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1999 * Francesco Pazienza - "Il Disubbidiente", Ed. Longanesi - capitolo 11 Morte di un sommesso viaggiatore

Francesco Pazienza, "Il disubbidiente", Ed. Longanesi, Milano, 1999, Cap. 11°

MORTE DI UN SOMMESSO VIAGGIATORE

Perquisire la casa di Carboni? No, altrimenti Spadolini... Marina De Laurentiis e i grembiulini della massoneria inglese - La vedova di Corrado Agusta e l'eredità del "re degli elicotteri" - Maurizio Raggio e le agende del conte Agusta - Un patrimonio di quaranta o di mille miliardi? - Francesco Pazienza della Banca Nazionale del Lavoro - Peter Hafter, l'uomo di fiducia della Rotschild Bank - Jurg Herr: "Ho pagato cinque milioni di dollari ai killer di Calvi" - La DIA vuole incontrare e interrogare il banchiere svizzero - "Jurg Herr non dev'essere rintracciato né interrogato" - Isabel Pisano, la giornalista spagnola che Arafat voleva sposare - I miliardi dell'Opus Dei e Alberto Jaimes Berti - La famiglia Calvi ingaggia i detective della Kroll's Associated - "Sono stato l'ultimo a vedere Calvi vivo a Londra" - Il segretario dello IOR: "Non avevo nulla a che fare con la banca..." - "Calvi si è appropriato del denaro della mafia" -Quando e perché i baffi di Calvi sono spariti? - Il conto di Carlo Calvi alla Roywest delle Bahamas

Missione compiuta. Luis Alberto Monge, il candidato sul quale avevo, e avevamo, puntato per le elezioni presidenziali in Costa Rica, aveva vinto ed era diventato il nuovo Capo dello Stato. Insieme a Robert Armao giunsi a San José il 16 maggio 1982 a bordo del volo Air Florida 473 partito da Miami. Dopo aver festeggiato per tre giorni, insieme con lui e col suo vicepresidente Alberto Fait, il 19 maggio eravamo ripartiti molto soddisfatti. Meno di un mese dopo, io e Bob tornammo in Costa Rica. Era il 14 giugno. Arrivammo col volo Lacsa 621 partito da Miami. Al termine dei numerosi incontri, Bob rientrò a New York, io volai a Città del Messico, imbarcandomi sul primo volo per Acapulco, la città turistica messicana sulle sponde dell'oceano Pacifico. Volevo concedermi un breve periodo di riposo, e accettai di buon grado l'invito di Silvio Bonetti, un uomo d'affari milanese, a trascorrere qualche giorno nella sua villa, all'interno del complesso dell'Hotel Las Brisas.

Ero molto nervoso e preoccupato poiché da diversi giorni avevo perso le tracce di Roberto Calvi. Si era letteralmente volatilizzato nel nulla. Eravamo in molti in quei giorni ad averlo cercato invano in giro per il mondo. Chiamavo due volte al giorno Roma, e cercavo di avere le ultime notizie da Federico Umberto D'Amato al ministero degli Interni. Telefonavo spesso anche a Domenico Sica, il quale per l'occasione viveva praticamente in simbiosi con Umbertino per essere informato in tempo reale di eventuali notizie in arrivo dalla sua rete d'intelligence, attivata da giorni alla ricerca dello scomparso. Era il 18 giugno 1982, ed ero arrivato da ventiquattr'ore ad Acapulco, quando dall'Hotel Las Brisas chiamai, ancora una volta, D'Amato per sapere se ci fossero novità. "C'è una brutta notizia", mi rispose il prefetto. "La cosa non è ancora certa al cento per cento, ma ci sono pochi margini di dubbio: hanno ritrovato Calvi."

"Dove? Come?" chiesi pieno di curiosità mista ad angoscia. "Amico mio: è morto. L'hanno trovato impiccato a Londra sotto un ponte. La notizia mi è arrivata tramite Scotland Yard. Qui ancora non la conosce nessuno. Attendo la conferma ufficiale."

Non riuscii a parlare. Rimasi in silenzio per alcuni lunghi istanti. Le lacrime avevano cominciato a rigarmi le guance. In quel momento D'Amato non aveva altre nofizie, non sapeva dirmi nulla di più. Era un omicidio? Oppure Calvi si era ucciso? Non si sapeva assolutamente nulla. Lo salutai con poche parole:

"Ti chiamerò ogni ora per sapere se è arrivata la conferma ufficiale dalla Polizia inglese sull'identità del morto". Dopo un paio d'ore D'Amato mi disse che era arrivato un telex ufficiale da Londra: venivano sciolti gli ultimi dubbi. Si trattava proprio del corpo di Calvi. Si era impiccato o era stato "impiccato".

"Perquisire la casa di Carboni? No, altrimenti Spadolini... "

Facciamo un lungo salto in avanti di quasi quindici anni. È il 9 aprile 1997, un mercoledi: tutti i telegiornali annunciano che a Roma il giudice per le indagini preliminari Mario Almerighi, su richiesta del pubblico ministero Giovanni Salvi, cui era stato affidato l'incarico di risolvere il mistero della morte di Roberto Calvi, ha emesso due mandati di cattura per l'omicidio del banchiere milanese. Uno contro Pippo Calò - il boss di Cosa Nostra da più di dieci anni in carcere e uomo di riferimento a Roma del ramo corleonese dell'Onorata Società -, accusato di essere il mandante dell'omicidio del banchiere, e l'altro contro Flavio Carboni, il "faccendiere" che avrebbe consegnato la vittima ai carnefici. Il giorno successivo la Repubblica pubblica a tutta pagina: "Caso Calvi, arresto per Calò e Carboni - L'accusa: furono complici nell'omicidio del ponte dei Frati Neri".

Come si è potuti arrivare a questa conclusione? Sulla base di quali prove? Come mai ci sono voluti tanti anni? Chi e come aveva svolto le indagini subito dopo la morte di Calvi e poi successivamente, e a quali risultati era pervenuto? Andiamo con ordine. Il primo magistrato che in Italia si è occupato della morte di Calvi è stato, guarda caso, l'immancabile e onnipresente Domenico Sica, seguito in epoche successive da Elisabetta Cesqui e Mario Vardaro. "Che cosa c'entrava la Procura di Roma con una vicenda del genere?" vi chiederete.

Ebbene, poiché il banchiere era scomparso a Roma, e poiché il suo intricatissimo e misterioso viaggio verso la morte era cominciato nella capitale, secondo Sica le indagini spettavano alla Procura di Roma. Nei due anni successivi alla morte di Calvi, il magistrato cercò in ogni modo di coinvolgermi nell'inchiesta. Nutriva probabilmente un forte risentimento nei miei confronti a causa del mio mancato aiuto nella sua guerra personale contro i fratelli Vitalone (guerra su cui mi soffermerò in seguito), tuttavia le ragioni del suo comportamento andavano certamente cercate altrove. Se si affannava dietro un'inchiesta del genere, i casi erano due: o aveva scoperto che cosa era accaduto davvero a Londra, oppure la questione era talmente delicata, scottante e pericolosa per alcuni ambienti politici che era necessario che la "giustizia" stendesse su di essa un velo pietoso.

Mi affrettai perciò a rientrare spontaneamente dagli Stati Uniti, dove mi ero recato dopo il Costa Rica, per essere rapidamente interrogato. L'interrogatorio iniziò alle sei del pomeriggio di una domenica per terminare all'una di notte. Di una discussione durata quasi sei ore, condotta con la nobile arte di minacciare e blandire insieme, fu stilato solo un verbalino striminzito battuto a macchina da Sica in persona. La sorpresa venne il mattino dopo. Paese Sera, la Repubblica l'Unità riportavano a caratteri cubitali e in maniera del tutto distorta i ragionamenti esposti durante l'interrogatorio, con salsa di mafia e cose del genere. Quella notte, nella stanza, eravamo solamente in tre: io, Sica e un suo "amico della Criminalpol" che entrava e usciva. Chi informò la stampa? È una domanda che, a distanza di anni, mi pongo ancora.

Durante l'interrogatorio, Sica, che probabilmente sospettava già che Calvi fosse espatriato con l'aiuto di Flavio Carboni (un fatto, in quel momento, ancora del tutto sconosciuto), mi chiese se conoscevo l'indirizzo della residenza romana dell'imprenditore sardo. Non esitai a darglielo. Mi premurai, poi, di aggiungere - poiché mi sembrava opportuno - che in quella casa viveva temporaneamente il nuovo Gran Maestro della massoneria, Armando Corona, esponente del Partito repubblicano, e amico personale di Giovanni Spadolini. Non appena venne a conoscenza di questo particolare, Sica esclamò: "Soprassediamo per il momento. Altrinienti qui scoppia un casino, anzi un 'casone'. Eppoi chi lo sente Spadolini?"

Marina De Laurentiis e i grembiulini della massoneria inglese

Che qualcuno, nella magistratura italiana, volesse incastrarmi risultò ancora più chiaro da una dichiarazione di Clara Calvi al settimanale spagnoloInterviu. Nell'aprile 1983 la signora affermò che, quando fu interrogata a Washington dai magistrati, essi avevano insistito perché dichiarasse di essere personalmente convinta che la morte del marito avesse un'origine delittuosa e che io ne fossi l'organizzatore. In un secondo tempo, Clara Calvi rovesciò completamente quest'affermazione confidando ai suoi avvocati americani che quest'interpretazione dei fatti era stata da lei suggerita ai magistrati, e non viceversa. Insomma, una conversione a 360 gradi. Poiché il settimanale spagnolo era in grado di provare, con un nastro registrato, che le dichiarazioni di Clara Calvi erano proprio quelle pubblicate, non resta che concludere che la vedova abbia avuto un "singolare" ripensamento, e che non si tratti di un equivoco, di un errore o di una strumentalizzazione giornalistica. Il punto è: è un ripensamento spontaneo e sincero, oppure provocato e richiesto da qualcuno?

Il lettore deve sapere che, all'epoca dei fatti, io ignoravo un particolare inquietante che mi rignardava. Allorché il povero banchiere milanese, il 18 giugno del 1982, fu trovato morto, appeso a una corda fissata a un traliccio sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, la singolare messa in scena aveva fatto pensare a una sorta di rituale massonico, cioè che Calvi fosse stato assassinato per ordine e volontà della potentissima massoneria inglese. Il particolare inquietante da me ignorato era il seguente: la mia ex fidanzata, Marina De Laurentiis, divenuta, per un feroce scherzo del destino (mi sia consentito un velo d'ironia), l'amica di Mimi Sica, nel corso di un interrogatorio, aveva messo a verbale di fronte al suo nuovo "fidanzato" che io tenevo in casa tutti gli arnesi tipici della massoneria, anzi più esattamente grembiulini, squadre, compassi e altri paraphernalia di una loggia massonica inglese. Non stiamo qui a investigare se fu Marina a inventarsi questa storiella, o se invece, come più probabile, fu qualcuno a suggerirgliela. Andiamo invece a vedere i risultati pratici di questa fantasiosa "rivelazione": agli atti risultava che io dovevo essere considerato, senza ombra di dubbio, un massone inglese. Il che, naturalmente, spiegava tante cose, in primo luogo la teoria dell'omicidio in salsa esoterica.

La vedova di Corrado Agusta e l'eredità del "re degli elicotteri"

Una sera di ottobre del 1989 una voce assai gradita mi raggiunse telefonicamente da New York. Era Leòn Lisbona. "Ciao, Francesco, come va?"

" Bene, Leòn. Che piacere sentirti. Che si dice nella Grande Mela?"

" rancesco, ho bisogno di un aiuto da parte tua. Tu conosci Corrado Agusta, il re degli elicotteri?"

"No, Leòn, non lo conoscevo personalmente, anche se so perfettamente chi era."

Avevo usato l'imperfetto poiché sapevo che il conte Agusta era morto da poco tempo in una località svizzera, lasciandosi dietro una situazione a dir poco ingarbugliata.

Uomo di fiducia della CIA, Corrado Agusta operava nel vasto mercato d'armi internazionale su "licenza", per cosi dire, dell'agenzia spionistica americana. Il crollo del regime dello scià aveva messo fme al suo intenso, facile e redditizio lavoro di esportatore di elicotteri verso Teheran. Come si ricorderà, era stato Vittorio Emanuele di Savoia a mettere in contatto, da Ginevra, Agusta col Trono del Pavone, a titolo di riconoscenza per aver consentito a Reza Pahlavi di organizzare la fantasmagorica festa di anniversario della sua casa regnante. Venuto meno il business con l'Iran, Agusta aveva rifilato la sua fabbrica di elicotteri allo Stato italiano, incassando un bel po' di miliardi. Alla sua morte, avvenuta nel 1989, aveva lasciato una miriade impressionante di misteriose società sparse in tutto il mondo, da Panama al Liechtenstein, da Curaçao agli Stati Uniti. Nascosti in queste società c'erano quasi mille miliardi di lire, una massa gigantesca di liquidità proveniente dal traffico d'armi, immensi profitti ottenuti anche grazie all'acquiescenza delle autorità italiane. Le agende telefoniche dell'imprenditore contenevano un vero e proprio who's whodell'establishment italiano, una mappa aggiornata e composita dei veri detentori del potere nel nostro Paese. C'erano politici di prima grandezza, molti generali, capi dei servizi segreti, boiardi di Stato e chiunque altro fosse stato utile per quell'originale e redditizio lavoro. Gli intermediari che tenevano i contatti tra Agusta e il mondo politico erano personaggi insospettabili, mai apparsi nelle diverse inchieste sulla corruzione politica degli anni della cosiddetta Tangentopoli italiana. Tanto per fare un esempio, basti pensare che i rapporti tra Agusta e Giulio Andreotti non erano tenuti dai soliti portaborse del "divo Giulio", ma da un misterioso personaggio soprannominato "il vinaio". Lo chiamavano così per via di un'azienda agricola che possedeva alle porte di Roma.

Quando Corrado Agusta mori, tra le altre sue iniziative era rimasta in sospeso un'operazione di fornitura di armi in cui ufficialmente appariva come end user l'Egitto. In realtà, il governo del Cairo si era prestato a coprire una triangolazione che probabilmente riguardava una grossa fornitura per la guerra in Afghanistan. Spesso, infatti, era accaduto che gli egiziani accettassero di buon grado di "coprire" gli americani per i traffici di materiale bellico riguardanti quello scacchiere. Fatto sta che il mancato perfezionamento dell'affare, dovuto alla morte di Agusta, aveva fatto sì che in un conto dell'Union des Banques Suisses giacessero più di cento milioni di franchi svizzeri destinati come tangente a imprecisati personaggi italiani che avevano fatto da intermediari. Il conto che racchiudeva questa fortuna era gestito fiduciariamente da un altro misterioso personaggio, sicuramente di nazionalità araba, ma che viaggiava anche con un passaporto canadese intestato a un certo "dottor Moss". Il nome del personaggio era Mustafa Kastaui. Fino al 1991, cioè due anni dopo la morte di Agusta, quell'ingente somma era ancora disponibile sul conto fiduciario in attesa degli ordini che lo scomparso non poteva più dare. Ma a chi bisognava versare quel denaro? A quali nomi? Su quali conti? Nessuno poteva saperlo: Agusta aveva portato quel segreto con sé nella tomba.

Leòn prosegui la conversazione telefonica spiegandomi che si stava occupando, appunto, delle investigazioni internazionali riguardanti il patrimonio di Corrado Agusta. L'incarico gli era stato affidato dalla vedova, la contessa Francesca Griffani Vacca Agusta, la quale, seppur separata legalmente dal marito, non aveva mai divorziato. Alla morte del conte, al momento dell'apertura del testamento, era risultata una situazione patrimoniale secondo cui poco ci mancava che lui vivesse in quasi assoluta "povertà". Infatti, l'eredàà ufficiale contenuta in quel testamento era ben poca cosa rispetto alla reale entità del patrimonio. A quei tempi si parlava di un valore di almeno mille miliardi di lire, a fronte di un patrimonio indicato nel testamento di "soli" quaranta miliardi. La gigantesca cifra reale non figurava nell'atto contenente le ultime volontà del definito, ma era stata sapientemente accumulata e, soprattutto, occultata in una serie di complicatissime scatole cinesi costituite da fondazioni del Liechtenstein, società off-shore holdings anonime domiciliate nei più diversi paradisi fiscali del mondo. Tutto però aveva la sua origine e la sua confluenza finale in un istituto di credito svizzero: la Rotschild Bank di Zurigo. La vedova Agusta sapeva perfettamente che quel testamento era stato vergato dall'ex marito al solo scopo d'impedirle di entrare in possesso della parte più cospicua dell'eredità. Il conte, infatti, era consapevole che la ex moglie, secondo la legge italiana, avrebbe avuto comunque diritto ad almeno un terzo del suo patrimonio. C'era solo una cosa da fare per ottenere il male minore: far scomparire la maggior parte dei beni, nasconderli all'estero, e impedire che la signora Francesca ne entrasse legalmente in possesso. In questo modo la disponibilità di questo immenso patrimonio sarebbe finita nelle mani dell'unico figlio, Rocky, avuto dalla prima moglie, la soubrette Marisa Maresca, la stellina preferita da Macario nelle sue riviste, la donna che aveva fatto girare la testa agli italiani nel dopoguerra e che nel 1950 aveva abbandonato le scene per sposare il conte Agusta.

La signora Francesca Agusta non si era accontentata delle "briciole": perché limitarsi a quei tredici miliardi, mentre c'era la possibilità, per legge, di entrare in possesso di una cifra venticinque volte maggiore? Francesca sapeva benissimo di aver diritto a 333 miliardi. Ecco perché aveva scatenato il grande investigatore, Leòn Lisbona appunto, alla ricerca del tesoro nascosto. Non c'era solo Leòn a cercare le tracce di quei mille miliardi: anche una corte numerosa di avvocati americani, inglesi e svizzeri, stava lavorando sotto le sue direttive per cercare di dipanare il mistero. Ovviamente, in maniera che i risultati delle ricerche potessero essere corroborati da una documentazione legale da esibire in tribunale al fine di provare e documentare la legittima richiesta della vedova.

Maurizio Raggio e le agende del conte Agusta

Dopo il racconto preliminare di tutta questa storia, Leòn mi chiese se potevo mettermi in contatto con la contessa e il suo compagno, Maurizio Raggio, poiché entrambi avevano bisogno di parlare con me. Naturalmente ero disponibile. L'appuntamento venne fissato direttamente da Leòn per i giorni successivi, a Milano, nell'appartamento della contessa, un attico e superattico con vista sul verde del Parco Sempione, non lontano dalla vecchia Arena. A ricevermi fu Maurizio Raggio, giovane, abbronzato, elegantissimo. Dopo i preamboli, in maniera molto formale e con grande cortesia, mi disse: "So che lei è da molto tempo amico di un nostro caro amico".

"Si, se si riferisce a Leòn Lisbona. È da molto tempo che ci conosciamo."

"Leòn le ha spiegato quello che la contessa sta cercando di fare per vedere riconosciuti i propri diritti?

"Sì, per sommi capi mi ha raccontato qualcosa. Però mi ha anche detto che sarebbe stato lei a entrare nei particolari. Eccomi qua."

"Molto francamente, dottor Pazienza, ci potrebbe raccontare quali sono stati i suoi rapporti con Corrado Agusta? Vede, noi stiamo ricostruendo il giro delle sue amicizie e attraverso queste stiamo cercando di venire a capo del sistema, delle persone e dei luoghi grazie ai quali è riuscito a nascondere tutto il suo patrimonio, quello vero naturalmente, quello lasciato a uso e consumo esclusivo di suo figlio Rocky."

La lapidaria affermazione di Maurizio Raggio ("Quali sono stati i suoi rapporti con Corrado Agusta?") mi lasciò perpiesso e m'incuriosì. Raggio, infatti, non mi aveva chiesto se avessi mai conosciuto il "re degli elicotteri", ma quali erano stati i rapporti tra noi, dando quindi per scontato che ci conoscessimo e ci frequentassimo. Che cosa gli faceva pensare una cosa del genere? Raggio mi aveva dato l'impressione di una persona molto decisa e non di chi si affida a qualche misero bluff pur di arrivare a quello che si prefigge di sapere. Oltretutto, sembrava ben lungi dall'essere uno sciocco, e dunque se mi aveva posto quella domanda un motivo ci doveva essere. Per questo gli risposi apertamente e in maniera categorica: "Signor Raggio, in vita mia Corrado Agusta non l'ho mai visto né conosciuto. Che cosa le fa pensare il contrario?"

"Guardi, dottor Pazienza", replicò, "noi abbiamo le agende personali del conte e alla lettera P è indicata una serie di numeri di telefono che appartengono a lei..."

"A me?" risposi con incredulità ancora maggiore.

"Be', sì. E visto il personaggio che lei è, e secondo quello che ci ha riferito Leòn Lisbona, la cosa non solo non ha meravigliato me e la contessa ma, casomai, ci avrebbe meravigliato il contrario. Ossia che lei non lo conoscesse o che Corrado Agusta non avesse fatto il possibile per conoscere un personaggio come lei."

Tra me e Raggio si era stabilito fin dai primi momenti della nostra conversazione quella che gli inglesi chiamano good chemistry, cioè una simpatia e un'intesa epidermiche. E dunque, proprio per questa ragione, gli dissi: "Senta, Raggio. Lei si chiama Maurizio, vero? Io mi chiamo Francesco. Be', le spiace se facciamo una cosa: diamoci del tu, e cominciamo a chiamarci per nome. Cerchiamo di non prenderci per i fondelli a vicenda e giochiamo a carte scoperte: dove diavolo le hai queste agende col mio nome? Fammele vedere".

"Va bene, Francesco. Poiché non pensavo di trovarmi di fronte a una reazione del genere, non le ho portate con me. Ma se vieni a trovarmi, o vengo io a trovarti, te le porterò. Non ci sono problemi. Puoi vederle quando vuoi."

"Okay, dimmi dove devo venire."

"A Portofino."

"Benissimo. Va bene il prossimo fine settimana?"

"Affare fatto."

Visto che il motivo specifico del nostro incontro si era rapidamente esaurito, cominciammo a parlare del nostro comune amico Leòn Lisbona, che Raggio aveva incontrato pochi giorni prima a New York. Nel frattempo entrò nel salone la contessa Francesca Agusta. Raggio me la presentò. Era, ed è, una donna bellissima, coi capelli lunghi, ondulati, colore rosso fuoco. Appariva in grande forma, elegante, curata nei niinimi particolari, molto affascinante. Si sedette accanto a me, accese una sigaretta. "Se anche lei vuole fumare, lo faccia pure", mi disse. "Maurizio non fuma, io invece sono una vera ciminiera."

"La ringrazio, contessa, io non fumo sigarette, ma solo sigari toscani. E li ho dimenticati in automobile. Meglio così, altrimenti le ammorberei la casa."

"Lei è fortunato", disse Francesca. "È passata una carissima amica che fuma solo sigari toscani e li ha dimenticati qui. Vuole approfittarne?"

"Prima vorrei sapere chi è questa sua amica."

"Le faccio un indovinello, vediamo se lei capisce: si tratta della moglie divorziata di un grande finanziere italiano che non sopporta lei, dottor Pazienza, e che lei non sopporta."

"Uhm, quante risposte ho a disposizione, contessa?"

"Una sola."

"E va bene: si tratta della moglie di Carlo De Benedetti."

"Bravo. Indovinato. E proprio Chicca De Benedetti."

Non so perché, ma il sapore di quel toscanello scroccato, indirettamente, a un membro della famiglia De Benedetti mi parve particolarmente gustoso...

Un patrimonio di quaranta o di mille miliardi?

Il sabato successivo, come d'accordo, mi recai a Portofino. Villa Altachiara, la casa della contessa, è senza dubbio una delle residenze più lussuose del borgo marinaro, che vede allineati tra i suoi ospiti abituali con casa sulla piazzetta, o in mezzo alla vegetazione del monte, personaggi come Fanfani, Berlusconi, Scognamiglio, Bassani, Cantoni. Accanto al palazzo neoclassico degli Agusta, sullo sperone di roccia che domina il borgo c'è anche la casa della famiglia Recchi, la dinastia dei costruttori torinesi, il cui accesso è comune con Villa Altachiara. I Recchi hanno fatto costruire un ascensore scavato nella roccia per poter raggiungere la loro residenza direttamente dalla piazzetta. Ma il conte Agusta, che soffriva di claustrofobia, aveva sempre rifiutato di utilizzare questo sistema. Non c'era che un'alternativa: un sentiero serpeggiante che s'inerpica sul monte, le cui curve sono talmente strette da rendere praticamente impossibile l'uso di qualsiasi vettura, per quanto piccola possa essere. Il conte allora aveva fatto modificare due piccole Fiat 500 presso la sua fabbrica di elicotteri. Le due minuscole autovetture erano state dotate di quattro ruote sterzanti, per cui, con una certa pratica e maestria, si riusciva ad affrontare i tornanti con sufficiente comodità. Il conte aveva voluto che le 500 fossero verniciate con un verde prato inglese e la tappezzeria degli interni venisse scelta da Valentino. Noblesse oblige.Al primo piano di Villa Altachiara esisteva uno studio con un lungo tavolo di legno. Lì erano allineati e catalogati meticolosamente decine e decine di enormi fascicoli che si arricchivano settimana dopo settimana di nuovi dati e di documenti che arrivavano da tutte le parti del mondo. Maurizio Raggio si occupava di coordinare tutto il lavoro che la rete di detective, avvocati e consulenti era incaricata di compiere nell'ambito della difficile e complessa battaglia legale che la sua compagna stava combattendo in maniera molto agguerrita. Maurizio stava dimostrando ai miei occhi una maestria che mi colpì e che mi avrebbe colpito ancora di più col passare del tempo. In fin dei conti, fino a quel momento aveva trascorso una vita da playboy e ora si trovava immerso in un mondo completamente diverso: quello degli intrighi internazionali. Avevo sentito parlare di lui in un certo modo: solo e semplicemente come l'erede dell'inventore della Gritta, il bar più alla moda di Portofino che si trova accanto alla piazzetta, sulla Calata Marconi. Mi ero invece trovato di fronte un giovane poliglotta, anche se le numerose lingue che parlava rivelavano troppo l'accento italico. Maurizio sembrava quasi avere una partita personale aperta col defunto conte Agusta: la posta era la vittoria in quell'ossessiva ricerca a ritroso delle chiavi per aprire le casseforti, reali e in senso figurato, disseminate in tutto il mondo, all'interno delle quali il "re degli elicotteri" aveva nascosto i suoi segreti e i suoi miliardi. Agusta era una volpe astutissima in questo campo e proprio questa flirbizia e intelligenza avevano scatenato Maurizio Raggio, quasi come se lui volesse dimostrare alla sua compagna di vita che era intelligente, accorto e furbo quanto il defunto marito di lei, se non di più. A forza di scavare tra società misteriose domiciliate a Curaçao o alle Bahamas, fra strane holdings panamensi o che si rifacevano a controllate del Lussemburgo, o viceversa, tra indecifrabili incroci azionari di società del Delaware, negli Stati Uniti, o fiduciarie di Hong Kong e Singapore, Maurizio Raggio era diventato senza dubbio un esperto del settore. Tutti i documenti raccolti e disposti in ordine e in bella evidenza nello studio di Villa Altachiara dimostravano come, alla fin fine, le attività del conte Agusta riferite alla costruzione e al commercio degli elicotteri, su licenza dell'americana Bell Corporation, altro non erano che una branca accessoria e complementare ad altri settori d'intervento e d'investimento i cui profitti si potevano calcolare in decine di miliardi per ogni transazione. Emergeva anche con grande chiarezza come questi contratti vertessero quasi esclusivamente nel commercio internazionale di sistemi di armamento molto sofisticati. A fronte di tutto questo non c'era alcun dubbio che i quaranta miliardi di lire indicati nel testamento come la totalità del patrimonio Agusta altro non fossero che un sistema per nascondere la realtà alla moglie, a tutto profitto del figlio di primo letto.

Francesco Pazienza della Banca Nazionale del Lavoro

Durante quel fine settimana a Portofino potei finalmente prendere visione delle agende personali del conte Agusta. In effetti alla lettera P esisteva una annotazione relativa a FRANCESCO PAZIENZA accanto a una sfilza di numeri telefonici, quasi tutti di Roma. Vicino ad alcuni di essi c'era una parentesi con la scritta BNL, Banca Nazionale del Lavoro. Capii immediatamente di che cosa si trattava. "Caro Maurizio", dissi a Raggio, "tu e la contessa avete preso la stessa cantonata di Vincenzo Visco."

"Visco? E chi è?" mi chiese Raggio.

Spiegai che quell'allora sconosciuto parlamentare del Partito comunista, che qualche anno più tardi sarebbe diventato ministro delle Finanze del governo Prodi, aveva addirittura presentato un'interrogazione al presidente del Consiglio Andreotti, per sapere quali erano le attività di Francesco Pazienza nell'ambito della Banca Nazionale del Lavoro. Visco era incorso nello stesso equivoco in cui erano caduti Maurizio Raggio e Francesca Agusta. Il parlamentare probabilmente non aveva visto male, visto che quel "Francesco Pazienza" si trovava anche nell'agenda di Corrado Agusta. Solo che quel "Francesco Pazienza" non ero assolutamente io.

Avere tra le mani quelle agende suscitò in me, come ovvio, la più grande curiosità. Chiarito il primo punto, chiesi se potevo dare un'occhiata a tutti i nominativi che vi erano annotati. Maurizio Raggio acconsentì senza alcun problema. Era presente tutto il Gotha politico italiano, da Giovanni Spadolini a Giulio Andreotti, ma fu la pagina contenente la lettera H che attirò di colpo la mia attenzione. "Maurizio, chi è questo Hafter coi numeri telefonici corrispondenti alla Svizzera? Per caso, sai se il suo nome di battesimo è Peter?" chiesi subito.

"Certo, è Peter Hafter. Lo conosci?" mi rispose.

Non conoscevo Peter Hafter personalmente, ma lo avevo già sentito nominare. In quel momento avevo trovato un nome che s'intrecciava stranamente con tutta la storia del Banco Ambrosiano, un nome che avrebbe indotto me e Raggio a unire le nostre forze nelle indagini che, su due fronti opposti e con obiettivi completamente diversi, stavamo portando avanti. Lui per l'eredità Agusta, io per le mie scoperte relative al famoso rapporto Touche Ross misteriosamente introvabile, ma sicuramente esistente.

Peter Hafter, l'uomo di fiducia della Rotschild Bank

Ho detto prima che tutte le strade delle misteriose società di Corrado Agusta conducevano alla Rotschild Bank di Zurigo. In questo istituto Peter Hafter aveva la funzione di rappresentare il ramo della famiglia Rotschild che controllava la banca. Al tempo stesso Hafter era il banchiere di fiducia di Licio Gelli, Umberto Ortolani e dei vertici della P2. Tanto che i quasi cento milioni di dollari scomparsi nel periodo in cui Roberto Calvi si trovava in carcere a Lodi, e che erano stati anche oggetto di un mio memorandum, erano transitati proprio per la Rotschild Bank, e quindi erano passati per le mani di Peter Hafter. C'era un altro punto in comune che legava quel nome a certe vicende, un nome molto vicino sia a Gelli sia a Corrado Agusta: Vittorio Emanuele di Savoia. Il nome di Licio Gelli, tuttavia, non era annotato su quell'agenda, anche se vi erano molti nomi e numeri evidentemente indicati in codice. E Maurizio Raggio stava cercando faticosamente di decrittarli. Nei mesi successivi il mio rapporto con la contessa e il suo fidanzato si trasformò da conoscenza in amicizia, un'amicizia piena di affetto. Francesca era una donna davvero eccezionale, completamente diversa dal modo in cui generalmente veniva dipinta, soprattutto dai giornali. Che l'invidia sia uno dei principali motori, negativi, del genere umano mi apparve chiaro proprio in quella circostanza. Nell'ambiente ricco e fatuo, che aveva sempre frequentato e in cui era sempre stata una protagonista, Francesca poteva a volte apparire arrogante, ma quell'arroganza era una specie di maschera, uno strato di vernice che non lasciava trasparire la sua vera essenza.

Quando Antonio Di Pietro chiese i mandati di cattura contro di lei e Maurizio Raggio per la questione dei conti esteri di Bettino Craxi, la stampa si sbizzarrì, come al solito, in velenosi commenti e in descrizioni immaginarie della coppia, del loro modo di vivere, dei loro amici e delle loro frequentazioni, nonché della storia d'amore che li vedeva protagonisti. Non mancarono ironie e pettegolezzi, compresi quelli riguardanti il destino di questa bellissima ex modella se non avesse avuto la fortuna d'incontrare Corrado Agusta. Nessuno, però, si è mai posto la domanda contraria: che cosa sarebbe diventato Corrado Agusta senza Francesca? Instancabile organizzatrice di ricevimenti, serate, crociere, viaggi per gli ospiri, che il conte voleva intrattenere allo scopo di concludere affari plurimiliardari, Francesca era un vero e proprio genio delle pubbliche relazioni. Parlava correntemente quattro lingue, sapeva stare benissimo in società, era una padrona di casa formidabile e in più aveva un altro grande e indiscutibile pregio: aveva saputo sopportare per quasi vent'anni un tipo non proprio semplice e "digeribile" come il conte Corrado. Già questo, di per sé, rendeva legittimo il suo desiderio di poter disporre della quota che per legge le toccava della "vera" eredità.

Jurg Herr: "Ho pagato cinque milioni di dollari ai killer di Calvi"

Nelle mie personalissime indagini sulla vicenda del Banco Ambrosiano mi ero fin dall'inizio ispirato a questo concetto: solo scoprendo che cosa fosse veramente accaduto a Londra il 18 giugno 1982 al momento della morte di Calvi sotto il ponte dei Frati Neri si sarebbe compreso ancora meglio che cosa era accaduto al denaro del Banco Ambrosiano.

Il mondo è davvero piccolo, se si pensa quali vicende accaddero dopo che mi ero trovato coinvolto nelle ricerche dell'eredità Agusta e avevo scoperto quel giorno a Portofino il nome di Peter Hafter sull'agenda del conte Corrado. Infatti, sarebbe stato proprio uno degli investigatori inglesi che lavoravano al caso dell'eredità a trovare le tracce della cassaforte di Londra in cui era seppellito il rapporto Touche Ross sul Banco Ambrosiano, classificato come "segretissimo" per ordine di Sua Maestà la Regina.

Vediamo come si arrivò a questa scoperta straordinaria. Peter Hafter aveva alle sue dipendenze uno stretto collaboratore, di nome Jurg Herr, che si occupava della gestione dei conti dei clienti più importanti della Rotschild Bank. Per motivi non perfettamente chiari, a un certo punto Herr entrò in rotta di collisione col suo superiore e fu accusato di essersi reso responsabile di alcune gravi malversazioni di fondi della banca.

Jurg Herr quindi aveva il dente avvelenato, desiderava vendicarsi della banca che lo aveva messo alla porta, ed era perciò una potenziale e meravigliosa fonte d'informazioni riservatissime, se fosse stato avvicinato nel modo giusto, dalle persone giuste e fosse stato adeguatamente ricompensato per il suo lavoro di collaborazione. Alla Rotschild Bank, dove si sapeva e soprattutto si temeva tutto questo, disinnescare la bomba-Herr, anche a costo di denunciare alla magistratura elvetica l'ex collaboratore di Hafter, era un affare di vitale importanza. Herr aveva perciò pensato bene di sottrarsi alle autorità svizzere - notoriamente indulgenti verso le banche della confederazione - rifligiandosi in un luogo sicuro. Trovarlo non era per niente semplice. Tuttavia gli implacabili "mastini", sguinzagliati da Leòn Lisbona al servizio della contessa, avevano individuato il suo "rifugio" ed erano già riusciti a interrogarlo in gran segreto. Avevano fatto appena in tempo, poiché Herr aveva precipitosamente lasciato il suo rifligio giusto qualche giorno prima che l'inevitabile ordine di cattura fosse emesso e inviato all'Interpol. Herr sapeva molte cose non solo sull'eredità Agusta, ma anche e soprattutto sul caso Calvi. Nel 1992 il Wall Street Journal pubblicò un lungo articolo sulle sue rivelazioni. L'ex funzionario della Rotschild Bank sosteneva di essere al corrente di quello che era accaduto a Roberto Calvi nel giugno 1982 durante la sua folle corsa verso la morte. Herr diceva di aver personalmente pagato, su incarico e per conto di un cliente della Banca, la somma di cinque milioni di dollari in banconote da cento all'organizzazione di killer che aveva compiuto il "lavoro di eliminazione" del banchiere milanese. Di fronte a quelle rivelazioni, la mia teoria - bisognava scoprire compiutamente che cosa fosse accaduto a Calvi a Londra per comprendere gli avvenimenti del Banco Ambrosiano - trovava sempre più conferme.

L'articolo del Wall Street Journal naturalmente non era sfuggito ai magistrati romani incaricati di dipanare la matassa relativa alla morte del banchiere milanese.

La DIA vuole incontrare e interrogare il banchiere svizzero

Il 23 settembre 1993 ero stato convocato dall'accusa a testimoniare nel processo che si stava svolgendo a Roma contro la Loggia P2. Questa convocazione metteva in luce l'ennesima anomalia riguardante la mia persona: infatti, mentre a Bologna ero stato considerato non solo un piduista in servizio permanente effettivo ma addirittura e nientemeno che il nuovo segretissimo capo supremo della Loggia, a Roma invece l'accusa contro la P2 mi chiamava a testimoniare contro i miei stessi ipotetici e presunti "sottoposti". Per la serie: assurdità e contraddizioni del sistema giudiziario!

Durante quella deposizione nell'aula bunker all'interno del carcere di Rebibbia, misi al corrente i giudici della Corte delle mie ultime scoperte sull'omicidio Calvi. Non appena lasciai l'aula del tribunale fui letteralmente inseguito da un carabiniere, incaricato dal magistrato che sosteneva l'accusa nel processone alla P2 di convocarmi come testimone per la vicenda della morte di Calvi. Era, infatti, lo stesso pubblico ministero di entrambi i procedimenti. Chiesi qualche giorno per avere il tempo di rientrare nella mia casa in Liguria e poter ritirare un documento sonoro che vi tenevo custodito. Si trattava di una bobina registrata contenente una conversazione telefonica con un detective a Londra: l'investigatore mi metteva a parte dell'impossibilità di mettere le mani sul rapporto Touche Ross perché coperto dal segreto di Stato inglese. Qualche giorno dopo consegnai al magistrato il tutto, compresa la trascrizione tradotta in italiano. In quell'occasione mi resi conto che i magistrati romani erano alla disperata ricerca di Jurg Herr, che non riuscivano a trovare da nessuna parte. Della parte investigativa si occupava la DIA, la Direzione Investigativa Antimafia di Roma. La competenza era finita a questo dipartimento poiché Tommaso Buscetta, il pentito per tutte le stagioni, aveva dichiarato che a fare la pelle a Roberto Calvi era stato un mafioso italiano residente a Londra: Francesco Di Carlo, rappresentante di Cosa Nostra nella capitale del Regno Unito. Di Carlo in quel momento si trovava ospite delle galere britanniche per un colossale traffico di droga. La stessa versione riguardante la responsabilità di Di Carlo come esecutore materiale dell'omicidio Calvi era stata fornita da un altro pentito di mafia, Francesco Marino Mannoia. Che la mafia si occupasse in prima persona dell'assassinio di Calvi mi era sembrata sempre un'ipotesi poco plausibile, a meno che, naturalmente, la mafia non fosse altro che il braccio armato dell'operazione per conto terzi. In questo caso, cinque milioni di dollari - secondo la versione di Jurg Herr - come compenso per un omicidio a pagamento poteva giustificare ampiamente anche un interesse mafioso. Ma nulla di più. Fu per l'insieme di queste ragioni che fui invitato nella sede operativa della DIA romana. Mi avevano chiesto di partecipare a una riunione col capo delle operazioni, il colonnello D.D.P., e un suo collaboratore che si occupava delle indagini, F.F. Mentre il primo proveniva dall'Arma dei Carabinieri, il secondo era un civile, un funzionario del ministero degli Interni.

"Colonnello, a quanto mi pare di capire, vi farebbe molto comodo interrogare il signor Jurg Herr. Mi sbaglio?" esordii in maniera diretta e senza tergiversare.

"No, non si sbaglia", fu la risposta

"Molto bene: si può fare. Anche perché il vostro interesse coincide col mio. Se si scopre ciò che è veramente accaduto a Roberto Calvi, si potrà finalmente sapere anche quello che è successo col Banco Ambrosiano, visto che il 'fallimento' è una delle più vergognose e assurde messe in scena di questa nostra bella Italia."

Alla fine del nostro incontro venne deciso di tenere una seconda riunione a fine ottobre a Villa Altachiara a Portofino, insieme a Maurizio Raggio.

"Jurg Herr non dev'essere rintracciato né interrogato"

L'appuntamento con F. e con un suo aiutante, il maresciallo D'A., era per le undici del mattino a Santa Margherita Ligure, davanti allo Spinnaker, un ritrovo alla moda che si affaccia sul porto. Da lì prosegnimmo tutti insieme per Portofino. La riunione tra me, Maurizio Raggio e gli uomini della DIA durò alcune ore. Avevo avuto istruzioni da Raggio di non scoprire tutte le carte in nostro possesso. Tuttavia, solo io ero a conoscenza del fatto che a quell'epoca l'introvabile Herr era in Thailandia. Coloro che lo avevano "in affidamento" potevano contattarlo in qualsiasi momento ed erano perfettamente in grado di convincerlo a incontrare gli uomini della DIA italiana perché vuotasse completamente il sacco sulla storia dei cinque milioni di dollari che lui era stato incaricato di pagare come compenso per l'uccisione di Roberto Calvi. Durante quell'incontro a Villa Agusta emerse una grave divergenza di punti di vista tra me e F., il quale pretendeva di poter interrogare formalmente Jurg Herr nel Paese in cui si trovava. E questo nonostante il fatto che la cosa avrebbe ovviamente comportato un'assistenza internazionale da parte dell'Interpol. A un certo punto, stanco di perdere tempo a discutere di un problema del genere, persi le staffe: "Scusi, ma lei sta scherzando?"

"No, dico sul serio: non possiamo fare altrimenti", fu la sua disarmante risposta.

"Non capisco proprio la sua ostinazione. Segua il mio ragionamento: lei sa che Herr è un latitante, poiché è colpito da un mandato di cattura della magistratura svizzera. Lei vorrebbe che io glielo trovassi e lo convincessi a parlare con voi, ma al tempo stesso lei pretende d'interrogarlo informando l'Interpol. Il che significa che quest'ultima, a sua volta, informerà la Polizia svizzera per far arrestare Herr. Scusi, con tutto il rispetto, voi mi sembrate un po' fuori di testa! Pensate che Herr sia così fesso da farsi interrogare da voi, non solo senza avere legittime garanzie di protezione e riservatezza, ma addirittura con la certezza che il suo nascondiglio venga scoperto e che gli svizzeri possano arrestarlo? Non è mica scemo..."

"E lei che cosa suggerisce?" mi chiese F., con un'espressione e un tono che cominciavano a infastidirmi.

"Senta, ha mai sentito parlare del lavoro d'intelligence?" chiesi prima di perdere del tutto la pazienza. "Voi lo interrogate, vi fate dare tutte le informazioni che vi servono e, sulla base di quanto vi dirà, eseguite le vostre indagini di Polizia giudiziaria. Questo significa la parola 'intelligence': cercare le notizie utili, rispettando per quanto possibile la fonte."

F. non volle sentire ragioni e obiettò: "Noi non siamo un organismo d'intelligence, ma di Polizia giudiziaria".

Una decina di giorni dopo questa riunione a Portofino, parlai al telefono con l'ufficiale della DIA. Era molto risentito, mi disse di aver raccolto in alcuni ambienti romani la voce che io stavo collaborando con loro per scovare Jurg Herr e fare luce sull'omicidio di Calvi: "Pazienza, quello che non sopporto è che sia stato lei a mettere in giro questa voce". Figurarsi se io mi ero mai sognato di parlare di un argomento così delicato e riservato! Risposi in maniera molto dura: "Senta, F., parliamoci chiaro una volta per tutte. Se ci sono voci che girano, possono essere uscite solo ed esclusivamente dai vostri uffici. Per carità: non dico da lei, ma da voi. Se mi vuol capire mi capisca E soprattutto capisca anche, o smetta di far finta di non capire, che c'è qualcuno cui questa cosa non piace e che non vuole proprio che Jurg Herr venga rintracciato e interrogato dalla Polizia italiana".

La "collaborazione" tra me e la DIA, con queste premesse, non poteva andare avanti. Come avevo previsto, tutto saltò: non fu compiuto nemmeno un passo nella direzione che poteva portare a Jurg Herr, al suo interrogatorio, alla possibilità di raccogliere elementi importanti per far luce sull'omicidio di Calvi. Dopo alcuni mesi, F. mi confessò sottovoce: "Guardi, dottore, sinceramente io volevo condurre in porto quell'operanone . E anche D.D.P. era sulla mia stessa linea. Ma dall'alto la cosa non è stata ritenuta gradita, non è stata apprezzata. Ci siamo capiti, vero?"

Jurg Herr fu in seguito arrestato dalla Polizia svizzera, naturalmente in Thailandia.

Isabel Pisano, la giornalista spagnola che Arafat voleva sposare

Il 18 novembre 1996 numerosi quotidiani italiani pubblicavano una notizia che a me parve molto interessante. Titolava, per esempio, il Giornale:"Intrigo internazionale a Parigi - Un giornale inglese scrive: 'Criminali italiani "suicidarono" un Rotschild'". Nell'articolo era scritto che un gruppo di ricchi investitori italiani e svizzeri stava cercando di riaprire l'inchiesta sulla morte di Amschel Rotschild, trovato impiccato in una stanza dell'Hotel Bristol a Parigi nel giugno 1996. "Tali considerazioni", scriveva il Giornale, "partono dalle accuse rivolte cinque anni fa da Jurg Herr, un dirigente licenziato dai Rotschild svizzeri, che ha parlato di traffici illegali di denaro sul confine italo-svizzero che, scrive il settimanale inglese Sunday Express, ha collegato la Rotschild AG con tutti i maggiori scandali degli ultimi anni." L'articolo faceva riferimento proprio al Banco Ambrosiano e concludeva in questo modo: "Herr afferma di avere prove dei rapporti tra la banca e la mafia e delle sue responsabilità nel riciclaggio di denaro sporco".

Nello stesso periodo in cui avveniva questo episodio, un altro, di un certo interesse, si sviluppava tra Londra e Roma per merito di una giornalista spagnola che lavora in Italia, Isabel Pisano. Si tratta di una giornalista free-lance che ha collaborato a vari organi di stampa italiani e stranieri. Uruguayana di nascita e spagnola di cittadinanza, fin dal 1982 si era appassionata alle vicissitudini e alla tragedia di Roberto Calvi. Viveva tra Roma e Madrid e le sue inchieste giornalistiche e televisive l'avevano resa nota in mezzo mondo. Era la più intima amica di Marina De Laurentiis, fino al momento in cui quest'ultima iniziò la sua strana relazione con Domenico Sica. In un servizio mandato in onda dalla televisione spagnola, Isabel rivelò questa relazione definendola "grave e scandalosa". La rottura dei rapporti tra le due amiche avvenne il giorno in cui Marina disse a Isabel in tono minaccioso: "Attenta, se non la smetti ti possono arrestare come spia dei servizi segreti spagnoli!"

Minuta, molto carina, Isabel Pisano era stata la moglie di uno dei più grandi compositori moderni di musica latinoamericana, Valdo de Los Rios, un artista tutto genio e sregolatezza che si uccise a Madrid a metà degli anni '70, al culmine del suo successo artistico e commerciale. Aveva venduto milioni di dischi in tutto il mondo e Federico Fellini, poco prima che il compositore morisse, aveva deciso di affidargli la colonna sonora di uno dei suoi film. Alla morte del marito, Isabel decise di dedicarsi al giornalismo, il più difficile e pericoloso, quello d'inchiesta e quello di prima linea, in giro per il mondo. Isabel è stata corrispondente di guerra in Iraq, sotto i bombardamenti degli americani a Baghdad durante l'Operazione Desert Storm, e poi ha seguito tutta la guerra in Bosnia. Dotata di un coraggio fuori del comune, ha trascorso un lungo periodo in Algeria durante la crisi provocata dai fondamentalisti islamici. I suoi servizi sono stati mandati in onda anche dalla RAI. Capace d'interviste impossibili, durante la sua carriera è riuscita a essere ricevuta in numerose occasioni da Fidel Castro, Muhammar Gheddafi e molti altri personaggi che raramente si lasciano avvicinare dai giornalisti. Nella seconda metà degli anni '80, Yasser Arafat s'innamorò perdutamente di lei proponendole addirittura di sposarlo e inondando quotidianamente di fasci di rose le sue residenze di Roma e Madrid. Nel 1997 Isabel ha pubblicato un libro in spagnolo (A solas con Arafat) su questa sua storia sentimentale.

I miliardi dell'Opus Dei e Alberto Jaimes Berti

Nel corso della sua lunga e dettagliata inchiesta per far luce sui misteri del caso Calvi, Isabel Pisano aveva intervistato alcune volte sia la vedova del banchiere sia il figlio Carlo. Aveva inoltre trovato interessantissimi spunti, utili per iniziare nuovi filoni d'indagini, sulle fasi finali della vita terrena di Roberto Calvi, spunti che portavano in qualche maniera in direzione dell'Opus Dei, la potentissima organizzazione cattolica spagnola fondata da monsignor Escrivà de Balaguer.

Su mio consiglio, Isabel aveva deciso di riferire tutte le sue scoperte alla Direzione Investigativa Antimafla e ai detective che si occupavano della morte del banchiere su incarico della magistratura italiana.

La Pisano si era imbattuta, tra l'altro, in un personaggio, di nome Alberto Jaimes Berti, che affermava di essere stato l'ultima persona a vedere vivo a Londra, naturalmente a parte l'assassino o gli assassini, il banchiere italiano. Isabel aveva incontrato diverse volte Berti, lo aveva intervistato ed era stata da lui autorizzata a registrare le sue dichiarazioni. Berti era un finanziere venezuelano che si era presentato spontaneamente alla Kroll's Associated, la società londinese specializzata nelle investigazioni private internazionali. L'agenzia britannica era stata incaricata dalla famiglia Calvi di condurre investigazioni parallele sulla morte del loro congiunto. La Polizia inglese, dopo accurate indagini, in un primo tempo aveva concluso che Calvi si era ucciso. Ma una seconda volta, in seguito ai ricorsi della famiglia Calvi, optò per il cosiddetto open verdict, il "verdetto aperto", evitando di scegliere tra la tesi del suicidio e l'ipotesi dell'omicidio.

La famiglia Calvi ingaggia i detective della Kroll's Associated

La ragione per cui la famiglia Calvi aveva presentato un ricorso giudiziario contro la tesi del suicidio, dopo la decisione della magistratura inglese, incaricando subito la Kroll's d'indagare, aveva un significato pratico molto importante: il banchiere, infatti, aveva stipulato una polizza sulla propria vita con le Assicurazioni Generali di Trieste, nominando la moglie e i figli come beneficiari. Se si fosse accertato che Calvi si era ucciso, naturalmente le Generali non avrebbero versato una lira, in caso contrario avrebbero dovuto pagare un premio di molti miliardi di lire. Il "verdetto aperto", dunque, era importante sotto molti punti di vista: impediva alle Generali di rifiutarsi di pagare, consentiva alla famiglia Calvi di nutrire ancora buone speranze di mettere le mani sul premio dell'assicurazione, lasciava aperto uno spiraglio agli avvocati dell'una e dell'altra parte per continuare una trattativa che poi si protrasse nel tempo e indusse addirittura le parti a girare una sorta di film, con una comparsa che interpretava il ruolo di Calvi - venne scelto un attore inglese che aveva la stessa taglia, l'altezza, il peso e le caratteristiche fisiche del banchiere - al fine di determinare che cosa potesse essere accaduto davvero quella notte: e cioè se Calvi era veramente in grado di suicidarsi oppure se era impossibile che si fosse tolto la vita. La vicenda si sarebbe chiusa molto tempo dopo con una transazione tra le Generali e la famiglia: l'assicurazione accettò di pagare una somma inferiore a quella stabilita, in cambio gli eredi Calvi sottoscrissero la rinuncia a qualsiasi azione legale passata e futura.

Torniamo ad Alberto Jaimes Berti. Cinquantatré anni, finanziere, collezionista di opere d'arte, in realtà non era stato scoperto da Isabel Pisano, ma da Duncan Kennedy, un giornalista investigativo inglese che aveva anche realizzato per la BBC un programma incentrato su questo personaggio e sulle sue clamorose rivelazioni. Dal filmato e dall'inchiesta risultò che Berti era strettamente legato ad ambienti vaticani, rappresentava gli interessi della Chiesa venezuelana in Italia ed era al centro di due scandali: uno con la stessa Chiesa venezuelana, che lo accusava di essersi appropriato del denaro delle elemosine dei fedeli venezuelani - ben settantuno milioni di dollari, oltre cento miliardi di lire -, e l'altro per una storia di quadri coi quali era stata tentata una truffa ai danni del ministero della Cultura spagnolo. Tutto questo aveva spinto il venezuelano a ritirarsi in pianta stabile a Londra.

"Sono stato l'ultimo a vedere Calvi vivo a Londra"

Stando al racconto di Berti, il presidente del Banco Ambrosiano aveva lasciato un messaggio alla segreteria telefonica della sua abitazione, a Belgravia, l'elegante quartiere residenziale di Londra. Calvi era in città e voleva vederlo. Quella chiamata era stata preannunciata al finanziere venezuelano da monsignor Donatino De Bonis, segretario dello IOR. Berti si recò immediatamente al Cloisters Chelsea, lo sgangheratissimo residence londinese scelto da Flavio Carboni per il soggiorno londinese del banchiere. Vi trovò un Calvi disteso e tranquillo, di buon umore, rilassato, simpatico, disponibile. "Era vestito impeccabilmente" - così Berti nell'intervista a Isabel Pisano - "e in modo assolutamente normale: il suo aspetto era quello di sempre. La cosa sorprendente era che fosse alloggiato in uno di quegli appartamenti, anziché in uno dei grandi alberghi della città, come il Claridge. Sul momento non ci feci caso, perché a volte certi personaggi non amano farsi vedere troppo, a causa dell'infinita serie d'impegni che hanno. Nel 1980 avevo avuto un incontro con 'lo Spagnolo', il quale mi era stato raccomandato da alcune banche iberiche che facevano riferimento al Vaticano. 'Lo Spagnolo', Mora Figueroa, mi chiese d'investire una grossa cifra, appartenente a un gruppo di sei persone, attraverso la compagnia panamense Hemisphere Interplanar: la cifra era pari a duemiladuecento milioni di dollari..."

Quello di Mora Figueroa è un nome molto noto negli ambienti finanziari spagnoli: ma in questo caso si tratta solo di un omonimo del parente del noto uomo d'affari José Maria Ruiz Mateos, deputato al Parlamento europeo, cui nel 1993 era stata espropriata illegalmente - secondo una sentenza di Strasburgo la holding Rumasa, una delle più importanti della penisola iberica. Secondo il racconto di Berti, Calvi era uno dei sei misteriosi personaggi e cercava di recuperare la sua parte di quel gigantesco investimento di due anni prima. E questo investimento, sempre secondo Berti, era a mezzadria tra il Vaticano e l'Opus Dei. Io stesso chiamai telefonicamente Mateos a Madrid e feci questa telefonata davanti a F., il funzionario della DIA, per ottenere il consenso definitivo dell'uomo d'affari spagnolo a farsi ascoltare dai magistrati italiani. E, infatti, lui venne ascoltato nella capitale spagnola dalla Cesqui e da Vardaro.

Torniamo a quell'ultimo incontro a Londra: "Quando io arrivai", disse Berti a Isabel Pisano, "Calvi stava parlando con un uomo, credo fosse il portiere. Vedendomi, mi venne incontro e mi fece accomodare su una poltrona della hall. Mi chiese notizie di alcuni amici comuni di Caracas e poi dell'operazione della società panamense Interplanar, iniziata dallo 'Spagnolo', per sapere se era stata completata a Panama e negli Stati Uniti. Gli risposi affermativamente e lui poi volle sapere se poteva trasformare quel denaro in contante. Gli dissi di sì, ma feci presente che quell'operazione avrebbe richiesto varie settimane, al che sembrò molto contrariato".

"Insistette", continua Berti, "a voler sapere se si poteva utilizzare quel denaro come garanzia da presentare alla Banca d'Italia. Gli risposi di sì. "Osserva Isabel Pisano: "Che un uomo d'affari come Calvi dovesse chiedere ad Alberto Jaimes Berti dettagli del genere sembra incredibile: avrebbe dovuto esserne al corrente. E come se Einstein chiedesse al suo assistente quanto fa due più due".

Ma Berti sapeva che Calvi si trovava in difficoltà? "No", fu la sua risposta." Sapevo che aveva problemi di liquidità, ma si trattava di minuzie, è una cosa che capita alla maggior parte degli uomini d'affari italiani."

Di chi era quel denaro? "Non ho alcuna prova in proposito, ma penso che fosse di José Maria Ruiz Mateos e dell'Opus Dei. Nessuno me ne ha mai chiesto la restituzione. E siccome quel denaro ha maturato degli interessi, ora gli iniziali duemila-duecento milioni di dollari sono diventati cinquemilacinquecento. Se il denaro è di José Maria Ruiz Mateos e dell'Opus Dei, che nel frattempo sono diventati nemici, non gli conviene chiederne la restituzione. Ma anche lo IOR, o la Santa Sede, nel caso i soldi fossero i loro, non hanno alcun interesse a rivendicarne la proprietà. La storia di Calvi, non dimentichiamolo, si chiude con una morte violenta... "

Torniamo all'incontro con Calvi. "Quando dissi sì alla domanda se poteva usare il denaro come garanzia da offrire alla Banca d'Italia", racconta Berti, "sembrò molto contento e disse qualcosa come 'la questione è risolta'. Poi mi chiese dei miei impegni, gli risposi che presto avrei lasciato Londra. Il nostro incontro durò venti-trenta minuti e mai ho avuto l'impressione che Calvi attraversasse un momento difficile. Notai che aveva con sé una ventiquattrore con dei documenti. Ebbi la sensazione che conoscesse i nomi degli intestatari del conto di cui stavamo parlando. Non seppi più nulla fino a quando, due giorni dopo, appresi dalla televisione la notizia della sua morte.

Il racconto di Berti avrebbe potuto aiutare molto gli investigatori, ma lui non si presentò subito alla Polizia: "Ero oberato da enormi problemi personali, mi trovavo coinvolto in un colossale scandalo con la Chiesa venezuelana, ero vittima di una campagna di discredito feroce. Il Vaticano difende alcune persone fino all'ultimo sangue e altre le abbandona. Non ho mai capito il perché".

Probabilmente Berti si riferisce, per quanto riguarda la prima categoria, a religiosi come Marcinkus, Casaroli, De Bonis, o a "uomini di Chiesa" come Mennini - che pure non è un sacerdote -, e nel secondo caso a laici come Calvi e Sindona. "È ovvio che il Vaticano difendesse i propri gerarchi, visto che si trattava di scegliere tra me e i vescovi dell'Opus Dei."

E qui Isabel Pisano infila un'altra sua personale considerazione: " n questa dichiarazione di Alberto Jaimes Berti potrebbe esservi una delle chiavi di lettura della sua deposizione: vuole rendere la pariglia all'Opus Dei dicendo che quell'ingente quantità di denaro fosse proveniente da traffici illeciti?"

Il segretario dello IOR: "Non avevo nulla a che fare con la banca... "

La giornalista spagnola è molto scrupolosa e non si limita a registrare le dichiarazioni dell'intervistato, ma va a verificarle chiedendo la versione dei fatti ai singoli personaggi tirati in ballo da Berti. Ecco che cosa dice, per esempio, José Maria Ruiz Mateos, raggiunto a Madrid, uno di coloro indicati da Berti come possibile proprietario del denaro che interessava Calvi: "Non ho mai sentito parlare di Alberto Jaimes Berti. Ho dato quattro milioni di pesetas all'Opus Dei per l'evangelizzazione dei popoli e non per effettuare salvataggi, né dell'Ambrosiano né di nessun altro. Non conoscevo Calvi".

La giornalista incalza: "Clara Calvi ricorda che c'era uno spagnolo con molti figli, amico di suo marito, che passava le vacanze in Svizzera..."

"Non ero io", risponde seccamente Mateos. "Non passo le mie vacanze in Svizzera, né da nessun'altra parte. Vorrei che venisse fatta luce sulla morte di Roberto Calvi perché anche a me, con tutte le ingiustizie che ho subito, sarebbe potuta succedere la stessa cosa. Mi metto a disposizione di Carlo Calvi per aiutarlo a far luce sulla morte del padre."

Un altro personaggio tirato in ballo dal finanziere venezuelano è monsignor Donatino De Bonis, segretario dello IOR"Mai e poi mai", dice alla giornalista, "qualcuno qui dentro ha sentito parlare di questa persona. Non è sorprendente che uno parli di questa vicenda dopo tredici anni? Questo signore poi ha anche avuto dei guai con la Chiesa del suo Paese. Noi cavalieri di Malta abbiamo tanto da fare: combattiamo le malattie, la disoccupazione, assistiamo i poveri. Lei crede che con tutto quello che abbiamo perso, con tutto quello che abbiamo sofferto, non li andremmo a cercare quei soldi? Magari fosse vero, avremmo risolto tutti i nostri problemi e potremmo fare tanto bene. I magistrati hanno riconosciuto la mia estraneità a tutti gli eventi in questione; io non avevo nulla a che fare con la gestione dello IOR. Lasciavo fare ai laici e, come vede, sono l'unico che si è salvato. Spero nella vostra onestà nel ricercare la verità. La storia di quest'uomo si commenta da sola. Neanche la famiglia Calvi lo ha preso sul serio. Vi giuro su quello che per noi c'è di più sacro che non vi sto mentendo."

Comunque sia, l'esistenza di Berti era stata rivelata dal programma televisivo diffuso dalla BBC e realizzato da Duncan Kennedy. A quel punto il venezuelano era stato costretto a uscire allo scoperto. L'8 ottobre 1993 Alberto Jaimes Berti si presentò sorprendentemente in Italia mettendosi a disposizione dei magistrati per un lungo interrogatorio. Al termine venne arrestato con l'accusa di falsa testimonianza. A quel punto c'era da chiedersi: Berti era solo un bugiardo megalomane o qualcos'altro? Chi lo aveva mandato, chi eventualmente lo manipolava, perché lo faceva, quale scopo si prefiggeva? Se lo aveva mandato qualcuno allo scopo di depistare le indagini sulla morte di Calvi, questo qualcuno ovviamente avrebbe potuto essere collegato agli assassini del banchiere o sapere qualcosa di loro. Per caso a indurre Berti a venire allo scoperto era stato qualche particolare tasto toccato nella trasmissione televisiva di Duncan Kennedy? E, nel caso, quale tasto? In questo quadro c'era forse da ipotizzare un coinvolgimento della Kroll's, desiderosa di allungare i tempi delle indagini? Berti poteva addirittura essere considerato uno strumento in mano alla Kroll's? Che cosa veramente era andato a dire Berti ai magistrati italiani? L'intervista concessa a Isabel Pisano e la volontà del venezuelano di venire in Italia erano forse un messaggio lanciato ai padroni dei 5500 milioni di dollari depositati negli Stati Uniti e che nessuno si era mai presentato a richiedere?

In ogni caso, Berti venne liberato tre settimane dopo il suo arresto e se ne tornò tranquillamente a Londra.

"Calvi si è appropriato del denaro della mafia"

Torniamo alle indagini. Come abbiamo visto, la magistratura inglese in un primo tempo optò per la tesi del suicidio di Calvi, e successivamente, su ricorso della famiglia del banchiere, pronunciò un "verdetto aperto", evitando di scegliere tra la tesi del suicidio e l'ipotesi dell'omicidio. In seguito la magistratura milanese, competente per la bancarotta del Banco Ambrosiano, concluse nuovamente per il suicidio. Nel 1992, dieci anni dopo la scoperta del cadavere, la magistratura romana riuscì a far trasferire il caso nella capitale e riprese le indagini che, dopo cinque anni, si sono concluse con i due mandati di cattura contro Calò e Carboni.

La tesi dei magistrati romani è la seguente: il banchiere milanese non si è ucciso ma è stato ucciso dalla mafia, anzi dalla solita consorteria tra mafia, camorra e massoneria, che avrebbero voluto punirlo per due ragioni: aver dilapidato i soldi che gli avevano affidato, tramite Carboni, allo scopo d'investirli in modo proficuo, e per impedirgli di rivelare i traffici del riciclaggio che si sarebbe svolto attraverso la sua banca. L'omicidio, secondo quello che i magistrati hanno scritto sui mandati di cattura, fu deciso per tre ragioni: perché Calvi avrebbe potuto "trasformarsi in una scheggia impazzita inaffidabile", perché "vi era il timore che Calvi potesse tentare di salvarsi attraverso manovre ricattatorie nei confronti dei vecchi alleati " e infine per "il timore che il banchiere potesse rivelare le informazioni di cui era in possesso".

Andiamo a esaminare quali sono i punti di novità rispetto al passato, quali sono gli elementi che hanno indotto i magistrati di Roma a capovolgere le conclusioni dei giudici di Londra e di Milano, rovesciando il suicidio in omicidio; quali sono le prove del riciclaggio che la banca di Calvi avrebbe messo in atto a favore della mafia, tali da giustificare il movente dell'omicidio; chi sono stati gli esecutori materiali del presunto delitto, atteso che i pentiti, sulle versioni dei quali si sono quasi esclusivamente basate le indagini romane, hanno dato almeno due versioni diverse.

Quando e perché i baffi di Calvi sono spariti?

Per quanto riguarda il primo di questi argomenti emerge un particolare davvero singolare: nell'opzione dell'omicidio, secondo gli inquirenti, un ruolo decisivo hanno avuto i baffi di Calvi. Il problema che i magistrati si sono posti è, infatti, il seguente: quando Calvi scappò dall'Italia, come si evince indubitabilmente dalla foto sul passaporto, aveva ancora i folti baffi portati per una vita. Ma di quei baffi non c'è traccia sul cadavere pescato sul Tamigi. E dunque: quando e perché i baffi sono spariti? Li ha tagliati Calvi oppure qualcun altro?

Agli atti ci sono due risposte. Flavio Carboni, che organizzò la fuga di Calvi e passò con lui alcune ore a Londra il giorno prima della morte, sostiene che Calvi si tagliò i baffi proprio quel giorno a Londra, sperando così di essere meno riconoscibile. Invece un anziano e bizzarro gay inglese, tale Cecil Oerard Coomer, che in quei giorni frequentava, accompagnandosi con allegri giovanotti, lo stesso albergo in cui si era rifugiato Calvi, sostiene di aver riconosciuto il banchiere mentre quella sera lasciava il Cloisters Chelsea accompagnato da due sconosciuti. E lo descrive così: "Un azzimato uomo d'affari che aveva dei baffetti molto sottili che mi ricordarono l'immagine di Hitler..."

Gli inquirenti sposano decisamente la testimonianza di Coomer e ne deducono una conclusione clamorosa: Carboni mente, Calvi non si è mai tagliato i baffi, li ha semplicemente assottigliati, presumibilmente quel giorno stesso. È stato quindi indotto a uscire dall'albergo ed è stato cloroformizzato. Gli assassini gli hanno poi tagliato i baffetti per non lasciare tracce del cloroformio, l'hanno messo sulla barca, l'hanno portato sotto il ponte, lo hanno strangolato e poi lo hanno impiccato al traliccio per simulare il suicidio.

Resta, tuttavia, il problema degli esecutori materiali dell'assassinio. Pentiti di grosso calibro come Tommaso Buscetta e Marino Mannoia avevano indicato l'assassino in Francesco Di Carlo, un mafioso che, come abbiamo visto, si era rifugiato a Londra da anni e che da tempo ammuffiva nelle carceri inglesi in seguito a una condanna per traffico di stupefacenti. Ma Di Carlo si è a sua volta pentito, ha chiesto e ottenuto di venire in Italia e, appena arrivato, ne ha raccontate di cotte e di crude. Ma ha respinto sdegnosamente l'accusa di aver strangolato Calvi: è vero, ha detto, che Calò mi aveva cercato per la bisogna, ma non mi ha trovato perché in quei giorni non ero né a Roma né a Londra. Quando ho saputo che mi aveva cercato, l'ho richiamato. Calò mi disse che il lavoro era già stato fatto: non darti pensiero, mi fece, mi sono rivolto ai napoletani.

Il conto di Carlo Calvi alla Roywest delle Bahamas

L'emissione dei mandati di cattura della primavera 1997 contro Flavio Carboni e Pippo Calò, presunti responsabili della morte violenta di Calvi, ha scatenato nei giornali la ricerca di pareri, testimonianze, opinioni dei personaggi di allora. In un'intervista al Corriere della Sera del 10 aprile 1997, Carlo Calvi ha dichiarato: "Mio padre voleva recarsi a Zurigo e non a Londra. Perché i fondi Bellatrix [i quasi cento milioni di dollari fatti scomparire durante la carcerazione del banchiere] erano movimentati dalla Rotschild di Zurigo".

Non riesco proprio a capire e a immaginare in base a quali informazioni il giovane Calvi abbia potuto fare una simile affermazione, visto e considerato che suo padre non si era mai sognato di preavvertire il figlio, e nemmeno la famiglia, che avrebbe temporaneamente lasciato l'Italia, nonostante avesse il divieto di espatrio e gli fosse stato ritirato il passaporto. Al punto che io fui il primo ad avvisare sia Carlo Calvi sia la signora Clara che il banchiere non si trovava più, né a Milano né a Roma, e li trovai entrambi completamente stupefatti e assolutamente impreparati di fronte a una simile notizia. Insomma, non sapevano niente di niente.

Il Corriere della Sera, riportando la storia di Jurg Herr, scriveva: "Alla Rotschild Bank, del resto, era stato credit manager quello Jurg Herr che in un'esplosiva intervista al Wall Street Journal nel 1992 affermò di aver pagato con cinque milioni di dollari i killer di Calvi per ordine del braccio destro di un esponente della Loggia P2".

Carlo Calvi aggiunse nelle sue dichiarazioni al Corriere: "Un personaggio, questo Herr, le cui tracce si sono perse nel nulla. Poi si è messo in contatto con noi Francesco Pazienza, dicendo che attraverso la faccenda della contessa Agusta aveva avuto dei contatti con lui. Ma Pazienza, si sa, è un personaggio da prendere sempre con le pinze".

Questa punzecchiatura di Carlo Calvi nei miei confronti mi è sempre apparsa un maldestro tentativo di "vendicarsi" in qualche modo di me. Il lettore deve sapere, infatti, che i miei rapporti col figlio di Calvi non sono sempre stati idilliaci. Due episodi, per così dire, spiacevoli li hanno, in particolare, segnati. Il primo risale, come ho già scritto, al giorno in cui a Nassau, nelle Bahamas, lo affrontai con decisione e una certa autorità mentre, un po' fuori di testa come in tutta evidenza era in quel momento, lo trovai intento a inviare deliranti telex dal contenuto più o meno minatorio a mezzo mondo, compreso addirittura il papa. Il secondo episodio è da ricollegarsi al giorno in cui suo padre lo chiamò annunciandogli che gli avrebbe accreditato una certa somma di denaro su un conto intestato a Carlo Calvi e domiciliato in una fiduciaria che aveva sede alle Bahamas e un ufficio anche a New York, la Roywest in Williams Street. Questo denaro sarebbe dovuto arrivare dai fondi neri che Roberto Calvi mi aveva affidato in gestione, ma a un certo punto la cagnotte cominciò a esaurirsi e a essere abbastanza esangue, visto che il banchiere mi ordinava in continuazione di fare cospicui pagamenti a destra e a sinistra. Dissi a Calvi che il "piatto piangeva" e tra i vari "tagli " che mi ordinò c'era anche quello riguardante il conto di Carlo. Il fatto è che il padre non teneva il figlio in grande considerazione, tant'è che gli aveva aperto, e gli manteneva, un fantomatico ufficio a Washington, all'interno del quale il rampollo si trastullava con una serie d'imprecisati studi di econometria.

La storia di Jurg Herr la raccontai telefonicamente a Carlo Calvi e a sua madre negli stessi, identici termini e coi particolari descritti in queste pagine. Compresa la marcia indietro, repentina e misteriosa, compiuta dalla DIA. Il tutto alla presenza di due testimoni: Isabel Pisano e il "signor Sony".