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2009 02 27 * Left * La Casta * Federico Tulli

Il nuovo attacco alla laicità dello Stato avviene nell’indifferenza delle istituzioni. Con i negazionisti lefebvriani la Chiesa di Roma sconfessa il principio di libertà religiosa che ispira il Concordato dell’84

«L’unità dei cattolici è il principale obiettivo del pontificato di Benedetto XVI, la cui considerazione del Concilio Vaticano II è molto diversa da quella di Giovanni Paolo II. I lefebvriani non sono cambiati, è il Vaticano che ha modificato la propria posizione». Queste poche righe si leggono nella storia di copertina del settimanale polacco Tycodnik Powszechny dedicata alla decisione di papa Ratzinger di riaprire le porte della Chiesa, a fine gennaio scorso, ai quattro vescovi lefebvriani (Bernard Fellay, Alfonso de Gallareta, Tissier de Mallerais e Richard Williamson) scomunicati dal suo predecessore nel 1988. In queste settimane la ricomposizione dello scisma, che prese il via nel ’65 dopo il Vaticano II, ha fatto discutere soprattutto per via delle dichiarazioni negazioniste di Williamson, antisemita conclamato, rilasciate non solo fino a pochi giorni prima di essere richiamato sotto l’ala della Chiesa di Roma. Anzi. Williamson, semmai qualcuno avesse avuto dubbi, continua a non mostrare alcun segno di ripensamento, avendo detto di essere in attesa che qualcuno gli dimostri empiricamente che le camere a gas naziste siano servite per sterminare sei milioni di ebrei. Deliri razzisti che insieme all’articolo del Tycodnik Powszechny offrono lo spunto per rivalutare l’effettiva validità del Concordato siglato il 18 febbraio 1984 tra Stato italiano e Città del Vaticano. Un accordo che (almeno secondo quanto si legge nella premessa e nell’articolo 1) rinnova i Patti Lateranensi, voluti da Mussolini nel 1929, proprio per affermare uno dei principi fondanti l’identità della nostra nazione: quello della libertà religiosa, e quindi della laicità dello Stato, sancita dall’articolo 8 della Costituzione del 1948. E un rinnovo con cui si è inteso anche riconoscere «gli sviluppi promossi nella Chiesa dal Concilio Vaticano II» del 1962-1965 in tema di riconoscimento delle altre fedi.

La domanda dunque è: se, come fa notare il Tycodnik Powszechny, «il Vaticano ha modificato la sua posizione» nei confronti del Concilio che ha ispirato la firma del trattato dell’84, e se questa posizione, aggravata dall’apertura a una corrente negazionista del calibro dei lefebvriani, mal si combina con la laicità che la Corte costituzionale nel 1989 ha definito «uno dei principi supremi dello Stato», che valore ha oggi il Concordato? Una risposta potrebbe giungere dalle osservazioni di un cosiddetto insospettabile: don Vincenzo Marras. Direttore oggi dell’emittente televisiva Telenova, fino a gennaio 2008 Marras ha firmato il mensile cattolico Jesus della società editrice San Paolo, la stessa, tra l’altro, di Famiglia cristiana. Ed è proprio su Jesus che in tre editoriali scritti tra il 2000 e il 2007 parlò di «paura del Concilio» paventando il rischio che tra le gerarchie vaticane ci fosse chi si stava costituendo un alibi per la “ricomposizione” dello scisma con i lefebvriani. «Oggi il mio pensiero non è cambiato rispetto a quanto scritto in quegli editoriali», dice Marras a left. Dunque, andiamo a leggerne alcuni passaggi significativi, anche perché come osserva il deputato radicale del Partito democratico Maurizio Turco (in questo caso anche lui insospettabile), non hanno mai goduto del necessario risalto nemmeno quando Marras era direttore della testata. Eppure potrebbero dimostrare come ci sia un disegno preciso, quasi una premeditazione verrebbe da dire, del Vaticano a rompere il patto di laicità che anima il Concordato con l’Italia.

Scriveva il direttore di Jesus sul numero di agosto 2007 nel commentare la reintroduzione della messa in latino voluta da Benedetto XVI: «Smascherare i tradizionalisti, che si nascondono dietro la bandiera della Messa post tridentina, per rigettare le grandi intuizioni teologiche e pastorali della Chiesa voluta dal Vaticano II. È questa la principale conseguenza del Motu proprio Summorum pontificum, con cui Benedetto XVI dà alla Messa preconciliare la legittimità che aveva perso con la riforma liturgica di Paolo VI, e fa ogni sforzo per giungere a una riconciliazione interna alla Chiesa, ferita dallo scisma del movimento guidato dall’arcivescovo Lefebvre. Alibi smascherato, si direbbe – prosegue il direttore di Jesus, che qui quasi anticipava quanto scrive oggi il settimanale polacco -. Infatti, la reazione di queste minoranze chiassose è inequivocabile: hanno già fatto sapere che continueranno a rifiutare gli insegnamenti del Concilio sull’ecumenismo e la libertà religiosa, sull’ecclesiologia di comunione e l’apertura della Chiesa al mondo contemporaneo. Non se ne sono accorti solo quanti riducono l’intervento del Papa a una sorta di panacea del latino o lo salutano come una rivincita sui guasti provocati dall’abbandono del Messale di Pio V. Alcuni – conclude l’editoriale di Marras – hanno espresso il timore che (al di là di ogni intenzione) il Motu proprio ponga un freno all’applicazione del Concilio. È un rischio reale, che vorremmo esorcizzare. Per parte nostra vogliamo piuttosto rilanciare l’invito (forse troppo sottovalutato) del Papa a raccogliere la sfida di una liturgia viva per una Chiesa viva. Non ferma al calendario del 1962».

È questo l’ultimo dei tre editoriali del direttore di Jesus sull’argomento Concilio-Lefebvriani. Quattro mesi dopo viene sostituito alla guida del mensile. Ai fini della ricostruzione storica dello scisma vale ora la pena fare un salto indietro di otto anni ed evidenziare alcune frasi del primo dei tre articoli, quello scritto nel novembre del 2000 dal titolo “Paura del concilio”: «Ricordate monsignor Marcel Lefebvre? – scrive Marras -. Era quel pio vescovo, fondatore della Fraternità San Pio X, che non riuscì mai a mandare giù il Vaticano II. E che, dopo una serie di virulenti attacchi ai Papi che avevano ispirato e appoggiato il rinnovamento conciliare, nel 1988 consacrò, senza il consenso di Roma, quattro vescovi. Da qui lo scisma. Il paesino svizzero di Ecône, sede della Fraternità San Pio X, divenne così il laboratorio dell’integrismo cattolico, ispirando più o meno direttamente ogni contestazione al rinnovamento liturgico e teologico, allo spirito di dialogo in campo ecumenico e interreligioso. Lefebvre diceva che l’Anticristo aveva preso possesso dei Sacri palazzi: “Mercenari, lupi, ladri, comunisti e massoni si sono introdotti nel governo della Chiesa…”. Se i toni non sono più quelli violenti e aggressivi di allora, le censure e le critiche di oggi alla Chiesa di Roma e al Papa sono le stesse. Di nuovo pare esserci (“e questo ci inquieta davvero”, osservava il direttore di Jesus) un riavvicinamento tra la comunità scismatica dei lefebvriani e alcuni settori della Chiesa cattolica». Già, inquietante, anche perché, ricordiamo, era il novembre del 2000, ma sembra storia di oggi.
Accenniamo ora solo brevemente al secondo editoriale di Marras, “Una Chiesa in cerca di incontri”, scritto nel 2005 in occasione di “40 anni del Vaticano II”, laddove dice: «Il Concilio chiede sempre di essere rilanciato». Una semplice frase che ci riporta al quesito iniziale: nel momento in cui il Vaticano II non viene più «rilanciato» e anzi viene contraddetto ha ancora senso mantenere in vita il Concordato? E ancora, poiché la ricomposizione dello scisma con gli antisemiti di Lefebvre operata da Benedetto XVI non suona proprio come una mano tesa a uno Stato laico nato in seguito alla vittoria contro il nazifascismo, non è forse il caso di metter mano all’articolo 7 della Costituzione che regola i rapporti tra Italia e Vaticano sulla base di quel trattato? Lapidaria la risposta di Gennaro Acquaviva consigliere politico di Bettino Craxi, il presidente del Consiglio che siglò il Concordato dell’84, considerato da molti ispiratore di quel patto: «Ci sono molte incongruenze soprattutto a proposito del rapporto del Vaticano con Israele. Però non ce ne sono dal punto di vista dei rapporti formali con l’Italia. La decisione di Benedetto XVI non riguarda il Concordato se non in carattere generale. Il trattato è uno strumento di pacificazione e collaborazione. E in via teorica può essere rivisto se c’è un fatto anche estraneo che lo rimette in discussione, ma l’idea di farlo per colpa della ricomposizione dello scisma è piuttosto stiracchiata. Questa – conclude Acquaviva – è la mia opinione, ma è anche l’opinione generale. Poi questo è un mondo di matti e ci sarà sicuramente qualcuno che la pensa in maniera diversa».

Dal canto suo Maurizio Turco ribadisce: «Io segnalo semplicemente che le acquisizioni del Concilio sono state alla base della religione concordataria dell’84. Nel momento in cui la Chiesa fa rientrare il lefebvriani senza chiedere nulla in cambio, tanto meno il superamento delle ragione per cui se ne andarono via, dovrebbe essere automatica la denuncia da parte dell’Italia per inadempienza del trattato internazionale». Il deputato radicale spiega poi che questa potrebbe essere l’occasione per superare l’incongruenza costituzionale rappresentata dalla coesistenza degli articoli 7 e 8. Il primo regola i rapporti tra Stato e Chiesa, e il secondo fissa il principio di libertà religiosa. Ma se in 60 anni di Costituzione nessuno, tranne i radicali con un loro disegno di legge, si è mai assunto l’onere di rivedere l’articolo 7 in chiave di libertà religiosa, appare utopistico che proprio in questo momento storico il governo italiano compia tale passo. «La nostra proposta di revisione giace ignorata in Parlamento – conclude Turco -. Forse perché sostiene che il punto di partenza della democrazia è la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, testo che mal si combina con l’apertura del Vaticano a dei negazionisti».