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2007 07 12 * L'Espresso * Squadra depistaggio * Francesco Bonazzi, Peter Gomez

Un appunto di Pio Pompa. E poi pressioni in carcere sul boss pentito Giuffré per pilotare le sue dichiarazioni sui politici. Ecco l'inchiesta della Procura di Roma

L'allarme era stato lanciato in una pagina scritta nel solito burocratese stretto. E per chi nel novembre del 2002 l'aveva letta, era roba da far tremare le vene ai polsi. Secondo Pio Pompa, l'uomo ombra dell'ex capo del Sismi Niccolò Pollari, in quelle settimane era "in atto il tentativo di 'orientare' le dichiarazioni" di un superpentito di Cosa Nostra in modo che servissero da riscontro a quelle lanciate da altri collaboratori di giustizia contro Marcello Dell'Utri, il parlamentare di Forza Italia condannato la scorso anno in primo grado a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Nella sua puntigliosa analisi, il funzionario del servizio segreto militare non citava solo articoli di stampa. Faceva esplicito riferimento anche ad "ambienti qualificati" che avevano rivelato come la procura di Roma, allora impegnata nelle indagini sull'omicidio dell'ex numero uno del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, avesse già posto una serie di domande a Nino Giuffré riguardanti Dell'Utri e le attività del gruppo Fininvest in Sardegna . Ovvero all'ex capomafia di Caccamo, e soprattutto intimo di Bernardo Provenzano, che da pochi mesi si era pentito.

Insomma, il futuro che si prospettava in quei giorni di fronte agli inquilini di Palazzo Chigi era tutt'altro che tranquillo. Perché intorno a Giuffré, stando al Sismi, si stava organizzando "la verosimile predisposizione di un ulteriore iniziativa mediatico giudiziaria in pregiudizio del Presidente del Consiglio (Silvio Berlusconi ndr) e dell'onorevole Dell'Utri". Per questo bisognava correre ai ripari. Ma come? Provando a condizionare le dichiarazioni del boss e facendo di tutto per conoscere nei dettagli quello che aveva già rivelato. Era cioè necessario dare il via a un'operazione di depistaggio ancora in gran parte oscura, della quale 'L'espresso' è però oggi in grado di rivelare almeno le linee essenziali.

La genesi e la gestione del pentimento di Giuffré è uno degli aspetti chiave di un'inchiesta condotta da quasi un anno dai pm romani Maria Monteleone ed Erminio Amelio sull'ufficio ispettivo delle carceri, fino allo scorso anno diretto dall'ex pm di Caltanissetta, Salvatore Leopardi. Un gruppo formato da 71 agenti di polizia penitenziaria, più una lunga serie di consulenti, ai quali durante il governo Berlusconi era stato affidato il compito di monitorare i capomafia detenuti al '41 bis', il cosiddetto carcere duro. Già ora è emerso che nelle prigioni italiane era stato costituito una sorta di servizio d'intelligence parallelo dotato di sofisticati macchinari per le intercettazioni telefoniche e ambientali imprestati, secondo quanto dichiarato a 'L'espresso' da fonti qualificate, non dal Sismi, ma dal Sisde. Un dato che ha spinto i pm a sentire come testi anche l'ex capo del servizio segreto civile Mario Mori e l'ex responsabile della sezione criminalità organizzata del Sisde. In procura i due hanno spiegato come la loro collaborazione con Leopardi e con Giovanni Tinebra, l'attuale procuratore generale di Catania già capo del Dap (il dipartimento amministrazione penitenziaria), sia avvenuta attraverso canali istituzionali. È la legge infatti che prevede la possibilità da parte della polizia giudiziaria di chiedere assistenza tecnica in materia di intercettazioni quando s'indaga sulla criminalità organizzata.

Che cosa abbia esattamente fatto nelle carceri l'organismo diretto da Leopardi - una struttura che Roberto Castelli, il ministro della Giustizia dell'epoca, assicura aver operato in base alla legge e in pieno accordo con le procure antimafia - non è invece ancora chiaro. Unico fatto certo è l'enorme subbuglio provocato dall'inchiesta romana tra le fila del Dap dove gli investigatori hanno acquisito migliaia di pagine di documenti, relazioni di servizio e rapporti, per poi ascoltare decine di testimoni, ai quali sono state rivolte domande sui loro legami con agenti del Sismi e del Sisde.

La sensazione è che i magistrati vogliano capire se il servizio ispettivo e, in qualche caso, alcuni uomini del Gom (il Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria), abbiano segnalato all'esterno i nominativi di chi stava pensando di pentirsi in modo che si potessero adottare adeguate contromisure. In questo quadro è finito agli atti un documento, una sorta di esposto, preparato da un dipendente del Dap che in relazione al caso Giuffré punta l'indice contro esponenti, non del centrodestra, ma del centrosinistra. Detto in altre parole, l'estensore sostiene che il super-pentito avrebbe informalmente parlato in carcere di presunti coinvolgimenti in questioni di mafia di esponenti di vertice dell'attuale maggioranza.

Le indagini hanno permesso di stabilire che si tratta di un depistaggio in piena regola. Giuffré, infatti, è stato davvero avvicinato in cella da guardie carcerarie, ma sarebbero state loro a tentare di condizionare politicamente le sue dichiarazioni in senso favorevole al centrodestra. Insomma ci si troverebbe di fronte a un vero e proprio rovesciamento rispetto a quanto scritto nelle relazioni inviate a Pollari da Pio Pompa. Il fatto non deve stupire. Al braccio destro di Pollari spettava il compito di segnalare (spesso sulla base di informazioni fasulle o artefatte) i rischi, specie di natura giudiziaria, che si profilavano all'orizzonte del governo di Silvio Berlusconi (al quale Pompa aveva espresso per iscritto la volontà di essere "il suo uomo fedele e leale"). Altri invece si occupavano di risolvere i problemi dal punto di vista operativo.

Così la mattina del 23 novembre del 2002, pochi giorni dopo l'analisi del funzionario del Sismi, a Palermo avviene un episodio strano. Il pm Michele Prestipino, che da quattro mesi sta raccogliendo le dichiarazioni di Giuffré, entra nel suo ufficio e si rende subito conto che "qualcun altro" è stato lì. Il magistrato vede alcuni fili che collegano il suo computer alla rete informatica lasciati fuori posto, altri cavetti sono invece stati scambiati. Subito pensa che nella notte un ignoto hacker abbia cercato di copiare l'hard disk del suo computer dove, tra l'altro, conserva anche i file dei verbali ancora segreti del superpentito. Nella procura siciliana scatta l'allarme e la tensione sale ancora non appena si viene a sapere quello che è accaduto a Padova dove i giudici della corte d'assise di Palermo, in trasferta in Veneto, decidono all'ultimo momento di rinviare uno dei primi interrogatori pubblici del nuovo collaboratore di giustizia.

Il giorno prima un uomo, che si era qualificato come il presidente del collegio Giuseppe Nobile, ha telefonato all'aula bunker chiedendo non solo a che ora iniziasse l'udienza (fissata dallo stesso Nobile), ma anche in che albergo alloggiassero i magistrati. Per questo collegio e pm hanno cambiato precipitosamente di hotel, hanno dormito con le scorte armate davanti alle porte, decidendo di rinviare l'audizione di Giuffré.

Piero Grasso, con i giornalisti commenta, "Evidentemente man mano che andiamo avanti qualcuno si preoccupa e non ci lascia lavorare tranquilli, il clima non è facile né sereno". Poi quando gli viene chiesto se davvero il computer di Prestipino è stato violato, dice: "Sappiamo che qualcuno ci ha provato, non è detto che sia riuscito". Dieci mesi dopo, sulla base di una perizia, l'inchiesta avviata dalla procura di Caltanissetta stabilirà che la memoria del pc non era stata copiata, forse perché non ce ne era stato il tempo, forse perché i cavi di collegamento erano semplicemente stati spostati da una donna delle pulizie. Insomma: buio più assoluto.

La cronaca racconta però che proprio in quelle settimane l'atteggiamento del governo Berlusconi sul pentimento di Giuffré, definito dalla procura di Palermo, forse con un certo ottimismo, "il Buscetta del nuovo millennio" comincia improvvisamente a cambiare. A fine settembre 2002, quando con una prima tornata di arresti, la notizia della collaborazione del capomafia era divenuta pubblica, il procuratore Grasso aveva chiesto che il Parlamento rivedesse la legge sui pentiti, approvata da centrosinistra e centrodestra più di un anno prima. Secondo Grasso, i sei mesi di tempo concessi dalle nuove norme ai capomafia per rivelare tutto quello che sapevano, erano troppo pochi. Il procuratore aveva infatti spiegato che quando ci si trova di fronte a un boss del calibro di Giuffré è impossibile pretendere che in un termine così esiguo sia in grado di svelare tutti i segreti di 40 anni di carriera criminale. Dal centrodestra, forse favorevolmente impressionato dalle polemiche sorte all'interno del palazzo di giustizia palermitano dove decine di pm avevano accusato il capo di "scarsa circolazione delle notizie" perché il pentimento di Giuffré era stato tenuto loro segreto fino all'ultimo, era arrivato un coro d'entusiastica approvazione. Roberto Centaro, presidente forzista della Commissione antimafia, il ministro dell'Interno Beppe Pisanu e persino un falco come Renato Schifani, il capogruppo degli azzurri al Senato, avevano subito detto sì alla proroga. E in Antimafia si era cominciato a lavorare su un testo di legge bipartisan. Poi la doccia fredda. Il 12 dicembre, quando scade il termine di 180 giorni, il ministro della giustizia Castelli gela tutti: il governo non proporrà nessun allungamento. Che cosa era cambiato in quei due mesi? Gli unici fatti nuovi sembrano due. L'allarme lanciato pubblicamente dal Sisde che a ottobre, anche sulla base di fonti carcerarie, avverte come Dell'Utri e l'avvocato Cesare Previti siano nel mirino di Cosa Nostra perché la mafia ritiene che Forza Italia non abbia rispettato i patti. E gli appunti di Pio Pompa sul rischio di eventuali dichiarazioni di Giuffré riguardanti i vertici degli azzurri. Un'analisi scritta proprio mentre in gran segreto il pentito stava rendendo, sia pure con il freno a mano, i suoi primi verbali su mafia e politica (l'interrogatorio più rilevante è dell'8 novembre). Per questo è ora indispensabile capire che cosa è accaduto davvero in quei mesi convulsi nelle prigioni italiane.