Il “pentito” Antonio Mancini: “De Pedis? Oggi sarebbe in Parlamento
Delle nostre manovre tra mafia e Servizi il Pci allora sapeva tutto”
" IO NON SONO
BUONO, SÒ UN FIGLIO DE NA MIGNOTTA".
I capelli bianchi, gli occhi neri, due fessure protette dagli occhiali. La
biografia criminale di uno dei capi della Banda della Magliana riversata su
nastro in un pomeriggio marchigiano di caldo, cicale e confessioni. Jesi è un
silenzio. Un ordine irreale. Antonio Mancini, l'accattone, ci vive da 16 anni.
Ai tempi in cui divideva proventi, cocaina e azioni con gli amici fascisti,
Mancini sfiorava l'eresia.
Leggeva Pasolini, prendeva la mira parafrasando Mohammed Alì: "Bumayè", regolava conti, dominava Roma: "Ero un drizzatorti. Conquistavo zone, esigevo crediti, punivo gli insolventi. A San Basilio i nomi delle strade erano paesi delle Marche. Quando me sò pentito mi è venuto spontaneo indicà uno di quei posti". Integrazione completata. Oggi Mancini è un uomo libero. Quindici anni di carcere. Condanne scontate. Nessuna pendenza. È seduto a casa sua. Immagini di Che Guevara, volumi di Marx, Bibbie, Vangeli. Da un computer le notizie sul ritrovamento dei resti di De Pedis a Sant'Apollinare.
Di altre ossa: "Non sono di Emanuela Orlandi e tutta l'operazione è fumo negli occhi. Domani si potrà urlare «visto che il Vaticano non c'entra nulla?». Perché non hanno aperto prima? Troppo champagne ubriaca e qualcuno, anche tra gli inquirenti, ha riempito i bicchieri fino all'orlo". Nel tempo libero, quando i demoni di un passato incancellabile non tornano a fargli visita, Mancini aiuta i disabili. Loro non sanno.
E lo adorano. "Un giorno vidi passare un pulmino pieno di ragazzini. Salutavano. Andai da Sebastianelli, il commissario di Polizia del luogo e lo pregai: ‘Mi dia una possibilità, sarei felice di fare il buffone per loro'. Lui garantì per me e adesso, quell'impegno è diventata la ragione della mia vita". L'accento romano è imbastardito. I ricordi lucidi. La rabbia ancora giovane. "Sono anni che dico che la Magliana è viva. I magistrati mi danno retta a intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A domanda rispondo e se non so, sto zitto".
Quante persone ha ucciso,
Mancini?
Con la "bandaccia" tante. Prima, quando
operavo a Val Melaina, ancora di più. Ogni volta che dovevo ammazzà qualcuno io
dicevo "lo mandamo a salutà Adriano". Era come una parola d'ordine.
Chi era Adriano?
Mio padre. Comunista tutto d'uno pezzo. Me diceva
sempre "addavenì baffone". Sotto lo studio di Lucio Libertini, il
deputato, aveva messo le radici. Libertini gli aveva promesso una casa
popolare. Noi vivevamo in otto in due camere. Ma baffone non arrivava mai e mio
padre è morto senza avere un tetto. E io guardavo quelli con il Rolex e la
Ferrari e mi ripetevo: "Mejo dù anni ar gabbio che stà in due camere con
sei creature".
Quale è l'omicidio che le è più
rimasto impresso?
Quello di Nicolino Selis. Lui temeva di finire
ammazzato, ma riuscimmo a fissare un appuntamento in una villa di Ostia. Gli
dissero che ero uscito dalla Banda, che mi ero messo in proprio. E lui cadde in
trappola. Scavammo la buca e lo aspettammo. Mi trovò seduto su un divano ed
ebbe il coraggio di scherzare: "Accattò, ma che finaccia hai fatto".
Io mi girai e risposi: "non sai la fine che stai a fa te". Un secondo
dopo, Abbatino tirò fuori la baiaffa da una scatola di cioccolatini e gli sparò
in testa. Poi presero la mira anche gli altri.
Pentimenti?
Affrontavo le curve a 300 all'ora ed ero convinto
che sarei morto a 30 anni. Ho risparmiato gente che avrebbe meritato di morire
e ucciso fratelli che si fidavano di me.
E le sembra normale?
Un mio amico studioso di sciamanesimo sostiene che
in fondo non sia successo niente. Il mio è solo un percorso di vita. A 12 anni
volevo dominare il mondo. Quando la cavalcata epica si è trasformata in una
pozzanghera di sangue, ho detto basta. La mia prima figlia era cresciuta senza
un padre, non volevo che con la seconda accadesse lo stesso.
Uccideva per i soldi?
Sono stato miliardario, ma il denaro l'ho sempre
disprezzato. I soldi li ho avuti ma me li sò magnati tutti. Adesso sono
rovinato, dormo in uno spazio grande come una cabina telefonica. Ci siete,
potete valutare.
Quanti metri quadri?
Metri? Centimetri. Sono stato io a chiedere al
Comune di vivere qui in periferia. Neri, gialli, rossi. Gente che ti suona alle
due di notte. "Che c'hai una birra?" Lo stagno mio.
“SI FACEVA CHIAMARE PRESIDENTE”
Ieri nuotava nella criminalità.
Come Renatino De Pedis, di cui oggi si parla tanto. Con lui ruppi nel momento
in cui fece uccidere Edoardo Toscano e fui contento quando l'ammazzarono.
Toscano, l'operaietto, componente della banda, era un mio amico.
De Pedis non lo fu mai?
Non era più un bandito, si era imborghesito. Oggi
sarebbe in Parlamento. Dalla nuova banda che si era creato tra Tor Pignattara e
Marranella si faceva chiamare Presidente.
Lo pretendeva anche da voi?
Io gli sputavo in faccia. Era entrato in un giro
strano con Massimo Carminati, un fascista che oggi fa i miliardi con i
ristoranti. Sabrina Minardi - l'ex compagna di De Pedis - dice che tutti
sapevano che Renatino era l'uomo del Vaticano.
E del Cardinal Poletti. Renatino
fu accompagnato in Vaticano da Enrico Nicoletti e Flavio Carboni. Di suo, De
Pedis non sapeva "accucchià" due parole in italiano. Ma era bello.
Regale. Presentabile. Mi veniva a prendere la domenica, andavamo alla
pasticceria Andreotti e poi al Bolognese. Quando parlava con il potente di
turno o l'onorevole si inchinava. Io lo cazziavo e lui ribatteva: "Ah Nì,
adesso mi inchino io, dopo si piegheranno loro".
Che ruolo ebbe De Pedis nel
rapimento Orlandi?
Guidò la macchina che servì al sequestro della
ragazza. Il rapimento fu deciso da mafiosi e testaccini. C'erano soldi che non
rientravano e la scelta era tra lasciare qualche cardinale a terra ai bordi
della strada o colpire qualcuno che fosse vicino al Papa e che aveva rapporti
economici con noi per marcare un segno. Scegliemmo la seconda strada.
Quanti soldi?
Più di duecento milioni di dollari che la banda
aveva riciclato per lo Ior e che non aveva più rivisto dopo il crack
dell'Ambrosiano. Io e Danilo Abbruciati nell'81 andammo a Milano, per
incontrare gente del Banco legata a Calvi e alla P2. A portare a Wojtyla la
foto scattata in piscina a Castelgandolfo in cui lui era circondato dalle suore
fu Gelli in persona. Tutto era legato.
Abbruciati morì nell'82, ucciso
da una guardia giurata dopo il fallito attentato a Roberto Rosone,
vicepresidente del Banco Ambrosiano.
La guardia giurata non sparò mai e subito dopo scomparve nel nulla. Abbruciati
non era uno sprovveduto. Lo ammazzò lo Stato, perché Danilo aveva visto troppo.
Pensate che a Milano sarei dovuto andare io. Danilo si rifiutò: "Se
viaggio io otteniamo più soldi".
Perché proprio la Orlandi?
Ve l'ho detto. Il padre di Emanuela non era un
semplice messo. Era molto di più.
L'ha mai detto ai famigliari?
Quando vidi Natalina, la sorella di Emanuela, negli
studi di Chi l'ha visto? le dissi esattamente così. D'altronde Nicola Cavaliere,
un bravo poliziotto, inascoltato, lo disse subito. "La Orlandi è legata ai
soldi della Magliana". I giudici lo ignorarono, nessun magistrato voleva
un carico del genere. Ora hanno detto che mi chiamerà l'Antimafia. Sto qui,
vado, non mi nascondo. Non ho paura di niente.
Non ha perso l'arroganza dei
tempi d'oro.
Non è questione di arroganza, ma di verità. Quando decisi di collaborare per la
prima volta erano presenti Otello Lupacchini e il questore Fiorelli. Fui
chiaro: "Volete il mio aiuto? Non vi ho cercato io. Se lo volete sappiate
che smonterò una a una le bugie di Abbatino". Rimasero sorpresi.
Il libro di De Cataldo?
Un bufalificio. In Romanzo criminale ha scritto che
disprezzavo Pasolini dandogli del frocio. "A De Catà, io leggevo Pier
Paolo quando tu ancora non eri nato".
C'è chi sostiene che la Magliana
fosse anche dietro al caso Moro.
Certo, fummo noi a trovare il covo di Via Montalcini. Selis lavorava anche per
Raffaele Cutolo e passò la dritta a Franco Giuseppucci, detto "er
negro". Fu lui a portare la notizia a Flaminio Piccoli. Si incontrarono
carbonari, sotto un ponte, vicino a Piazza Cavour. Le Br erano completamente
eterodirette dai Servizi, infiltrate dallo Stato.
Qualche storico ritiene che Moro
a Via Montalcini non sia stato mai.
E invece c'era. Poi non so se sia passato anche a Palazzo Caetani o a Palo
Laziale, come alcuni suggeriscono. Venni a sapere che le lettere di Moro e i
video degli interrogatori erano stati presi da una ex amante di Danilo
Abbruciati. Un'ex partigiana al soldo del Mossad. Danilo sul sequestro dello
statista Dc sapeva tanto.
Furono esponenti della Banda
della Magliana a sparare a Moro?
Possibile. Non mi meraviglierebbe. Noi, la Mafia,
il Vaticano, la politica. Nicoletti gestiva i nostri soldi e quelli di
Andreotti, contemporaneamente. Il resto dell'arco costituzionale, a iniziare
dall'esponente antiterrorismo più in vista del Pci, sapeva tutto. C'erano
rapporti con i socialisti. Si parlava spesso di un siciliano, un pezzo grosso.
Uno che avevamo tra le mani, cui potevamo rivolgerci senza troppi problemi e
dare disposizioni.
A proposito di Andreotti. Mancini
cosa sa del caso Pecorelli?
Tutto. L'abbiamo ucciso noi e i siciliani. De Pedis
aveva la pistola con cui era stato ammazzato. A finirlo andarono in tre. Angelo
La Barbera e Massimo Carminati.
Il terzo?
Non lo dico, è un mio amico. Quando mi
interrogarono il nome lo feci, ma aggiunsi: "Se lo verbalizzate non firmo
neanche sotto tortura".
Un fascista?
Non attacca.
“CI AVETE CHIESTO PECORELLI”
Il vostro referente mafioso a
Roma?
Con Pippo Calò andavo a mangiare, ma non mi
piaceva. Noi della banda pippavamo, quelli erano sempre in doppio petto. De
Pedis dormiva a Villa Borghese in un appartamento dei servizi segreti, la coca
stravolgeva molti ambiti. E la Magliana li controllava tutti. Facevamo riunioni
con i vertici di Carabinieri e Polizia, con i servizi segreti, con chi ci
avrebbe dovuto arrestare.
Frequentavate anche gente dello
spettacolo?
L'attrice Gioia Scola stava sia con Paolo
Berlusconi che con un amico mio. Quando andai a riferirlo in Procura, al nome
di Paolo Berlusconi, il magistrato spense il registratore. Neanche Silvio,
Paolo. Vi rendete conto? Sputtanare Gioia Scola andava benissimo, Paolo
Berlusconi spaventava.
Cosa sa della strage di Bologna?
Furono i fascisti manovrati dallo Stato. Forse
gente intorno a Delle Chiaie, forse il gruppo di Massimiliano Fachini. Non Fioravanti
e in ogni caso, qualcun altro della Banda intervenne in un secondo tempo allo
scopo di depistare.
Chi Mancini?
Massimo Carminati. Un fascista che teorizzava
l'ordine nel disordine. Anarcofascisti si facevano chiamare."Noi uccidiamo
il potere" urlavano. Mortacci loro.
Ha le prove per dirlo?
Se sarò chiamato a fornirle, le darò.
Pensa mai alle vittime?
Se è per questo anche ai carnefici. Alla P2. Con
Abbruciati che come Giuseppucci, con i servizi aveva rapporti solidi, andavo
nell'ufficio di Ortolani in Via Bissolati. Incontravo Luigi Cavallo, che voleva
ancora fare il golpe e diceva di essere amico di Sindona. Noi volevamo salvare
Francis Turatello, tirarlo fuori dal carcere e ai nostri interlocutori milanesi
dell'Ambrosiano e ai piduisti l'avevamo detto chiaramente: "Ci avete
chiesto Pecorelli e Moro e noi abbiamo rispettato i patti. Adesso tocca a
voi".
Ma Turatello morì a Badu ‘e
Carros nell'agosto 1981 in modo atroce.
Un dolore enorme. Dicono che l'abbia ucciso Pasquale Barra sventrandolo e mangiandogli
il cuore, ma è una cazzata. Barra prese quattro schiaffi, gli esecutori furono
altri e l'ordine di far fuori Francis lo diede Luciano Liggio in persona.
Francis riceveva lettere dai politici. Lo chiamavano capo.
Per sparare ai fratelli Proietti
nell'81, lei in Via di Donna Olimpia a Roma improvvisò un Far West.
Marcellone Colafigli era ossessionato dalla morte di Giuseppucci. Dormivamo
nella stessa casa e a volte, di notte, si svegliava. "Nino, er negro è
uscito dal televisore. Continua a ripete ‘na frase". Allora io lo
assecondavo. "Che frase?" E lui: "Ahò, ma nun me vendicate
mai?" Proietti era un ricattatore, bisognava farlo.
PALLOTTOLE, MICA PRANZI DI GALA
Impressiona sentirglielo dire.
Lo capisco, ma la mia vita non è stato un pranzo di gala. Ho incontrato infami
e cornuti. Ho sparato,ucciso e sempre saputo che un colpo poteva ammazzare
anche me. Quando te tocca te tocca, è inutile che ti guardi le spalle. Se
arriva, arriva.
A De Pedis, nel '90, arrivò.
De Pedis era un cacasotto. Avrebbe dovuto morire prima, durante una pausa del
processo. Colafigli che non gli aveva perdonato l'omicidio di Edoardo Toscano
fremeva. Aveva preparato il laccio nel furgone dei Carabinieri. Era livido:
"Stamattina je tocca". Lo fermai io. Fabiola Moretti, la mia ex
compagna scrisse a Renatino: "Se te vuoi salvà mettite vicino a
Nino". Lui eseguì, spaventatissimo. E io lo sfottevo: "Stà buono, non
sudà". Forse così scemo non ero.
Pazzo?
Quando dividevo l'abitazione con Pasquale Belsito,
un neofascista, lo vedevo sempre giocare con le bombe a mano. Io e Colafigli
pippati di cocaina come scimmie eravamo terrorizzati. Se essere pazzi
assomiglia a un'esistenza così, sì, lo sono stato. Mi sono anche divertito. Con
Abbruciati andavamo a donne. A volte, sul più bello, lo baciavo in bocca, così
per creare un diversivo. Ve li immaginate due delinquentoni come noi impegnati
a scandalizzare le ragazze?
La banda oggi?
Quando ho visto la foto di Mokbel (l'imprenditore
romano che avrebbe supportato l'elezione al Senato di Nicola Di Girolamo, ndr)
sul giornale mi è preso un colpo. Gennaro era il mio guardaspalle. Con Roberto
D'Inzillo mi veniva a prendere in moto ogni mattina. Ha fatto sue le tecniche
della banda, ma il più pericoloso, il vero capo di Roma, è un altro.
Chi?
Una nostra vecchia conoscenza uscita sempre indenne
dai processi. Andate a controllare e troverete il nome.
Come Flavio Carboni all'epoca
della Magliana?
Non fatemi ridere. Carboni era patetico. Si
travestiva con tacchi e parrucchino e faceva affari con Berlusconi. La prima
volta che lo vidi però provai un sollievo assoluto. Se questo è il famoso
Carboni, su Roma e sull'Italia comanderemo per tutta la vita.
C'è una morale in tutto questo?
Ho sempre diffidato delle morali e non sarei
comunque la persona più adatta. Forse però aveva ragione Domenico Sica, l'ex
alto commissario antimafia. Era certo che la Banda fosse più potente di Cosa
Nostra e dei Servizi messi insieme. Non credo avesse tort