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2007 08 08 * Il Sole 24 Ore * Ciampi: così salvammo l’Ambrosiano * Ferruccio de Bortoli

L’ex Governatore ricostruisce le trame della P2 (a San Macuto molti documenti ancora da scoprire) - «Fu mia la decisione di garantire tutti i creditori in Italia» / Il mistero della morte: «Roberto Calvi? Un uomo abile, intelligente e ambizioso ma fortemente ambiguo. Non ho mai creduto alla tesi del suicidio» / Protagonisti: «Andreatta mi propose il nome di Bazoli, i suoi primi anni non sono stati facili». Il ruolo decisivo di Casaroli, segretario di Stato vaticano

Il presidente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, è in vacanza sull’Appennino. Quest’anno non andrà alla Maddalena, com’era solito fare, e non solo negli anni del Quirinale. «Qui c’è più fresco». L’agosto dell’82 lo ricorda bene. In particolare, il weekend del 7 e dell’8 agosto. Esattamente venticinque anni fa. Ore drammatiche. Ciampi dovette affrontare, da Governatore della Banca d’Italia, la più grave crisi bancaria del Dopoguerra. La decisione, dolorosa, di liquidare coattivamente il Banco Ambrosiano, allora principale istituto privato del Paese.

Una scelta felice, ma che ad alcuni (Cuccia, per esempio) appariva avventurosa se non temeraria, di organizzare un pool di salvataggio e di affidare il timone, in piena tempesta, a uno sconosciuto avvocato bresciano, Giovanni Bazoli. Un’operazione non priva di contrasti con il Governo, allora presieduto da Spadolini. L’ex ministro delle Finanze, Bruno Visentini, esprimeva più di un dubbio sull’operazione. L’Italia attraversava una crisi morale profonda, sconvolta dallo scandalo P2. La sua immagine internazionale appariva compromessa. La fotografia di Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra aveva fatto il giro del mondo.

«Dobbiamo rivivere quell’atmosfera, ricordarci quegli anni, quei momenti di febbre alta della nostra democrazia». Bene ha fatto Draghi, secondo Ciampi, a sottolineare i meriti della vigilanza della Banca d’Italia e i limiti dell’azione, allora totalmente scoordinata, degli istituti centrali. «Certo, noi stringemmo d’assedio il Banco, ma non potevamo avere accesso alle informazioni sulle sue controllate estere, dove stava gran parte del marcio. Ricordo diverse riunioni fra governatori a Basilea. Io chiedevo ai miei colleghi, al governatore svizzero o a quello inglese, a quello lussemburghese (dove aveva sede il Banco Ambrosiano holding, ndr). Ditemi qualcosa. Nulla. Risposte negative. L’Ambrosiano allora era un gruppo bancario ramificato a livello internazionale. All’apparenza sano. Ma noi potevamo dare uno sguardo solo alla sede milanese. Una volta scoppiato lo scandalo, ci si accorse che le malefatte erano state compiute soprattutto nelle controllate estere, molte delle quali esotiche. In Italia il gruppo rimase robusto, con partecipazioni importanti, dal Varesino alla Cattolica del Veneto, alla Toro. La Centrale deteneva un importante pacchetto della Rizzoli-Corriere della Sera».

«La decisione della Banca centrale e del Governo fu quella di garantire tutti i creditori in Italia, ma non all’estero, dove non avevamo avuto la possibilità di accedere ad alcun documento. L’idea fu mia, molto contestata dal governatore della Banca d’Inghilterra Gordon Richardson, che se ne lamentò molto, ma giusta e inevitabile. E fu sancita dall’accordo di Basilea dell’83. Le racconto un episodio che può dare l’idea di come fosse difficile indagare sulle attività estere di un gruppo bancario, in mancanza di regole peraltro sui consolidati. Due dirigenti della Banca d’Italia furono inviati in Perù per poter indagare sul Banco Andino, controllato dall’Ambrosiano. Arrivarono in albergo a Lima e subito ricevettero l’ordine delle autorità di polizia locali di lasciare il Paese in 24 ore. All’aeroporto furono perquisiti minuziosamente per togliere loro qualsiasi documento. In Perù all’epoca esisteva una norma che sottraeva gli istituti esteri da qualsiasi obbligo di vigilanza. Il potere della P2 in America Latina era forte e diffuso».

Ciampi ricorda nei dettagli la lunga e febbrile notte nella quale insieme ad Andreatta prese la decisione di liquidare il Banco e poi quella di chiamare sei banche, tre pubbliche e tre private, ad organizzare il salvataggio. Qualcuno si tirò indietro? «Sì una banca di Bergamo, il Credito Bergamasco, subito sostituita dalla Banca Agricola Industriale di Reggio Emilia (oggi Credem). Realizzammo un piccolo miracolo. Gli sportelli del Vecchio Ambrosiano chiusero il venerdì in piena bufera, ma già lunedì aprirono con il nome di Nuovo Banco». Ciampi ricorda anche che tutto venne fatto per la prima volta, contratti compresi, con l’ausilio del telefax. Il Banco era stato appena quotato, su decisione della Consob di Guido Rossi. Un contrasto con via Nazionale che ebbe anche uno strascico giudiziario, addirittura penale. C’era l’idea di cambiare del tutto nome, di chiamarlo Credito del Nord? «Discutemmo a lungo su quell’Ambrosiano, lasciarlo, toglierlo. Ma fu giusto così, il nucleo italiano era sano. L’aspetto più delicato era nella partecipazione della Centrale nella Rizzoli, che si decise di non cedere e di trasferire al Nuovo Banco. Avemmo cura di garantire la continuità aziendale e di difendere il primo quotidiano italiano».

Come si arrivò alla scelta di Bazoli? «Le banche pubbliche del pool di salvataggio proposero il nome di Pier Domenico Gallo come direttore generale. E Andreatta mi suggerì, d’accordo con gli istituti privati, di nominare alla presidenza il professor Bazoli, allora vicepresidente della San Paolo di Brescia. Io non lo conoscevo. I suoi primi anni non sono stati facili. L’ho sempre sostenuto. E vanno riconosciuti tutti i suoi meriti. Ricordo una volta, eravamo alla riunione del Forex a Montecatini, e lui mi disse che temeva di essere accerchiato dalle altre banche milanesi. Vogliono assorbirmi, mi disse. Io incontrai subito dopo i giornalisti e dissi: "Il Nuovo Banco è aggregante non aggregando"».

E i rapporti con lo Ior e il Vaticano? «Distinguerei nettamente fra lo Ior, allora in mano a Paul Marcinkus, autore delle famose lettere di patronage, attraverso le quali attività oscure del Banco venivano fatte risalire all’istituto religioso, e il Vaticano. Andreatta fu inflessibile e fermo. Ma una grande mano ce la diede la segreteria di Stato, allora retta dal cardinale Agostino Casaroli che parlando con il ministro degli Esteri dell’epoca, Emilio Colombo, si disse disponibile a risolvere il caso secondo "uno spirito di verità e di giustizia". Una commissione formata da sei membri, tre di espressione vaticana e tre dello Stato italiano, ebbe accesso a tutta la documentazione, anche a quella più riservata. Il lavoro della commissione paritetica pose le basi per l’accordo con il quale lo Ior si impegnò a versare alla procedura concorsuale 250 milioni di dollari».

Quale insegnamenti attuali trarre dallo scandalo Ambrosiano, un quarto di secolo dopo? «Lo ha scritto bene Draghi, la commistione fra banche e politica è foriera di corruzione e guai. Ci vuole più concorrenza e più trasparenza. E una migliore governance. I consiglieri del Banco approvavano ciecamente quello che Calvi proponeva loro. Senza discutere». Che opinione aveva di Calvi, presidente? «Un uomo certamente abile, intelligente, ambizioso, ma fortemente ambiguo. Le dirò una cosa: non ho mai creduto alla tesi del suicidio di Calvi. E le aggiungerò una considerazione più generale. La commissione sulla P2, presieduta da Tina Anselmi, di cose ne scoprì molte. Alcune terrificanti, come mi disse lei stessa in diversi colloqui privati. Molte carte giacciono a palazzo San Macuto, ma nessuno le va a rileggere. Ci sono scritte molte cose, illuminanti sul nostro Paese. E anche attuali. Ma nessuno le va a riprendere, lo dico anche a voi giornalisti...».