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1992 04 18 * La Repubblica * Calvi, storie di banche e di cosche * Giuseppe D’Avanzo

ROMA - Roberto Calvi diventa un “uomo morto” la mattina del 17 giugno 1982 quando il consiglio d’amministrazione del Banco decide di sospenderlo dai suoi poteri e di chiamare, nelle stanze dell’Ambrosiano, gli ispettori della Bankitalia. 

E’ la fine del “banchiere di Dio”. Roberto Calvi morirà dodici ore dopo. All’1.52, nella notte tra il 17 e il 18 giugno, le acque del Tamigi entreranno, bloccandolo, nel Patek Philippe stretto intorno al polso del banchiere. La mattina dopo un fattorino del Daily Express, Anthony Huntley, scorgerà la testa di Roberto Calvi appesa con una corda arancione a un traliccio sotto il Blackfriars Bridge. Calvi indossa un vestito grigio, panciotto bianco, due paia di mutande bianche, una sull’altra, una camicia a righe blu, scarpe sportive e calze nere. Non ha cravatta né cintura, la giacca è abbottonata storta, gli occhi sono aperti, il viso è gonfio di ecchimosi. Ha mezzo mattone nella parte anteriore dei pantaloni, sotto la patta ancora allacciata, un quarto di mattone nella tasca destra dei pantaloni e una nella tasca sinistra. Undici libbre e sei once di mattoni. Calvi ha indosso un passaporto intestato a Gian Roberto Calvini, un portafogli con 54 mila lire, 20 scellini e 23 milioni tra franchi svizzeri, dollari e sterline. 

Si è suicidato? Avrebbe dovuto - impacciato da sei chili di pietre, goffo per natura, panciuto com’era - camminare in equilibrio circense sulla struttura in ferro, infilarsi la corda al collo e gettarsi nel vuoto conservando intatto il piccolo e fragile osso della tiroide, intatti i muscoli, le arterie, le vene, le ossa e le strutture articolari del collo. O avrebbe dovuto non lanciarsi nel vuoto, ma scivolare lungo le strutture metalliche del traliccio riuscendo nella difficile impresa di non trattenere sugli abiti e sulle mani alcun segno di ruggine. “La sola ipotesi del suicidio è un’offesa alle più comuni delle intelligenze”, protesta un investigatore alle prese, dopo dieci anni, con il “caso Calvi”. Non è il quesito “omicidio o suicidio” il primo mistero dell’affaire. L’Alta Corte d’Inghilterra (1983) ha escluso il suicidio, ma non è stata in grado di provare l’omicidio. I giudici della 12esima sezione civile del Tribunale di Milano (1988) hanno trovato più convincenti le argomentazioni degli avvocati della famiglia Calvi che non quelle delle Assicurazioni Generali, incapaci di provare la tesi del suicidio.

 Se per nove anni sullo scrittoio del sostituto procuratore milanese Pierluigi Dell’Osso c’è stata una cartellina relativa solo “al fatto storico della morte di Calvi”, due giudici di Roma, Mario Almerighi e Francesco De Leo, non hanno mai avuto dubbi che Roberto Calvi sia stato ucciso. Eccolo allora il primo mistero del “caso Calvi”: chi lo ha ucciso e su ordine di chi? L’arcano è meno indecifrabile di quanto possa apparire. 

Il pool di investigatori del Servizio centrale operativo è stato fortunato e le dichiarazioni (1991) di Francesco Marino Mannoia e di Tommaso Buscetta hanno offerto loro le prime parziali, ma inequivoche, indicazioni. “Sì, Calvi fu strangolato da Francesco Di Carlo su ordine di Pippo Calò - ha raccontato Mannoia -. Calvi si era impadronito di una grossa somma di danaro che apparteneva a Licio Gelli e a Pippo Calò. Prima di fare fuori Calvi, Calò e Gelli erano riusciti a recuperare decine di miliardi e, quel che più conta, Calò si era tolto una preoccupazione perché Calvi si era dimostrato inaffidabile”. 

Per Mannoia non era una sorpresa che i “vincenti” di Cosa Nostra fossero “in affari” con il maestro Venerabile della loggia P2. Stefano Bontade, il suo boss, il leader dei “perdenti”, gli aveva già confessato che gli uomini d’onore “avevano somme di danaro investite a Roma attraverso Licio Gelli che ne curava gli interessi”. 

“Si diceva - ha aggiunto Mannoia - che il danaro era investito nella Banca del Vaticano. In sostanza, come Salvatore Inzerillo e Stefano Bontade avevano Sindona, gli altri i Calò, i Riina avevano Gelli e, con Gelli, Flavio Carboni”. “Anch’io so - ha confermato Tommaso Buscetta - che Calvi fu ucciso dai Corleonesi. Me lo confidò, in Brasile, Tano Badalamenti. Aveva in mano un settimanale italiano con in copertina la foto di Calvi. Badalamenti disse: “Anche questo è un lavoro dei Corleonesi”. Non aggiunse altro e io non feci domande”. 

La “pista mafiosa”, in poco meno di un anno, ha acquistato corpo e certezza. Interrogatori e accertamenti in Austria, Olanda, Svizzera, Londra hanno confermato quel che già Carboni ossessivamente aveva ripetuto per mesi, nel 1982, a Roberto Calvi. “Presidente, non dimentichi che c’è un’Organizzazione di amici che sta lavorando per noi, un’Organizzazione dieci volte più grossa della Dc”. Emilio Pellicani, il segretario di Carboni, chiamava il capo di quell’Organizzazione, più imponente della Dc, “il boss”. Ha confessato: “Si chiamava Mario, non ricordo il cognome. Era siciliano, un uomo di cinquant’anni, capelli brizzolati, abbastanza tarchiato, viso rotondo, di Palermo”. Mario Agliarolo era il nome di copertura di Pippo Calò, latitante a Roma. Gli investigatori sono in possesso di una testimonianza che indica in un antiquario italiano, Pietro Vaccari Agelli, l’uomo al quale l’Organizzazione “affidò” Calvi durante il soggiorno londinese. Nella rete di rapporti di Vaccari, assassinato a coltellate nel suo appartamento di Holand Park tre mesi dopo la morte di Calvi, l’intero fronte di interessi che si strinse in quel soggiorno romano intorno al banchiere: la comunità finanziaria-mafiosa di Woking, Surrey; la malavita romana; uomini d’affari, proprietari di import- export, finanzieri con rapporti molto stretti con esponenti del potere politico ed economico in Italia, come ha accertato lo Special Branch della polizia inglese. Francesco Di Carlo, boss di Altofonte, residente a Woking, in attività a Londra come antiquario. Pippo Calò, il cassiere dei Corleonesi. Sono questi i due nomi chiave intorno ai quali gli investigatori della Criminalpol lavoreranno nei prossimi mesi per decifrare il mistero di Calvi. Un mistero che può essere sciolto soltanto se, in parallelo all’interrogativo “chi ha ucciso Calvi?”, si trova una risposta alla domanda “perché è stato ucciso?”. 

Il sostituto procuratore di Roma, Francesco Di Leo, si attende molto dalle indagini sul misterioso possessore del conto 591.969 PE aperto presso l’Ubs di Ginevra. Come ha svelato Maria Antonietta Calabrò nel suo Le mani della Mafia, “questo conto aveva un ruolo particolarmente significativo nelle spartizioni di danaro orchestrate da Calvi. Per anni ha ricevuto dall’Ambrosiano sempre il doppio delle somme contestualmente percepite sui loro conti da Calvi e Gelli”. Era il 591.969 PE uno dei conti dell’Organizzazione? Erano i miliardi di quel conto che i Corleonesi avevano visto in pericolo? E come hanno fatto gli uomini della Mafia a far perdere ogni traccia di quel denaro, cinquecento milioni di dollari “di cui - ha detto il giudice istruttore Renato Brichetti - non sappiamo più niente”?