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2015 07 13 * Fatto Quotidiano* Loggia p2, soldi e dossier: la Finanza che sbaglia * Gianni Barbacetto

Non solo Michele Adinolfi che fa comunella col “giglio magico” da Speciale a Milanese passando per Pollari

Nec recisa recedit. Non arretra neppure tagliata. Il motto della Guardia di finanza, letto oggi, richiama inevitabilmente visioni contrapposte di eroismi e oscurità. I tanti che fanno il loro lavoro con passione, come quel colonnello Renzo Nisi che avviò le indagini sul Mose e, prima di essere trasferito, profetizzò: “La pietra ha cominciato a rotolare e presto diventerà una valanga”. E i molti che invece hanno tradito. Già Luigi Einaudi scrisse in un suo saggio che “il contrabbando, la grassazione e l’abuso di potere erano attività abituali dei militari che avrebbero dovuto estirparli”.

Dalle pontificie “brigate delle gabelle” a oggi, quante brutte storie hanno macchiato l’onore delle Fiamme gialle. Gli ultimi protagonisti del serial Fiamme Sporche sono a Venezia il generale Emilio Spaziante e il braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Milanese. A Bari la squadretta che sosteneva il procuratore di Bari Antonio Laudati alle prese con Giampi Tarantini e le sue escort.

A Napoli il colonnello Fabio Mendella, accusato da un imprenditore di pretendere il pizzo. A Roma il generale Michele Adinolfi che parla e sparla con il Giglio magico. E che dire dell’ex comandante generale Roberto Speciale, che si faceva portare le spigole in montagna da un aereo della Gdf?

Più indietro nel tempo, c’è il ruolo del generale Nicolò Pollari, diventato direttore del servizio segreto militare Sismi, nel sequestro Cia dell’imam Abu Omar e nel dossieraggio illegale della sua ombra (Shadow) Pio Pompa. C’è lo scontro, durissimo, tra il Gico della Guardia di finanza di Firenze e il pool Mani pulite della procura di Milano.

C’è, soprattutto, l’indagine Fiamme Sporche che nel 1994 ha portato in carcere e sotto processo più di cento finanzieri, accusati di pretendere tangenti per ammorbidire le verifiche fiscali. Prima ancora, due scandali ne hanno pesantemente segnato la storia: la truffa dei petroli e il ritrovamento dell’elenco degli iscritti alla P2. Fu nell’autunno del 1980 che decollò un’inchiesta giudiziaria che svelò i contorni di una colossale truffa all’erario sui prodotti petroliferi: il 20 per cento dei prodotti raffinati ogni anno in Italia, per almeno sette anni, era stato sottratto ai controlli e al fisco.

Risultato: oltre 2 mila miliardi di lire (a valori dell’epoca) sottratti allo Stato. Più che truffa era un sistema, attraverso il quale i petrolieri evadevano il fisco e finanziavano sottobanco i partiti politici di governo. Il tutto con il beneplacito del Corpo che avrebbe dovuto vigilare e proteggere l’erario. Risultarono coinvolti infatti i massimi vertici della Guardia di finanza: il comandante generale Raffaele Giudice e il suo capo di Stato maggiore, Donato Lo Prete.

Nel 1981, a scandalo ancora caldo, la pubblicazione delle liste P2 mise in luce che alla loggia di Licio Gelli erano iscritti anche molti appartenenti alla Guardia di finanza: l’elenco per categorie allinea 37 nomi di ufficiali delle Fiamme gialle, tra cui non solo i due generali già coinvolti nella truffa dei petroli, Giudice (tessera numero 1634) e Lo Prete (1600), ma anche il nuovo comandante del Corpo succeduto a Giudice, il generale Orazio Giannini (2116), il colonnello Sergio Acciai, il comandante del nucleo speciale valutario di Roma, i capi dei nuclei di polizia tributaria di molte province, il comandante della Finanza di Arezzo, parecchi ufficiali.

In quei mesi di atroce tormento istituzionale, la Guardia di finanza mostrò al Paese contemporaneamente le sue vergogne e il suo riscatto: furono i finanzieri, inviati il 17 marzo 1981 dai giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo alla ditta Giole di Castiglion Fibocchi, a sequestrare le carte di Gelli; furono i finanzieri a indagare, interrogare, arrestare decine e decine di commilitoni coinvolti nella truffa dei petroli. Quelle vecchie ombre dimenticate si ripresentarono in piena Mani pulite.

Era il 26 aprile 1994 quando il giovane brigadiere Pietro Di Giovanni si recò dal comandante della sua sezione, il tenente colonnello Gianluigi Miglioli, per riferirgli un fatto imbarazzante: nel corso delle indagini sulle tangenti ai partiti pagate dalla Edilnord di Paolo Berlusconi al fondo pensioni della Cariplo, un suo superiore, il maresciallo Francesco Nanocchio, gli aveva passato una busta contenente 2 milioni e mezzo di lire. Doveva essere la sua parte di un “premio” alla squadra per non vedere le irregolarità fiscali nella compravendita di un palazzo in via Senato a Milano.

Dalla reazione di un finanziere onesto parte l’inchiesta sulle Fiamme Sporche, condotta inizialmente dai pm Raffaele Tito e Antonio Di Pietro. Scattano le manette, si riempiono le prime celle del carcere militare di Peschiera del Garda. Le porte delle celle del vecchio forte si chiudono anche alle spalle del generale Giuseppe Cerciello, per cinque anni comandante del nucleo regionale della Lombardia. Seguono settimane drammatiche. Per i magistrati che, increduli, si sentono traditi da chi operava al loro fianco, da chi credevano dalla parte della legalità.

Dalle indagini emerge, ancora una volta, un sistema. Non è l’episodico scivolone di qualche finanziere che non riesce a resistere alle tentazioni, ubriacato dai fiumi di denaro che vede passare sopra la sua testa, è un vero e proprio sistema collaudato, operante da anni e ad alto rendimento: la sola procura di Milano recupera, a titolo di risarcimento, ben 8 miliardi e 600 milioni di lire. Una storia esemplare è quella di Massimo Maria Berruti.

Da ufficialetto delle Fiamme gialle era stato coinvolto in una storia di mazzette degli anni Ottanta, che gli archeologi di Tangentopoli classificano come “scandalo Icome c”: un’inchiesta condotta da Francesco Greco che ebbe tra i suoi imputati nientemeno che Gianfranco Troielli (che poi si scoprirà essere il grande cassiere di Bettino Craxi) e Antonio Natali (padre politico di Craxi, considerato l’inven tore del sistema milanese delle tangenti).

Come succedeva prima di Mani pulite, la sentenza d’appello mandò assolti quasi tutti gli imputati, e anche Berruti, che dimenticò presto la condanna a 5 anni di reclusione ottenuta in primo grado, uscì dalla Guardia di finanza e fece carriera. Greco e il pool lo ritrovano infatti, qualche anno dopo, come consulente del gruppo Fininvest, assoldato dopo una verifica a Berlusconi finita benissimo e in seguito coinvolto in più d’una vicenda di corruzione.

A metà degli anni 90 viene scoperta una squadretta di finanzieri (“legati da solidarietà massonica”, si legge negli atti) che facevano sotterranea azione di dossieraggio ai danni del pool di Milano, alla ricerca di materiali per infangare Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e altri magistrati milanesi. Con scarsi risultati. Non si nascondono invece i militi del Gico della Guardia di finanza di Firenze, che nel 1995 producono un dossier contro i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano (Armando Spataro, Alberto Nobili, Maurizio Romanelli…).

Il materiale del Gico di Firenze viene poi riciclato nell’autunno 1996 dalla procura di La Spezia, che arresta, è vero, il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia e il manager delle Ferrovie Lorenzo Necci, ma finisce per avere come obiettivo principale le presunte irregolarità e i pretesi abusi commessi dal pool di Milano, Di Pietro in testa, accusato di aver coperto e salvato alcuni imputati di Mani pulite. Finisce in una bolla di sapone, ma il fango è girato a lungo nei tubi dell’informazione.