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2010 05 15 * Il Giornale * Pecorella: "Nello scippo del Corriere Angelo Rizzoli fu vittima sacrificale" * Stefano Lorenzetto

Dopo 26 anni l'editore ottiene l'assoluzione anche dall'avvocato del manager descritto come suo presunto complice: "L'intera vicenda pilotata fin dall'in

«Angelo Rizzoli fu depredato della sua casa editrice perché fin dall’inizio era stato individuato come la vittima sacrificale. Politica e finanza volevano impossessarsi del gioiello di famiglia, il Corriere della Sera, e alla fine ci sono riusciti. L’infamia più atroce è stata far passare la vittima per un malvivente, una mistificazione che in 26 lunghi anni ha attecchito nell’opinione pubblica, a dispetto delle sentenze».

Dopo aver patito 407 giorni di ingiusta detenzione, l’aggravamento in cella della sclerosi multipla di cui soffre dal 1963, lo scippo della più importante impresa editoriale italiana fondata dal nonno Angelo nel 1909, la morte per crepacuore del padre Andrea, il suicidio della sorella Isabellina che temeva di finire in galera, l’arresto senza motivo del fratello Alberto e dopo aver incassato sei assoluzioni definitive in Cassazione, l’ex imputato a vita Angelo Rizzoli non poteva sperare in un settimo sigillo più importante di questo. A imprimerlo sull’intera vicenda è il professor Gaetano Pecorella, che fu il difensore dell’uomo di fiducia del banchiere Roberto Calvi, il defunto Bruno Tassan Din, entrato in Rizzoli nel 1973 e salito di grado fino a diventare amministratore delegato del gruppo, condannato a 6 anni e 4 mesi per il dissesto della casa editrice e a 14 anni per il crac del Banco Ambrosiano (poi ridotti a 8 anni e 2 mesi in appello con un patteggiamento).

Un parere decisivo, quello dell’avvocato Pecorella, perché nella vulgata che ha resistito per un quarto di secolo Tassan Din è sempre stato indicato come il complice di Rizzoli, tanto da essersi entrambi iscritti, al pari di Calvi, alla P2 di Licio Gelli e Umberto Ortolani. Il disegno criminoso attribuito fin da subito al quintetto Gelli, Ortolani, Calvi, Rizzoli, Tassan Din fu la spoliazione della casa editrice e l’asservimento del più diffuso quotidiano nazionale agli oscuri disegni della loggia massonica. «In realtà si trattò di un quartetto: Rizzoli non c’entrava nulla, anzi ne fece le spese», chiarisce Pecorella. Un quartetto che era nato come un trio, nelle carte processuali ribattezzato Blu, acronimo dei nomi Bruno, Licio e Umberto.

La testimonianza del professor Pecorella, già presidente della commissione Giustizia della Camera, al suo quinto mandato parlamentare, conferisce una prospettiva inedita a una vicenda giudiziaria che si è riaperta con l’atto di citazione depositato lo scorso settembre presso il tribunale civile di Milano da Angelo Rizzoli, rappresentato e difeso dagli avvocati Romano Vaccarella, Fabio Lepri e Achille Saletti. Dopo due rinvii a gennaio e a marzo, il 16 giugno dovrebbe tenersi la prima udienza del processo intentato dall’ex editore contro gli eredi societari della cordata formata da Gemina (Fiat e Mediobanca), Iniziativa Meta (Montedison), Mittel (finanziaria bresciana presieduta da Giovanni Bazoli) e Giovanni Arvedi (imprenditore siderurgico) che nel 1984 rilevò la Rizzoli e il Corriere per un tozzo di pane. Da Intesa Sanpaolo (e cioè da Bazoli, che fu l’artefice dell’operazione di salvataggio nella sua veste di presidente del Nuovo Banco Ambrosiano, sorto dalle ceneri del vecchio Ambrosiano di Calvi), da Rcs Mediagroup, da Edison, da Mittel e da Arvedi, l’ex editore pretende la «restituzione per equivalente» di quanto gli fu strappato: una somma compresa tra 650 e 724 milioni di euro. 

Come divenne difensore di Bruno Tassan Din? 
«All’epoca mi occupavo soprattutto di processi politici. Fu un collega civilista a fare il mio nome per l’assistenza della Rizzoli nei procedimenti penali. L’assalto al Corriere cominciò nel marzo 1981, con la perquisizione dell’abitazione di Gelli a Castiglion Fibocchi. Dalle carte sequestrate a Villa Wanda emerse il ruolo di Tassan Din, referente di Calvi e Gelli, nelle vicende del giornale e del Banco Ambrosiano. Quando fu arrestato per il crac dell’istituto di credito, dovetti fare una scelta. Siccome Rizzoli era stato prosciolto in istruttoria, decisi di assumere la difesa dell’imputato finito in carcere, cioè Tassan Din, il quale dava una versione dei fatti in conflitto con quella di Rizzoli».

Che genere di conflitto?
«Risultava che Tassan Din, attraverso una banca svizzera, avesse dirottato su un conto corrente irlandese 30 milioni di dollari usciti dal Banco Ambrosiano. Egli disse che si trattava del corrispettivo per la cessione di un 10,2% di azioni Rizzoli di sua proprietà, avute come premio per meriti gestionali. L’editore, al contrario, sostenne che quel pacchetto apparteneva alla sua Fincoriz, una finanziaria di cui Tassan Din era solo l’amministratore delegato. Il mio cliente esibì un documento dell’avvenuta cessione, ma i giudici non lo ritennero credibile e perciò vi fu la condanna per distrazione di beni del Banco Ambrosiano. Peraltro Rizzoli intentò tre cause contro Tassan Din per dimostrare che il 10,2% era suo e le vinse tutte e tre».

Il 29 aprile 1981 la Centrale Finanziaria di Calvi aveva acquistato il 40% del 90,2% di azioni detenute da Rizzoli e sottoscritto un aumento di capitale. Dunque quei 30 milioni di dollari altro non erano che una parte dei 150 miliardi di lire che il banchiere doveva a Rizzoli e che non arrivarono mai in via Solferino.
«Infatti furono trasferiti sui conti Recioto, Zirka e Telada presso la Rothschild Bank di Zurigo e di lì occultati in paradisi fiscali, come hanno riconosciuto le sentenze favorevoli a Rizzoli pronunciate dalla Cassazione, dalla Suprema Corte d’Irlanda e dalla giustizia elvetica».

Si creò così la voragine nei conti che consentì alla cordata dei «salvatori della patria fra virgolette», come l’ha definita Cesare Romiti che pure ne faceva parte come Fiat, di impossessarsi per appena 9 miliardi di lire di un’azienda che ne valeva, a seconda delle stime, tra i 270 e i 440. 
«Io credo che l’intera vicenda sia stata pilotata fin dall’inizio. Prima con l’arresto di Rizzoli e Tassan Din, che si tradusse in una perdita di ruolo per entrambi. Poi con l’incalcolabile danno d’immagine arrecato all’editore. Quindi con un intervento molto pesante delle Fiamme gialle sulla Rizzoli. Infine con la costrizione esercitata dalla magistratura sul legittimo proprietario affinché svendesse il suo 50,2% di azioni alla cordata messa insieme da Bazoli, pena il ritorno in prigione. A beneficiarne fu una parte ben precisa della finanza. Tant’è vero che la più grande banca privata e la più grande casa editrice saltarono insieme. Tutto fu tranne che un evento naturale».

Chi si diede più da fare?
«C’era un enorme interesse da parte delle forze politiche, con in testa il Psi, a impadronirsi della corazzata di via Solferino. La rovina di Rizzoli scaturisce dalle manovre per arrivare al controllo del Corriere. Lo stato di crisi scatenò appetiti formidabili. Non solo quelli dei cosiddetti poteri forti. Anche di illustri sconosciuti. Ricordo che a Tassan Din giungevano tutti i giorni richieste persino da piccoli imprenditori che s’erano convinti di poter partecipare al banchetto. Fu un accerchiamento selvaggio. Non dico che i magistrati non disponessero di elementi per procedere, tuttavia questo rimane un caso da manuale per capire come alcuni processi possano determinare svolte economiche di portata colossale».

I lettori del Corriere sono tuttora convinti che Angelo Rizzoli si fosse iscritto alla P2 in quanto complice di Calvi, Gelli, Tassan Din e Ortolani e che abbia attivamente collaborato con la banda dei quattro nel saccheggiare la casa editrice che porta il suo nome. In realtà le banche statali - l’Icipu di Franco Piga, l’Imi di Giorgio Cappon e l’Italcasse di Giuseppe Arcaini - gli avevano chiuso i rubinetti per ordine della Dc, adirata a causa del mancato licenziamento del direttore Pietro Ottone, che era stato promesso dal padre Andrea ad Amintore Fanfani. Questo costrinse Rizzoli a gettarsi nelle braccia dell’Ambrosiano.
«Da quello che ho capito io, a Rizzoli e a Tassan Din non importava un fico secco della P2. In quel momento Calvi rappresentava per loro l’unico interlocutore disposto a finanziare la casa editrice. Nella partita ebbe un grosso peso Ortolani, personaggio assai vicino al Vaticano. Tant’è vero che i 95 milioni di dollari dell’Ambrosiano, dirottati all’estero anziché essere versati alla Rizzoli, vennero occultati da Gelli, Ortolani e Tassan Din in concorso con Calvi, simulando che si trattasse di un prestito a favore della Bellatrix di Panama, società controllata dallo Ior presieduto da monsignor Paul Marcinkus».

Le risulta che Angelo Rizzoli sia stato convocato nel luglio 1981 dall’allora presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, e dal ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, nell’abitazione romana del senatore Andrea Manzella, a Monte Mario, allo scopo di chiedergli l’immediato allontanamento di Tassan Din e la sua sostituzione col professor Piero Schlesinger?
«Non lo so. Né direttamente né indirettamente. Le manovre per allontanare Tassan Din vi furono. L’avversione di Schlesinger al mio assistito era notoria».

Rizzoli racconta che Calvi in un primo tempo si dichiarò d’accordo nel sostituire il suo pupillo Tassan Din con Schlesinger. Ma l’editore commise un errore madornale: informò di questa decisione il principale azionista dell’Espresso, Carlo Caracciolo, che fece uscire la notizia sul suo quotidiano, La Repubblica. In difesa di Tassan Din insorse il Pci e Calvi fece marcia indietro per paura di inimicarsi «il partito delle Procure».
«Tassan Din era un lavoratore instancabile, cercava appoggi politici ovunque. Per esempio sollecitò, attraverso Bruno Visentini, il sostegno del Pri. È un fatto che la nomina di Alberto Cavallari, direttore gradito alla sinistra, al posto di Franco Di Bella, risultato iscritto alla P2, fu voluta da Tassan Din».

Nell’agosto 1982 il Banco Ambrosiano finisce in liquidazione. Il Nuovo Banco Ambrosiano presieduto da Bazoli nomina proprio Schlesinger presidente della Centrale Finanziaria di Calvi, trovato impiccato due mesi prima sotto il ponte dei Frati Neri a Londra. Schlesinger si muove con l’obiettivo di ottenere il fallimento della casa editrice e l’arresto di Rizzoli e Tassan Din per la sparizione dei fondi destinati all’aumento di capitale del 1981.
«Ma Schlesinger ben sapeva, per averglielo detto lo stesso Calvi, che quei fondi erano scomparsi per opera di Tassan Din, Gelli e Ortolani e che io ero totalmente estraneo all’operazione, come poi dimostreranno con sentenza passata in giudicato i magistrati milanesi che si sono occupati del crac del Banco Ambrosiano», sostiene Rizzoli. «Se quella confidenza di Calvi davvero vi fu, appare evidente che i nuovi acquirenti del Corriere non avrebbero potuto ignorare quanto era a conoscenza di Schlesinger».

Giriamola così: considerato che lei durante Mani pulite ha difeso molti imputati accusati in base al teorema del «non poteva non sapere», ritiene che Agnelli, Bazoli e soci potessero non sapere che Rizzoli era solo la vittima innocente di un raggiro? 
«Ripeto: se davvero Schlesinger sapeva, ma io non ho prove in proposito, ritengo che non potessero non sapere anche tutti gli altri. Quello che posso dire con certezza, è che Tassan Din non chiamò mai in causa Rizzoli per il crac dell’Ambrosiano».