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2009 08 01 * Diario * Ombre lunghe * Enrico Deaglio

Per la prima volta dal '94 Silvio Berlusconi rischia di perdere il Sud: "Non è più il collante", dicono in Sicilia. Poi ci sono i papelli, le matrici degli assegni, le bombe del '92, la trattativa Stato-mafia e quattro parole di Totò Riina dopo 17 anni di silenzio. Oltreché, naturalmente, i gemiti e i sospiri sul letto di Putin...

Era entrato in carcere il 15 gennaio del 1993. Salvatore Riina, la "belva di Corleone", era stato preso a Palermo con quella che venne dichiarata la più perfetta operazione dei carabinieri italiani nella loro centenaria storia. E, come nelle migliori tradizioni mafiose, non aveva mai parlato.
Certo, era comparso in numerose aule di giustizia, ma non aveva mai ammesso nulla. Si dichiarava un perseguitato dalla giustizia, un nuovo Enzo Tortora, un parafulmine di tutti i guai italiani; al massimo, puntualizzava alcune incongruenze di atti giudiziari - date non esatte, la sua altezza riportata male, contraddizioni dei pentiti che lo accusavano - ma nulla che potesse spiegare la storia d'Italia di cui era stato protagonista.
Un giorno, ed eravamo agli inizi, una giornalista Rai, Rita Matte,, si avvicinò alla gabbia, durante una seduta di un processo, e gli domandò seccamente del bacio a Giulio Andreotti. Solo per un attimo Riina sembrò imbarazzato, ma si riprese subito: «Oggi è una bella giornata, signorina».
Fuori la sua famiglia veniva colpita, i figli arrestati. Il suo cuore non funzionava bene e gli misero tre bypass coronarici, accerchiato da vere e proprie misure militari. Invecchiava in cella e sospettava di essere stato tradito dal suo amico d'infanzia, Bernardo Provenzano. La cella poi, secondo le norme del 41 bis, era una scatoletta sorvegliata ben più della casa del Grande Fratello: le telecamere lo seguivano ovunque, il cibo e la posta erano controllati, i mi- crofoni spiavano non solo le sue parole, ma anche i suoi sospiri.
Alcuni anni fa, il deputato del Partito radicale Maurizio Turco riuscì a incontrarlo una prima volta: il "Capo dei capi" gli toccò a lungo le mani, spiegandogli che quel contatto con un corpo vivo era l'unica cosa che gli ricordasse la vita. E poi gli affidò un messaggio: "Onorevole, lei che sta a Roma, ce lo dica che tutte queste cose, i controlli, le telecamere, le microspie sono inutili. Dica a Roma che non parlo". Intendeva dare una rassicurazione a Roma. È noto che la carcerazione dura per i mafiosi (il regime previsto dal 41 bis) venne istituita non solo per impedire loro le comunicazioni con l'esterno, ma anche per fiaccarne il morale e spingerli a parlare: Riina, che non è certo uno stupido, sapeva che per lui valeva il contrario. Non c'era veramente nessuno, nello Stato e tanto meno in Cosa Nostra, che voleva sentire la sua versione dei fatti.
Riina aveva un socio, quando insieme dominavano la Sicilia, Tana Badalamenti, arrestato e incarcerato negli Stati Uniti. Si parlò di lui come di un possibile testimone decisivo per i maxiprocessi di Palermo, si trattò per la sua estradizione; il suo avvocato americano osservò sornione la lunga trattativa e concluse: «Tre cose sono sicure nella vita: la morte, le tasse e il silenzio di Badalamenti». Aveva ragione. Badalamenti, che insieme a Tommaso Buscetta aveva organizzato un traffico di eroina negli Usa del valore di 1,5 miliardi di dollari (di allora, quando il dollaro valeva molto), morì in silenzio a 80 anni, un tumore e un infarto, nel carcere di Devens, Ayer, Massachusetts. Non venne a Palermo né per smentire Buscetta né per confermarlo. Semplicemente, morì con i suoi segreti.
E invece, dopo 17 anni di carcere duro, a 80 anni Salvatore Rima ha parlato. Tramite il suo avvocato, ha fatto sapere: "Borsellino lo ammazzarono loro". Quattro parole con il peso della verità finale, pronunciate da chi si considera ancora il Capo dei capi. Quattro parole che significano anche: Falcone lo abbiamo fatto noi; Borsellino loro, dove "loro" sta per "lo Stato", o i carabinieri o i servizi, o la politica, o i pezzi da novanta dell'industria. E così siamo tornati alla calda estate del 1992. Così lontana e così vicina. 

Paolo Borsellino morì con la sua scorta, nel tardo pomeriggio del 19 luglio, quando si avvicinò al citofono della casa di sua madre, nella periferica via Mariano D'Amelio a Palermo. Pur essendo l'obiettivo numero uno di Cosa Nostra, non c'era nessuna misura preventiva davanti a quel palazzo, frequentato dal magistrato a scadenze regolari, e così una Fiat 126 imbottita di esplosivo aveva potuto essere parcheggiata a pochi metri dall'ingresso dell'edificio.
A meno di due mesi dall'uccisione di Falcone - un muro di fuoco aveva sventrato l'autostrada Punta Raisi-Palermo, dividendo in due l'Italia - ora una colonna di fumo si alzava dalla città.
In quell'estate, crollò la Prima Repubblica, poi crollò la lira. Nell'inverno successivo Riina venne catturato. Nella primavera-esta- te successiva, un'ondata di attentati risalì l'Italia: Firenze, Roma, Milano. Nell'autunno la sinistra vinse tutte le elezioni amministrative. Nel marzo del 1994, inaspettatamente, le elezioni le vinse Forza Italia di Marcello Dell'Utri che portò Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi.
Se molto si seppe dell'attentato di Capaci (in pochi mesi diversi autori confessarono e uno addirittura si suicidò in carcere), molto poco si seppe della strage di via D'Amelio. Il magistrato aveva un'agenda, rossa, scomparsa. Uno strano individuo, Vincenzo Scarantino, che portava a spalle la croce nelle feste religiose del quartiere della Guadagna, si autoaccusò di aver preparato la Fiat 126. Ma nessuno seppe spiegare da dove fosse stato azionato il telecomando. Certo da un posto molto in alto, perché dal basso l'attentatore correva il rischio di essere investito dall'onda d'urto. E in alto, a perpendicolo, sulla cresta del Monte Pellegrino, c'era un castello, che un certo cavaliere Utveggio all'inizio degli anni '30 aveva costruito per fame un albergo di lusso. Poi era arrivata la guerra e non se ne era fatto niente. Poi si disse che il Castello era diventato una dépendance del Sisde, che h aveva sistemato parecchia attrezzatura di spionaggio. E, infine, che c'erano degli strani tabulati telefonici che legavano il Castello, abbastanza kafkiano, alla Strage.
Tutto poteva essere suggestivo, o melmoso, frutto di coincidenze, ma non riusciva a scalfire la versione ufficiale: Borsellino era stato ucciso da Cosa Nostra, perché, come Falcone, era suo nemico. S ono passate 16 estati. Alla 17esima si scopre che Scarantino si era, sì, autoaccusato, ma non dice la verità: parola di un mafioso di rango, tale Gaspare Spatuzza (la Fiat 126, sostiene Spatuzza ú tignuvu, l'ho rubata io). Si scopre inoltre che, mentre si preparava il tritolo per Borsellino, Vito Ciancimino e suo figlio Massimo si incontravano con i Ros dei carabinieri per togliersi l'incomodo Riina e stabilire nuovi patti. E, a quasi 80 anni suonati e violando il teorema dell'avvocato di Badalamenti, Salvatore Riina parla: "Lo ammazzarono loro".
Almeno tre "entità" (così si chiamano nel nuovo lessico politico italiano) seguivano con molto interesse le indagini di Paolo Borsellino e contavano i giorni per la sua nomina a procuratore nazionale antimafia. Una era naturalmente Cosa Nostra; la seconda era la triade Mangano-Berlusconi-Dell'Utri, che il magistrato aveva individuato come il canale degli investimenti della mafia a Milano; il terzo era la Ferruzzi di Raul Gardini, capofila dei più grande sodalizio tra imprese del Nord e mafia, per spartirsi i più grandi appalti pubblici che l'Italia abbia mai distribuito. E Borsellino era al corrente di tutto.
Delle tre entità, 17 estati dopo, la prima è in carcere a Opera, e legge La Gazzetta dello Sport ogni mattina; la seconda è a Palazzo Chigi; la terza è morta suicida a Milano in un caldo mattino del 1993, mentre suonavano i rintocchi funebri per Gabriele Cagliari, il presidente dell'Eni che si era messo al viso un sacchetto di plastica, nelle docce del carcere di San Vittore (Eni, gruppo Ferruzzi-Gardini e Cosa Nostra, messi insieme facevano qualcosa come il 40 per cento del Pil italiano). 

Sarà un'estate bollente, dicono gli esperti di cambiamento climatico. Afa e tornado. L'importante è avere qualcosa da mettersi per ogni evenienza.
Silvio Berlusconi, per la prima volta dal 1994, rischia di perdere il Sud. Per quindici anni ha gestito la baracca Italia, dimostrandosi molto bravo a tenere assieme il Sud e il Nord del paese, la Mafia e la Lega. Ma adesso, a 73 anni, "femminaro", tradito da una donna come un pivello, lasciato dalla moglie, massacrato dalle bobine, inaffidabile, in mano a Bossi, con manie senili da leader maximo, quel Sud che l'ha portato al potere si domanda se ci si possa ancora fidare di lui. Dagli analisti politici che tastano il polso alla Sicilia e che frequentano riunioni e comitati del Popolo della Libertà, viene unanime una sentenza: "Non è più il collante". Anche il suo amico Marcello Dell'Utri si lamenta: erano soci, e come mai lui deve affrontare un processo per mafia, mentre Silvio si è fatto fare una legge (il lodo Alfano) per cui non può essere processato? Adesso, poi, spunta pure Riina. E il giovane Ciancimino con tutti i documenti conservati dal padre in cassaforte, compreso un assegno con la firma del presidente del Consiglio.
Alla fine, nella ricerca di un Obama italiano, si scoprirà che il nostro Obama è stato Silvio, ma che ora non lo è più. E non c'è nessuno pronto a sostituirlo.
Per cui l'estate sarà lunga, con carte, casseforti, papelli, matrici di assegni, oltreché, naturalmente, gemiti e sospiri sul letto di Putin. Mancano solo gli omicidi e le bombe, in questo scenario. Speriamo bene. Speriamo di essere diventati adulti e di aver imparato ad andare per avvocati, invece che agire di impulso.


ANCHE IL SUO AMICO MARCELLO DELL'UTRI SI LAMENTA: ERANO SOCI, E COME MAI LUI DEVE AFFRONTARE UN PROCESSO PER MAFIA, MENTRE SILVIO SI È FATTO FARE UNA LEGGE PER CUI NON PUÒ ESSERE PROCESSATO?