della guerra italiana.

    Mi fermo perché non potrei continuare con lui la discussione or che è diventato un eterno assente, né vorrei concedergli, dopo morto, più di quanto feci in vita; perché Egli non accetterebbe l’elogio postumo, che l’ipocrisia dei viventi suole tributare ai morti.

    Passato il momento, la storia deciderà il dissidio, che ormai si proietta oltre di noi, nelle generazioni future”.

Oggi commemoriamo il De Viti De Marco, e il dissidio a cui Egli accennava non è stato risolto. Ma noi che ci sforziamo di dare al dissidio la soluzione che Egli auspicava sentiamo di camminare ancora al suo fianco; lo abbiamo ancora vicino, nostro compagno di viaggio. Il De Viti De Marco non è per noi un assente: perché il suo pensiero è vivo in noi, opera attraverso di noi. Ed è solo il pensiero che ha valore nel mondo.