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2007 05 03 * La Repubblica * La sorella di Giorgiana Masi Trent'anni senza giustizia * Concetto Vecchio

ROMA - Uscendo di casa aveva rassicurato la madre: «Non succederà nulla. È una giornata di festa. Canteremo e festeggeremo. Se accadono incidenti mi metto al sicuro». Alle sette della sera Giorgiana Masi, 19 anni, giaceva bocconi all' imbocco di ponte Garibaldi, la testa verso Trastevere, i piedi verso il ponte, accoppata da un colpo alla schiena. Giovedì 12 maggio 1977, trent' anni fa. Vittoria Masi, la sorella di Giorgiana, è una signora di 51 anni, che per sfuggire al dolore è riparata in Toscana dove gestisce un agriturismo. «Non ho nemmeno seguito le rievocazioni sul '77, sono fuori da tutto, per non dover ricordare ho preferito andarmene da Roma. E in tutti questi anni ho preferito tacere». Vittoria è rimasta sola. I suoi genitori sono morti alcuni anni dopo la tragedia: il padre faceva il parrucchiere, la madre la casalinga. Avevano cresciuto le figlie in via Trionfale, un edificio popolare un po' scrostato, case occupate e grigi casermoni, l' ospedale San Filippo Neri sullo sfondo. Al Liceo Pasteur di via Barella Giorgiana frequentava la quinta A, la domenica distribuiva il quotidiano Lotta Continua. A scuola animava un collettivo femminista. Una ragazza minuta, fidanzata con un Gianfranco Papini, di due anni più vecchio, studente in psicologia, che quando seppe dell' assassinio tentò il suicidio e fu salvato dai famigliari per i capelli. «Non so che fine abbia fatto», ammette Vittoria. I radicali avevano organizzato un happening in piazza Navona per festeggiare il terzo anniversario della vittoria al referendum sul divorzio, nonostante il divieto di manifestazione decretato dal ministro degli interni Francesco Cossiga. La polizia impedì l' ingresso in piazza Navona, l' urto tra manifestanti e forze dell' ordine deflagrò per il centro della Capitale. Un lungo pomeriggio di barricate, con un parlamentare, Mimmo Pinto (Dp), pestato dai celerini. Soprattutto comparvero per la prima volta poliziotti in borghese, travestiti da autonomi, armati di pistole e spranghe. L' avvocato milanese Luca Boneschi per anni si batté per la verità, ricavandone solo una denuncia per diffamazione dal giudice istruttore Claudio D' Angelo, che nel maggio 1981 archiviò il caso. Oggi è un malinconico signore di 68 anni. «Terrò le carte finché sbiadiranno». Anni fa tentò inutilmente di far ripartire il processo, consegnando un' istanza di riapertura dell' istruttoria, nella quale si puntava sulle molteplici testimonianze di chi aveva visto le forze dell' ordine sparare ad altezza d' uomo su ponte Garibaldi e da dietro la barricata costituita da un paio di automobili messe di traverso. «Un insegnamento di carattere generale si può forse trarre da questa vicenda: ed è dedicato soprattutto ai giovani avvocati. Gli errori, forse anche le manipolazioni, avvengono con le perizie». Com' è accaduto troppo spesso con i delitti politici in Italia non s' è mai trovato il colpevole. Fu "il fuoco amico", come sostiene Cossiga, addossando la responsabilità a frange di autonomi, o furono le forze dell' ordine, che fecero fuoco con una pistola non d' ordinanza, come inutilmente cercò di dimostrare la parte civile? Quel giorno in piazza c' erano quasi sessanta agenti senza divisa, molti di loro mai interrogati dalla magistratura, e quelli interrogati dissero all' unisono che erano andati a ponte Garibaldi a incidenti terminati. Il prossimo 12 maggio i radicali torneranno in piazza per rispondere al Family Day dei vescovi, e ricordare così Giorgiana Masi: chiedono, tramite Maurizio Turco (Rnp), l' istituzione di una commissione parlamentare d' inchiesta, richiesta avanzata anche dal verde Paolo Cento, «affinché vengano accertate almeno le responsabilità politiche». La storia di Giorgiana Masi spiega bene anche a quali conseguenze nefaste condusse certa lotta politica negli anni Settanta. Sulla lapide che la ricorda, a ponte Garibaldi, «le compagne femministe» la descrivono come una vittima «della violenza del regime». L' unico imputato della vicenda Masi è rimasto proprio l' avvocato Boneschi. Fu denunciato da D' Angelo perché, in sostanza, aveva accusato il giudice di non avere fatto abbastanza per pervenire alla verità. Nel maggio 1982 si dimise da parlamentare - era stato eletto tra i radicali di Pannella - per non godere dell' immunità («nessuno mi disse grazie») e accelerare l' iter della giustizia. La causa, invece, pende ancora, venticinque anni dopo, ammuffita in qualche scatolone della giustizia civile.