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2008 novembre/dicembre * Mezzogiorno Europa * Garantire la libertà - Europa e laicità * Tommaso Visone

http://www.mezzogiornoeuropa.it/admin/files_upl/090114040140%20visone.pdf

Lo Stato Liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire. Questo è il grande rischio che per amore della libertà lo Stato deve affrontare!”

E.W.Böckenforde

Pochi ragionamenti hanno avuto un’eco così ampia nel dibattito pubblico europeo e nazionale (si pensi all’Italia ed alla Germania) rispetto a quello posto in esergo al presente scritto, coniato dall’eminente giuspubblicista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenforde nell’ormai lontano 1967. Anni or sono (nel 2004) l’attuale pontefice, all’epoca cardinale Joseph Ratzinger, ed il filosofo Jürgen Habermas intavolarono un celeberrimo colloquio a proposito di Wissen und Glaben2 partendo proprio dal Diktum böckenfordiano.

I problemi sollevati in quello scritto sulla “Nascita dello Stato come processo di secolarizzazione”( 1967) incontrano l’interesse di studiosi ed intellettuali in quanto lo scenario “aporetico3” dipinto da Böckenforde, comportante una continua tensione valoriale, sembra oggi manifestarsi concretamente con la “crisi” dello Stato-nazione europeo4. Infatti in Europa, a seguito dei processi che oggi vengono riassunti sotto il nome di globalizzazione, lo Stato-nazione, non avendo uti singuli la capacità di “agire globalmente”5, si trova esposto a quel “venir meno delle frontiere” che “in sede economica, sociale e culturale tocca i fondamenti materiali di quel sistema statale europeo che era stato edificato su base territoriale a partire dal diciassettesimo secolo6”. Ciò avviene attraverso l’esplodere dell’immigrazione e della segmentazione culturale – con l’inerente rottura della relativa omogeneità della popolazione e dunque della base prepolitica dell’integrazione dei cittadini – coincidente con la perdita – dovuta alle interdipendenze dell’economia e della società mondiale – di autonomia, capacità d’azione e sostanza democratica da parte dello Stato. Inoltre, mentre prendevano forza le dinamiche a cui si è appena fatto cenno, la caduta del muro di Berlino “ha messo a nudo la precarietà degli assetti politici interni dei singoli stati7” ed ha causato, attraverso la vittoria sul piano della legittimità ottenuta dalla democrazia liberale8, la fine della politicizzazione della sfera pubblica9 segnando così il definitivo svuotamento sul piano “etico” dell’azione del potere pubblico, la quale si è ripercossa a sua volta sull’unità spirituale (spesso incarnata materialmente dai testi costituzionali) dello Stato stesso. Si può, in merito, convenire con Natalino Irti che chiosa “la crisi dello Stato, dell’unità spirituale in cui la molteplicità degli individui trovi valore e significato, dissolve lo Stato nell’agire dei governanti; e se questo agire si affida ad occasionalismo e pragmatismo lo Stato ne accompagna e condivide il destino10”.

La domanda “su cosa si appoggia questo Stato in tempi di crisi?11” risulta, dunque, quantomai attuale, soprattutto se associata al dibattito sulla “civile convivenza di cittadini autonomi nel quadro di una società liberale”12. Infatti non è possibile risolvere il problema “pratico” della convivenza nello Stato13 senza enucleare preventivamente una prospettiva in base alla quale quello Stato oggi possa continuare a mantenersi in vita garantendo, così, le dimensioni (territorio, regole, organizzazione14, ecc.) stesse della coabitazione. Si pone, dunque, l’esigenza di interrogarsi in merito a quelle eventuali “forze unificatrici” di carattere pre-politico15 che possano sostenere l’esistenza futura dello Stato “come ordinamento di libertà” sul suolo europeo o più precisamente riguardo a quei vincoli che, rifondando le basi per una sintesi tra politica e diritto16, permettano l’esercizio concreto della libertà e con essa, sul piano strettamente politico, della democrazia17.

Porsi questa domanda significa preliminarmente indicare la modalità propria d’espressione di queste “forze unificatrici”, di questi “vincoli” etici. Essa è parte di ciò che comunemente si indica come “identità collettiva”, ovvero il “sé immaginato18” da una collettività, il suo modo di autodefinirsi attraverso una relazione19 che comprende la capacità di riconoscersi in quanto gruppo e di essere riconosciuti da altri come tale. La continua ricerca di questo riconoscimento da parte degli altri gruppi e di sé stessi (in quanto gruppo) conduce ad una continua rimodulazione dell’ equilibrio tra il proprio essere (percezione di “come si è”, delineata in base alle proprie scelte) collettivo ed il proprio dover essere (scelta di “come si vuole essere”, attuata sulla base della precedente percezione) collettivo. Si può essere più precisi sostenendo che è la relazione circolare tra il proprio essere e proprio dover essere a comporre l’identità di un gruppo. La seconda componente (quella del dover essere collettivo) di questa diade – distinta ma non disgiunta – costituisce precipuamente la forma di ciò che si va cercando, la modalità in cui i “vincoli” etici, le “forze unificatrici” si palesano. Si indagherà, dunque, tra le espressioni principali delle identita collettive – passibili di applicazione in quanto precondizioni di un’organizzazione statale20 – per individuare se in esse esistano o meno le basi per la sopravvivenza dello Stato Liberale.

Sul piano nazionale – per ciò che concerne il continente Europeo – questi vincoli si manifestano in modo asimmetrico. Per fare un esempio, se un paese come la Francia può ancora contare su un forte senso di appartenenza nazionale21 lo stesso non è sostenibile nei riguardi dell’Italia o del Belgio, dove si assiste ad un’autentica disintegrazione del medesimo. Inoltre, perfino in Francia, l’identità nazionale non sempre riesce a convogliare al suo interno le differenti comunità ed individualità presenti sul territorio statale e questo fallimento alimenta a sua volta tutti gli effetti perversi (razzismo, xenofobia) connessi con una mancata integrazione22. Il tutto può condurre verso tensioni e conflittualità potenzialmente dannose per lo stesso Stato Liberale. L’identità ed il sentimento di appartenenza nazionale dunque, anche lì dove risultano ancora fortemente presenti, non sembrano in grado di garantire un saldo fondamento di lungo periodo per l’esistenza del medesimo23. Sul piano locale si nota, differentemente, l’avvento di una pleiade di identità regionali, municipali, comunitarie, e territoriali. In parte ciò è dovuto alle dinamiche “crepuscolari” dell’attuale temperie: “nel crepuscolo dello Stato moderno ritornano alla ribalta quelle podestates indirectae, quelle podestà economiche, religiose, socio-istituzionali autonome, quel multipolarismo conflittuale, che la sovranità assoluta dello Stato aveva neutralizzato ponendo fine, con la pace di Westfalia (1648) al lungo e sanguinoso capitolo delle guerre di religione24”. Ma non si tratta di un semplice ritorno al passato, come una lettura superficiale della devolution inglese e del sistema spagnolo potrebbe suggerire25. Le nuove identità collettive locali sono, spesso, frutto di un’invenzione scaturita dal contatto con le dinamiche proprie alla globalizzazione, il cui paradosso “consiste allora nel fatto che in essa, il luogo della differenza viene ricostruito, la tradizione inventata, la comunità immaginata26”. Gli esempi possono spaziare dall’identità dei “clan” scaturiti nelle periferie delle città europee, all’identità “padana” propria ad un grande movimento politico, radicato sul territorio, come la Lega nord. Queste neo-identità locali vengono “prodotte” a contatto diretto con la globalizzazione; esse generano l’esaltazione della differenza e della distinzione come reazione alle paure causate da un mondo troppo complesso che non si riesce più a comprendere. Sono figlie dirette di un esigenza di sicurezza e di tutela del singolo all’interno di una realtà percepita come ostile. Sono quindi identità che si costruiscono una chiusura verso l’esterno, la quale si traduce a sua volta in una chiusura verso l’interno: “una società tutta intenta a proteggere la propria differenza non può certo guardare con favore a movimenti che ne alterino gli equilibri costituiti, e questo si traduce immediatamente in vincoli – taciti o espliciti – posti alla mobilità sociale, alla comunicazione, alla solidarietà attiva27”. Il tutto a sua volta conduce verso la negazione del modus vivendi proprio allo Stato liberale, inficiandone dunque la possibilità di sopravvivenza sulla base esclusiva delle nuove forme di appartenenza local-esclusivistiche.

Un ulteriore livello di esame concerne il piano europeo. A questo livello di analisi, quello continentale, il discorso si fa allo stesso tempo più complicato e più interessante. Più complicato in quanto non vi è un accordo sostanziale28 sul contenuto definitivo29 di un’identità politica europea che è, ad ogni modo, riconosciuta trasversalmente come esistente30. Il dibattito sulle radici cristiane dell’Eurodell’Europa fornisce un buon esempio in merito. Più interessante in quanto è proprio sul piano europeo che possono darsi quei vincoli etici e quelle “forze unificatrici” che costituiscono “la sete” di quest’analisi. Si inferisce questo sulla base del fatto che tra i cittadini dell’Ue il sentimento di appartenenza ad un comune orizzonte europeo sta soppiantando, in particolare tra i giovani, il sentimento di appartenenza nazionale31. Inoltre – se si considera come il riconoscimento da parte dell’altro sia un elemento base per la costruzione dell’identità – bisogna tenere in considerazione la percezione che i cittadini extraeuropei hanno oggi dell’Europa: nel mondo si parla di europei e di Europa, non di francesi ed inglesi o di Francia ed Inghilterra. Per gli abitanti del Pianeta Terra (che non siano europei) l’Europa è già una realtà politica e culturale, anzi, spesso, costituisce per loro un autentico modello32. Se, dunque, il senso d’appartenenza ad una collettività europea ha un impatto sul futuro degli europei (si pensi all’importanza ed all’incidenza dei programmi Erasmus) risultando riconosciuto al livello mondiale, esso proprio per questo si candida ad essere la base potenziale della sopravvivenza di un’ordinamento di libertà. Ma resta il problema della caratterizzazione sostanziale di questo senso di appartenenza europeo: infatti un ordinamento europeo che si manifestasse attraverso pretese autoritarie o irrispettose delle significative specificità esistenti sul piano Europeo distruggerebbe la libertà anziché fondarla e lo stesso avverrebbe con l’appoggiarsi meramente alle condizioni valoriali esistenti33. Quindi si dovrà capire in che modo un’identità politica europea possa essere a fondamento di un rinnovato orizzonte di libertà.

Come si è inferito sopra non è possibile “trovare” un contenuto comune dato al senso di appartenenza europeo. Questo non significa che non si possa “costruirlo” attraverso i mezzi della politica. Come ben illustra Habermas, nel corso della sua polemica con Grimm, l’identità collettiva di un corpo politico può nascere come conseguenza del lavoro delle istituzioni34. Ma quale effetto avrà quest’azione politica sulla natura di un ipotetico Stato? Qui cala la scure teorica di Böckenforde. Infatti, come citato in esergo al presente scritto, lo “Stato Liberale vive di presupposti che esso di per sé non può garantire”. Ovvero, lo Stato può sì intervenire politicamente per mezzo delle sue istituzioni “creando” e /o alimentando un’identità collettiva35, ma nel momento stesso in cui lo fa abdica a sua identità di Stato liberale36. Inoltre bisogna tenere presente, con Pietro Rossi, che “l’Europa come progetto non può prescindere dalla sua realtà storica, dal modo in cui essa si è sviluppata; e l’identità europea può essere sì ricostruita ma sulla base del materiale a disposizione37”. Si è già visto come i materiali a disposizione siano vari e difficilmente conciliabili partendo esclusivamente da una base storica. Quindi è impossibile “costruire” un’identità politica europea che faccia sopravvivere lo Stato Liberale?

Vero se mai è il fatto che non è possibile oggi alcun’ordine liberale senza la costruzione di un’identità politica comune europea. Questo è dovuto al fatto che lo Stato liberale, per essere realmente tale, ovvero per salvaguardare la libertà del singolo individuo, del cittadino, deve ritagliarsi una sua sfera di positività38 grazie alla quale si definiscano concretamente i limiti, le regole e le forme di questa libertà individuale. Questa sfera di positività, che concerne sempre una scelta politica, deve poggiarsi su una base condivisa, altrimenti finisce per negare la libertà stessa invadendo arbitrariamente la sfera dei singoli. Oggi con l’implodere delle identità nazionali e l’esplodere di quelle locali il rischio è quello di una deriva autoritaria/ plebiscitaria o di una guerra civile. Solo un’identità sopranazionale, con un maggior livello di universalità (ed allo stesso tempo di storicità) come quella europea può restituire una prospettiva ad un’ordinamento di libertà legittimo ed efficace sul continente europeo. L’argomentazioni di Böckenforde e di Rossi – che assumono nell’ottica di questo scritto un valore propedeutico/ critico – possono trovare una comune soluzione nella costruzione da parte delle istituzioni europee di una identità collettiva fondata su un valore storico che abbia a sua volta come effetto la trasformazione delle istituzioni europee in istituzioni garanti e creatrici di libertà39. L’attuale costruzione europea, oltre a non costituire uno Stato40, non è in grado di tutelare la libertà dei cittadini europei in quanto non ne ha i mezzi (es. non esiste una polizia che risponda in primis ad un livello europeo). Potrebbe, però, acquisirli progressivamente attraverso una serie di riforme istituzionali che partano da un’iniziativa politica. Questa stessa potrebbe porre le premesse per la nascita di un’identità collettiva comune a tutti gli europei, la quale costruendosi ricorsivamente41 insieme alla costituzione di un assetto europeo maggiormente vicino a quello statuale, finirebbe, come azione politica, per uscire dal dilemma di Bockenforde in quanto il processo stesso di formazione di uno Stato liberale è in grado di creare i “presupposti” su cui poi questo Stato potrebbe reggersi senza essere in grado di garantirli una volta definito: essi, maturati sulla nuova base continentale, vivrebbero di un nuovo slancio a contatto con il rifiorito contesto istituzionale europeo. Per fare ciò si dovrebbe scegliere politicamente un principio42 cardine da tutelare a livello europeo su cui tenere in piedi la pluralità di valori esistenti e questo logos, per tenere da conto l’osservazione di Rossi, dovrebbe essere già esistente nello spettro della storia europea.

L’unico principio in grado di corrispondere a queste caratteristiche è, una volta fatta un’accurata analisi, quello di Laicità, definibile come la regola secondo la quale sono determinanti43 nell’agire politico solo quei valori che risultano positivamente sostenuti dallo Stato in quanto comuni alla società da esso tutelata e sostentata44. Questo principio – che ha origine in Europa inerentemente al percorso che ha portato la sovranità a fondarsi sull’individuo e la difesa della sua libertà in quanto tale45 – è il solo in grado di fondare un autentico pluralismo, e quindi di far vivere e valorizzare le diversità nell’unità e viceversa. Senza uno spazio regolato in comune, proprio al moderno xxxx, non esisterà pluralità, né di fedi né di valori, ma solo alterità: una babele dei valori in cui “nessuno riuscirà a definirsi nelle parti politiche, nelle parti culturali e nelle parti religiose e ne andrà di mezzo, tra l’altro, la nostra stessa democrazia46”.

Si conclude conseguentemente questa breve esposizione affermando che al fine di fondare e tutelare un “ordinamento di libertà” sul suolo europeo risulta di fondamentale importanza promuovere una costruzione istituzionale/identitaria a carattere continentale che veda come propria “forza unificatrice” e vincolo istitutivo il principio di laicità, inteso come sopra, nella consapevole considerazione delle difficoltà endemiche che questo indirizzo politico porta con se nell’attuale temperie. Anche in quest’ultima, tuttavia, non tutto è perduto: si deve considerare, infatti, come il destino dell’Europa non sia ancora stato scritto in quanto «ce qu’ il y a de moins simple, de moins naturel et de plus artificiel, c’est à dire de moins fatal, de plus humain et de plus libre dans le monde, c’est l’Europe47».

1 E. Böckenforde, Diritto e secolarizzazione, Laterza, Bari, 2007, pag. 53.

2 Si veda la traduzione italiana del dialogo, J.Ratzinger e J.Habermas, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Venezia, 2005.

3 L’espressione è contenuta in G.E.Rusconi, Quei tre (tedeschi) e il postsecolare, su “Reset”, n. 101, 09/ 2007.

4 Infatti, non essendo in discussione la “Fine dello Stato” si è in presenza, come aveva ben capito Norberto Bobbio, della crisi di un “determinato tipo di Stato”. Si veda in Norberto Bobbio, Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico., Einaudi, Torino, 1995, pag. 118.

5 Ovvero di giungere ad “intese vincolanti sulle condizioni-quadro”. J.Habermas, La costellazione post-nazionale, op. cit., pag. 23 Capacità che non è propria solo alle istituzioni sovranazionali citate da Habermas, ma – e con ben maggior incisività – a tutti quei soggetti che riuniscono intorno ad una chiara identità nazionale uno Stato territoriale dalla dimensione continentale o semi continentale (es. Cina, India, Usa).

6 J.Habermas, La costellazione postnazionale, op. cit., pag. 106.

7 A seguito della distruzione del sistema che aveva stabilizzato le relazioni internazionali per quarant’anni, E.Hobsbawm, Il secolo breve, Bur, Milano, pag. 23.

8 G. Sartori, Democrazia:cos’è, Bur, Milano, 2006, pp.267-268.

9 Non si tratta di fine delle ideologie, ad esempio si può riscontrare la vittoria dell’ideologia del mercato (“liberismo economico fondato sul capitale privato e la volontà di profitto” e della conseguente “ideologia della ricchezza”). Non si tratta neanche della “fine della storia” (per la quale tra l’altro bisognerebbe presupporre la validità della storia direzionale alla Fukuyama), in quanto, come giustamente afferma E. Morin, nous somme dans l’age de fer planétaire. Si tratta invece dell’uscita di scena del dibattito sulle “finalità della vita sociale” che ha comportato la scomparsa dell’idea che possano esistere vere alternative politiche (con il conseguente riposizionamento al centro dei programmi dei partiti politici ed il relativo impoverimento funzionale sul piano descrittivo di concetti come quelli di Destra e Sinistra). Si veda in N.Irti, La tenaglia.In difesa dell’ideologia politica,, Laterza, Bari,2008 pag.30; L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Bari,2004, pp.328-330; E.Morin, Pour entrer dans le XXI siècle, Seuil, Paris, 2004, pp.345-350; A.De Benoist, Destra/ Sinistra: verso la fine di una divisione, relazione svolta al convegno “L’Europa ed il futuro della politica” 25-26 maggio 2001 e pubblicata su A.Carrino (a cura di) L’Europa ed il futuro della politica, Società Libera, Milano, 2002.

10 N.Irti, La tenaglia., op. cit., pag. 28.

11 E.Böckenforde, op. cit., pag. 54.

12 J.Habermas, La terza via tra laicismo e radicalismo religioso, su “Repubblica”, 19/7/2008, pag. 1.

13 Se i cittadini “autonomi” devono convivere all’interno di una “società liberale”, bisogna considerare come questo sia possibile solo a partire dalla Rivoluzione Francese che segna il termine simbolico del processo di formazione dello Stato moderno il quale garantisce – attraverso la sua organizzazione, i suoi strumenti (es. le costituzioni scritte) e la sua nuova legittimazione – ad ogni cittadino la tutela della “Sicurezza” e della “Libertà”. Si veda A.De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Il mulino, Bologna, 2001, pag.396 e T.Visone, Alle origini moderne della Laicità, “Sintesidialettica”, n.5, 2008, www.sintesidialettica. it. Risulta quindi difficile discutere di “cittadini autonomi nel quadro di una società liberale” (Habermas) senza precisare che quel quadro è storicamente configurabile solo nello Stato moderno, ovvero nello “Stato” tout court. Quindi un problema di convivenza, immesso in un quadro simile, non riguarda solamente diverse opzioni culturali emergenti al livello della società civile ma concerne ed investe a pieno la concreta dinamica dell’organizzazione statale e delle scelte da intraprendere mediante essa.. Per questo si parla di problema di convivenza “nello Stato”.

14 Per il rapporto tra questi elementi si veda in N.Irti, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Bari, 2006, pp.3-91.

15 Si parla di forze prepolitiche non in quanto nascano prima o creino il politico, ma in quanto vengano da questo utilizzate come suo fondamento vincolante, come garanzia. Si tratta di una priorità logica e non storica. Ciò consente, sul piano storico, un’interazione tra l’elemento politico e l’elemento pre-politico, ovvero una possibilità di influenza “scelta” su quest’ultimo.

16 N.Matteucci, Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Il Mulino, Bologna, 1997, pag.99.

17 In quanto la Democrazia presuppone la libertà d’informazione, di argomentazione (fino al confronto sul piano ideale tra diversi paradigmi politici, anche qualora questi siano estranei all’ipotesi democratica) e di scelta (quest’ultima limitata esclusivamente dal rispetto dei preupposti legali della democrazia stessa). In merito ci si permette di rimandare a T.Visone, Which Theory of Democracy?, su “Politikon: The Iapss Journal of Political Science”, V.13, n.2, October 2007, pp.18-32.

18 “Le identità sono dei sé immaginati. Sono ciò che pensiamo di essere e ciò che vogliamo essere”. S. P.Huntington, La nuova America, Garzanti, Milano, 2004 pag. 37.

19 Definibile come un insieme di scambi e comunicazioni la cui funzione è non solo inerente al rapporto tra i gruppi ma anche a quello tra gli individui ed il proprio gruppo. Infatti “une societè humaine s’autorganise et s’autorégénère à partir des échanges et communication entre les espirits individuels. Cette société, unité complexe dotée de qualités émergentes, rétroagit sur ses parties individuelles en leur fournissant sa culture”. Edgar Morin, La Methode. 5. L’humanitè de l’humanité. L’identitè humaine, Seuil, Paris, 2001, pag.186.

20 Quindi precipuamente si cercherà tra le varie forme territoriali d’ identità politica presenti sul continente europeo.

21 “Si può addirittura parlare di una religione civile alla francese passata attraverso varie metamorfosi, riuscendo infine a trovare una forma di convivenza sincretica fra la religiosità civile della patria repubblicana e la cristianitudine della religiosità popolare, soprattutto durante la presidenza di Charles De Gaulle (1958-1968)”. E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Bari, 2001, pag. 195.

22 Si veda in merito l’analisi sempre attuale di C. Liauzu, Racisme, xénofobie: que faire?, “Le monde diplomatique”, Juillet 1991, pag. 29.

23 Già negli anni Sessanta, E. Böckenforde evidenziava come l’idea di nazione stesse perdendo la sua “efficacia formativa”. Si veda in E.Böckenforde, Diritto e secolarizzazione, Laterza, Bari, 2007, pag. 53.

24 G.Marramao, Passaggio a occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 111.

25 All’interno dei quali si mantiene una relazione ed un legame, sia pur a volte conflittuale, con l’identità nazionale e, soprattutto, con quella europea.

26 G.Marramao, op. cit., pag. 39.

27 F.Cassano, Luci ed ombre del locale, p.3, disponibile su http://www.nuovomunicipio.org/todoesto/relazecontrib/cassanobwocirasino.pdf.

28 In merito le pubblicazioni ed i dibattiti tra politici ed intellettuali sono stati numerosissimi. Orientativamente si guardino i seguenti testi: P. Rossi, L’identità dell’Europa, Il mulino, Bologna, 2007, pp.9-14; B. De Giovanni, L’identità dell’Europa in B. Consarelli, Pensiero moderno ed identità politica europea, Cedam, Padova, 2003, pp.1-18; M. Pera e J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano, 2005, pp. 67-72.

29 Un elemento definito e condiviso di quest’identità è sicuramente il valore della pace. Si veda in J.Rifkin, Il sogno europeo, Mondadori, Milano, 2004, pag. 204

30 Questo avviene per due ragioni. La prima è attinente proprio alla componente di “dover essere” che è intrinseca ad ogni identità. Infatti lo giungere a definire un “ciò che si è” comune significherebbe influenzare – per il processo ricorsivo sopra descritto – un “ciò che si deve essere” comune, ovvero corrisponderebbe ad un’affermazione politica, ad un orientamento programmatico rivolto al futuro. Ora è proprio sul piano politico – anche per ciò che concerne il mondo della cultura – che si combatte e si è combattuta la battaglia per la definizione dell’identità europea. Nessuno vuole rassegnarsi, nel momento in cui si definiscono le istituzioni ed il nuovo nomos europeo, a non veder riconosciuta una parte della propria singola identità come parte della futura e più grande identità politica europea. L’impasse resta in buona parte concentrata (e risolvibile) su questo piano. La seconda è relativa ad una peculiarità della stessa identità europea. Infatti “è il divenire dell’Europa che fa l’Europa; è il suo movimento a definirne i tratti; è il divenire la categoria centrale per definire l’Europa; l’Europa diviene, non è; è in quanto diviene, ovvero in quanto non si coglie in una sua identità presupposta”. B. De Giovanni, L’identità dell’Europa, in B.Consarelli, op. cit., pag. 3.

31 Per i dati e lo sviluppo di questa tendenza si veda in J. Rifkin, op. cit., pp. 204-205.

32 Si veda ad esempio per l’area dell’America Latina in Martino Rigacci, Il fascino del disincanto. Il subcontinente (non) visto da Bruxelles, su “Limes”, n.4, 2003, pp. 139-148.

33 Si veda E.W.Böckenforde, Diritto e secolarizzazione, op. cit., pag. 53.

34 Si veda tutto il ragionamento contenuto nella quarta parte di J.Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998.

35 Come si spiegava sopra alle nota 15 il parlare di forze “prepolitiche” in senso logico non nega la possibilità di un intervento della politica sulle stesse che alteri la loro natura e la loro connotazione. È però in gioco, con la critica di Böckenforde, la qualità, l’indirizzo concreto, che la politica – qualora si incarni nella coercizione statale – stessa prende nell’intervenire.

36 “Come Stato liberale, esso da una parte può sussistere soltanto se la libertà si regola a partire dall’interno, dalla sostanza morale del singolo e dall’omogeneità della società. D’altra parte, esso non può cercare di garantire queste forze regolatrici interne da solo, ossia con i mezzi della costrizione giuridica e del comando autoritario senza però rinunciare alla sua natura liberale e-sul piano secolarizzato – ricadere in quella pretesa di totalità dalla quale è uscito nelle guerre di religione”. E.Böckenforde, op. cit., pag. 53.

37 P. Rossi, op. cit., pag. 178.

38 Ovvero non basta define lo Stato Liberale per negazione, come lo Stato Neutro. In quanto lo Stato che non interviene mai finisce semplicemente per avallare la legge del più forte. Ci devono essere dei valori che diano un senso concreto e comune alla libertà del singolo, senza per questo finire per occupare tutto lo spettro valoriale concernente l’educazione e la vita del singolo stesso. Inoltre lo Stato non potrà mai definire come assoluti, (come giusti di per sé), i propri valori, pena la ricaduta nello Stato etico e la fine della libertà. Il terreno di selezione, di misura e di critica dei valori dello Stato e quello della democrazia incanalata nello Stato Costituzionale di Diritto.

39 Ergo l’argomento di Böckenforde non è più utile come riferimento quando delle istituzioni “illiberali” pongono con le loro azioni politiche le premesse per uno Stato, o, in senso più ampio, per un’ordinamento liberale. Infatti un’ordinamento liberale può perdere la sua qualità solo se parte da questa condizione, ma non se diviene tale grazie ad un processo politico che attraverso la formazione di un’identità comune, ponga in essere la libertà stessa.

40 Giuliano Amato parlava di multilevel systems of government. Citato in G.Marramao, op. cit., pag. 233.

41 Ovvero secondo un processo per il quale “les effets rétroagissent sur les causes, où les produits sont eux-même producteurs de ce qui les produit. Cette notion dépasse la conception linéaire de la causalité: cause effet”. E. Morin, La methode 6. L’Éthique, Seuil, Paris, 2004, pag. 261.

42 Che, si badi, non è un valore. Un principio, infatti, è utile e strumentale ad un fine del nomos per cui si da (in questo caso quello liberale). Il valore, differentemente, è fondativo del nomos stesso (es. libertà, ecc.): è un fine in sè. Il che non significa che esso sia necessariamente “assoluto”. Esso può confrontarsi con altri valori ed anche definirsi, come accade ai valori in democrazia, esclusivamente attraverso la relazione con altri valori. Si veda, per quest’ultimo passaggio, in M. Cacciari, Laicità: il problema dei valori, in “Quaderni del circolo Rosselli”, n.1, 2008, pp.77-78.

43 Ovvero risultano cogenti in ultima istanza.

44 Che si differenzia dal principio dello Stato etico secondo il quale lo Stato tutelando “valori assoluti, che trascendono la mera regolazione degli interessi reciproci degli associati” finisce per incarnare il bene in sé. In questo caso lo Stato, infatti, non è il bene in sè e non tutela valori assoluti, bensì valori sottoposti al consenso ed alla volontà dei governati esprimibili in democrazia, ad esempio, mediante le procedure di revisione costituzionale. Si veda per la definizione di Stato etico Paolo Alvazzi del Frate, Il costituzionalismo moderno, Giappichelli, Torino, 2007, pag. 72.

45 Ovvero in quanto “soggetti indivisi dotati delle prerogative sovrane di autodecisione”. Ci si permette di rimandare in merito al ragionamento sviluppato in T. Visone, Alle origini moderne della Laicità. Stato, sovranità e libertà, op. cit.

46 M. Cacciari, op. cit., pag. 82

47 J.Michelet, Introduction à l’histoire universelle, Hachette, Paris, 1834, pag. 73.