“Mai al di sotto di Secondigliano” aveva ammesso Giovanni
Tinebra, direttore del Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria, ai deputati che in audizione parlamentare gli chiedevano la
mappa, da sempre negata “per motivi di sicurezza”, delle sezioni speciali in
cui sono reclusi i detenuti sottoposti al regime del 41 bis. E’
da questa indicazione geografica, piuttosto generica, che i radicali sono
partiti la scorsa estate nella loro indagine alla scoperta della comunità del
carcere duro, il paradossale Sarchiapone del sistema penitenziario.
Potrà sembrare inverosimile, ma politici e giornalisti ne hanno dibattuto per
anni pur ignorandone le condizioni di effettiva applicazione e spesso
liquidando i documenti di protesta dei detenuti come proclami “dai contenuti
inquietanti”, messaggi in codice o annunci di guerre di mafia. A svelare questo
segreto di Stato provvedono adesso Sergio D’Elia (Segretario di
“Nessuno tocchi Caino”) eMaurizio Turco (eurodeputato radicale) con
il libro-inchiesta “Tortura democratica”, edito da Marsilio. Il volume - che
raccoglie le testimonianze di 645 detenuti in 41 bis incontrati dagli autori
nel loro recente giro cella a cella - solleva ragionevoli dubbi sull’effettiva
costituzionalità del carcere speciale.
Nato nel 1992 come misura eccezionale e temporanea per rispondere alle stragi
mafiose di Capaci e di via D’Amelio, il 41 bis è stato ora inserito stabilmente
nel nostro ordinamento giudiziario.
Grazie a esso il Guardasigilli può sospendere “per gravi motivi d’ordine e di
sicurezza pubblica” l’applicazione delle regole ordinarie di trattamento dei
detenuti (indagati, imputati, in attesa di giudizio e non solo condannati) per
i reati di criminalità organizzata: mafia, traffico di droga, sequestro e
traffico di persone, terrorismo, omicidio, estorsione e rapina.
Il 41 bis è presto divenuto un vessillo brandito da destra come da
sinistra per paura di cedere all’avversario l’arma
propagandistica della guerra senza quartiere a Cosa Nostra. E chiunque
osi parlare di umanizzazione del carcere duro o di rispetto dei diritti umani
anche dei mafiosi detenuti nella migliore delle ipotesi passa per essere un garantista
ingenuo. Il libro di D’Elia e Turco ha quindi il
merito di riaprire il dibattito su questa forma di detenzione. Da un lato,
autorevoli parlamentari (tra questi i diessini Giuseppe Lumia e Massimo
Brutti) contestano che esso sia uno strumento di tortura e ne
sottolineano invece i meriti nella lotta alla strategia mafiosa. Dall’altro, l’Unione
Camere Penali di Roma, Francesco Cossiga, Emanuele Macaluso e i giudici Corrado
Carnevale e Antonio Martone, che con accenti diversi denunciano gli
orrori del 41bis e ne contestano l’effettiva utilità.
Come il gioco dell’oca
In effetti, a colpire non sono soprattutto le durissime condizioni di vita dei
detenuti (celle minuscole e semibuie; passeggio all’aria in gabbie di cemento
chiuse in alti da fitti reticolati; un solo colloquio al mese con familiari e
conviventi, separati da un inutile e crudele vetro divisorio; visite mediche
specialistiche attese per anni), in piccola parte migliorate a seguito delle reiterate
condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo. E non sorprendono
neppure - purtroppo - le mille contraddizioni interne all’universo carcerario
in materia di vitto e di indumenti consentiti. Quello che sgomenta è piuttosto
il perverso meccanismo burocratico in cui si dibattono i detenuti del 41 bis,
per i quali sembra vigere la presunzione di colpevolezza.
Le decisioni del Ministro si basano su note informative predisposte da
procuratori e poliziotti che, di rinnovo in rinnovo, ripetono semestralmente la
stessa ragione di pericolosità sociale senza che le loro informazioni siano seriamente
verificate. Denunciano unanimi i detenuti: “E’ un sistema
autoreferenziale: sei un presunto mafioso e vai in 41 bis. Il processo lo fai
in videoconferenza, con il tuo avvocato in aula raggiungibile solo via telefono
e nell’impossibilità di controbattere ai pentiti. Non potendoti difendere,
vieni condannato. A quel punto sei mafioso a tutti gli effetti e quindi rimani
in 41 bis. Insomma, è una sorta di gioco dell’oca nel quale si riparte sempre
dal punto di partenza. E dal quale si può uscire solo con il pentimento.
Nessuna misura alternativa e nessun beneficio carcerario sono infatti possibili
se prima non si decide di collaborare con la giustizia.”
E’ tollerabile che lo Stato combatta la mafia con il ricatto e la violenza?