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2016 08 12 * il Foglio * Che fine fanno i Radicali * Adriano Sofri

Non è escluso che finiscano, ma il loro atteggiamento fiducioso e non fanatico può fungere da antidoto politico per il caos mal governato dagli stati nazionali. 

Il Capitan della compagnia
egli è ferito e sta per morir
e manda a dire ai suoi alpini
che lo rivengano a ritrovar.

Dell’eredità di Marco Pannella, suggerisce Bordin, inutile parlare. Eredità materiale non ce n’è, e su quella morale conviene non litigare: tutti eredi o tutti diseredati. La questione diventa: che fine faranno i Radicali? Presa alla lettera, implica l’eventualità che facciano una fine o l’altra, e che comunque finiscano. Non è affatto escluso, naturalmente. La formazione radicale non è edificata sulla roccia, e caso mai la roccia era Marco: la sua persona, non una sua dottrina, o una sua ideologia. Dalle persone si può imparare moltissimo, a condizione di non farsene imitatori. 

I suoi alpini gli mandan dire
che non han scarpe per camminar
“O con le scarpe o senza scarpe
i miei alpini li voglio qua”.
 

I Radicali si riconoscono da una ricca vicenda di campagne e dal nesso che le unisce. Da un atteggiamento umano e civile – la fiducia che gli altri non siano nemici su cui prevalere, tanto meno da sopraffare, ma interlocutori da capire e persuadere attraverso il dialogo. Dalla disposizione esemplare a pagare un costo senza fanatismo per ciò che si ritiene giusto. Dal consiglio a “vivere e essere felici”. E soprattutto da uno statuto. Non è un caso, per gente che crede nel diritto, nei diritti. Lo Statuto è per i Radicali quello che per altri è il manifesto o il programma. Ho davanti il riassunto che ne faceva una antica lettera di invito all’iscrizione, pressoché dettato da Marco. “L’iscrizione non comporta alcuna forma di disciplina…, si compra la tessera, come si compra un biglietto di treno o di autobus, per usufruire di un servizio pubblico e nessuno può toglierla. E’ un partito annuale, che rinasce anno per anno. Non chiede di sacrificare la propria libertà a un’identità collettiva, ma al contrario di esaltare libertà e responsabilità di ogni iscritto. Il Partito radicale è uno strumento, non una casa, una famiglia, una appartenenza. La sottomissione della responsabilità personale a quella collettiva; la compattezza disciplinare della parte contro le altre parti; il presupposto di un consenso ideologico o programmatico generale: tutto ciò non ha a che fare col Partito radicale. Il quale non è più tollerante degli altri, è persuaso che differenze e divergenze debbano esserci e farsi valere e durare. Il partito fatto per prendere parte contro un nemico dev’essere compatto all’interno e strenuamente aggressivo fuori. Un partito nonviolento è il luogo dell’incontro di gente di buona volontà. Vi si pratica quella amicizia intransigente che si intende sperimentare anche fuori. Vi si sta per un bisogno di efficacia e un’affinità umana”. Forse, l’impegno a tenere o rimettere insieme i pezzi della galassia radicale potrebbe partire da lì: “Tornare allo Statuto”…

“Cosa comanda sior Capitano
i suoi alpini eccoli qua!”.
“Quando son morto, il mio cadavere
in cinque pezzi l’avete a taglià”.

I pezzi, infatti. I Radicali si sono via via distribuiti in associazioni che prendono su sé un impegno più specifico. Non è uno sviluppo recente: la Lega per il divorzio, per l’aborto, degli obiettori di coscienza eccetera, risalgono a mezzo secolo fa. (Questo stravagante Partito radicale è diventato il più antico dei partiti italiani, man mano che gli altri, quelli solidi, si liquefacevano). La moltiplicazione delle associazioni può far paventare un’esplosione della galassia, un piccolo feudalesimo questo sì ereditario, liti comprese. Le associazioni possono vantare un operato fervido e anche risultati importanti. Così la moratoria sulla pena di morte per la quale Nessuno tocchi Caino giocò un ruolo essenziale, e lo gioca oggi che la pena capitale riafferra paesi che le erano sfuggiti. Così l’impegno di Non c’è pace senza giustizia per la Corte penale internazionale. Così le iniziative legali e giudiziarie dell’associazione Luca Coscioni, nella quale tuttavia le divergenze si sono fatte più laceranti. Così la campagna, in cui Emma Bonino si è prodigata, contro le mutilazioni genitali femminili. Così l’impegno, esemplare in Rita Bernardini, su carceri e su amnistia, i cui nemici non vogliono vedere il legame con l’inestinguibile e iniquo arretrato della giustizia. Così per l’informazione antiproibizionista e la cannabis terapeutica. E mi scuso di non citare altri esempi. Più volte, mi spiega Gianfranco Spadaccia, le associazioni hanno messo le proprie risorse a servizio del partito. Resta il rischio che, una volta allentato il vincolo comune, le sottofamiglie radicali si contentino di andarsene per una loro strada. Delle divisioni interne, so che i risentimenti e le insofferenze personali possono prevalere sulle motivazioni oggettive, e trasformarle in pretesti. Mi atterrei a un’arguta e un po’ rassegnata osservazione di Lorenzo Strik Lievers: “Noi siamo quelli della doppia tessera, e adesso non riusciamo a sopportarci fra radicali?”.

Il primo pezzo alla mia Patria
che si ricordi del suo alpin.
Il secondo pezzo al battaglione
che si ricordi del suo capitan.

Quali sono allora i luoghi da cui le disiecta membra radicali provengono, e in cui si ricompongono? Sono due, direi, e nel loro destino risiede quello di tutti. (“Destino” era parola prediletta da Pannella, da quando ne aveva scoperta l’accezione di destinazione d’arrivo. Come quando prendete un aereo di compagnie iberiche: “Le deseamos un vuelo agradable hasta cualquiera que sea su destino final”). Sono il Partito Radicale Transnazionale e la Radio Radicale. Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, per dirlo tutto, è il partito di cui gli altri sono “soggetti costituenti”: anche quei Radicali italiani che il pubblico scambia per il Partito radicale. Il guaio è che il Partito radicale, che per statuto dovrebbe tenere il congresso ordinario ogni due anni, tenne il suo ultimo nel 2011. Elesse segretario un giovane avvocato del Mali, Demba Traoré, che dev’essersene sentito onorato, ma anche onorario, e non ha mai provato a entrare davvero in funzione. Sono passati anni, è morto il molto amato “presidente d’onore” Sergio Stanzani, e ora il presidente del Senato del partito, Pannella. Qualunque “destino” dei Radicali sembra vincolato alla preparazione e allo svolgimento di un nuovo congresso, in tutti i sensi “straordinario”, del Partito radicale transnazionale. Cui non so immaginare obiezioni se non quella del denaro necessario a far partecipare gli iscritti internazionali, spesso non in grado di sobbarcarsi ai costi pur sobri.

Penso che quanti, sulla scia della commozione e anche della riflessione suscitate dal lungo addio di Marco Pannella, vogliano iscriversi, riconoscendosi nel passato accertato e nel futuro auspicato dell’impegno radicale, scelgano di allargare i ranghi e le risorse del Partito transnazionale. Soprattutto penso che il desiderio di riaffrontare con un’ambizione “sproporzionata” lo stato del mondo sia la chiave di una rinnovata iniziativa radicale. Una simile convinzione sta del resto alla radice della campagna sul “diritto alla conoscenza” come fonte della transizione allo stato di diritto in tutto il mondo, compreso il nostro, della democrazia in affanno. Io dubito che si tratti di una tautologia più che di un’efficace mobilitazione, ma la mia impressione importa poco. Importa che si riconosca nell’orizzonte internazionalista, dunque ben oltre quello europeista a sua volta fatto a pezzi dai pescecani dello statalismo nazionalista europeo, il fondamento di ogni resistenza e progresso civile. C’è un contenuto essenziale delle battaglie di Pannella (e di altri, Radicali o no, o Radicali a tempo, come furono anche Adelaide Aglietta e Alexander Langer) ed è la denuncia dei disastri degli stati nazionali e della pigra futilità delle rivendicazioni di indipendenza statale.

Per questa convinzione Pannella rinunciò alla prospettiva dei due stati d’Israele e Palestina, e cercò l’alternativa nell’ingresso e nell’associazione con l’Unione europea. Dove la rete è così stretta da soffocare chi vi incappa, allargare le maglie è la sola via d’uscita. Quella convinzione (altra parola beniamina del lessico pannelliano: con-vincere, vincere assieme) aveva del resto ispirato nel 1941, a guerra mondiale infuriante, il Manifesto di Ventotene di Spinelli e Rossi, testo fondante del Partito radicale. Gli stati nazionali avevano portato alla guerra “mondiale” che aveva divorato l’Europa per metà del Novecento: l’antidoto stava in un’Europa federata, capace di ripudiare il feticcio della sovranità statale a vantaggio di una libertà e una democrazia comune – e di una giustizia sociale invocata, a Ventotene e negli scritti di Rossi, con una forza che oggi sbalordisce chi li rilegga o li legga per la prima volta. Lo stesso afflato alla giustizia sociale stava nel Partito radicale degli anni delle grandi vittorie civili, del divorzio e dell’aborto.

Il terzo pezzo alla mia mamma
che si ricordi del suo figlio alpin.
Il quarto pezzo alla mia bella
che si ricordi del suo primo amor.

Nella mozione dell’ultimo congresso transnazionale, svolto a Roma alla fine del 2011, si citava già la minaccia incombente sulle ribellioni della cosiddetta primavera araba. Del resto la rivolta siriana era scoppiata da mesi, e già le si era abbattuta sopra la repressione di Assad sfociata in autunno nella guerra civile. Nei cinque terribili anni trascorsi da allora, costati alla sola Siria centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, il Partito radicale non ha esercitato, temo, un ruolo paragonabile a quello tenuto durante la cosiddetta guerra civile nella ex Jugoslavia. La campagna sulla malaugurata guerra anglo-americana in Iraq e sulla proposta frustrata dell’esilio di Saddam l’hanno sostituito, svolgendosi da ultimo nell’impegno contro la ragion di stato e per il “diritto alla conoscenza”. E’ vero che nei paesi a maggioranza musulmana la transizione allo stato di diritto è l’unico programma laico che possa spezzare la morsa della superstizione fondamentalista e della dittatura poliziesca. Ma nel vicino oriente venivano al pettine i nodi di un’esportazione altezzosa e coloniale del nazionalismo statalista europeo, quello che aveva disegnato con il righello gli stati succeduti all’impero ottomano, infeudati alle potenze europee, Inghilterra e Francia soprattutto. Qualche realista a oltranza avvertirebbe che quegli stati d’invenzione Sykes-Picot sono sopravvissuti pressoché un secolo, ed è già troppa grazia. Ma anche per i nostri realisti a oltranza la festa è finita.

Oggi le frontiere di quegli stati “nazionali”, in realtà dinastici e settari, sono esplose, alcune cancellate invece che da una fraternità civile dall’invasamento jihadista. Proviamo a leggere la guerra mediorientale – e sempre più largamente africana – come una riedizione della oscena lunga guerra europea della prima metà del Novecento. E, senza ignorare né attutire le enormi differenze geografiche e culturali, figuriamoci per essa qualcosa di affine alla prospettiva immaginata dai confinati di Ventotene. Le potenze internazionali si sono barcamenate rispetto alla guerra mondiale per procura condotta in medio oriente simulando di voler rispettare i confini violati, o di ridisegnarli cambiando di spalla al righello, per così dire. L’Europa in particolare non ha neanche voluto immaginare di proporre ai popoli falcidiati e umiliati di quelle terre lo spirito sul quale dopo il 1945 aveva esorcizzato la propria vocazione alle guerre fratricide. Di poter mostrare loro l’esempio di uno spirito federale, nel momento in cui lei stessa vi abdicava.

Negli ultimi cinque anni l’Europa, ottusa alla lezione della ex Yugoslavia, la lezione dei caschi blu olandesi a Srebrenica, ha commesso un’omissione di soccorso colossale nei confronti dei siriani e degli iracheni: compresi quegli yazidi e quei cristiani di Ninive sui quali uno dopo l’altro i parlamenti degli Stati Uniti, del Canada, dei paesi europei, decretano all’unanimità che sono “tecnicamente”, non metaforicamente, vittime di genocidio, senza trarne alcuna conseguenza. Questo colossale tradimento dell’umanità è raddoppiato dalla colossale insipienza politica e, appunto, “realistica”. Tenendosi alla larga dall’incendio e rifiutandosi al soccorso (il soccorso, quella cosa che non ha il tempo di chiedersi “che cosa succederà dopo”) e assuefacendosi via via a una crescente dose omeopatica di annegati nel Mediterraneo, l’Europa degli stati ha chiuso gli occhi all’evidenza che i cacciati dalle guerre, dopo aver intasato i paesi limitrofi, sarebbero arrivati dentro di lei, attraversando deserti, languendo dentro celle di torture e stupri, gettandosi all’azzardo in mari mai conosciuti. Quando l’avvento dei fuggiaschi è diventato davvero simile a un’invasione disperata, l’avviso all’Europa diceva: “Sei tu che l’hai voluto”.

Penso che i Radicali nel loro insieme, il fantasma del Partito radicale transnazionale, non si siano misurati abbastanza con questo scenario, cui li abilitava il federalismo libertario, il laicismo, la nonviolenza contrapposta al pacifismo, l’idea di una comunità delle democrazie e di una giustizia – e una polizia – internazionali. E la loro consapevolezza della posta della battaglia politica: i diritti delle persone, a partire dall’incolumità fisica, la libertà sessuale, il disastro morale e materiale dei proibizionismi, l’inviolabilità delle notti, la fraternità fra gli umani e il pianeta. Naturalmente, in tanti l’hanno fatto. Emma Bonino l’ha fatto anche con la responsabilità di governo degli Esteri, e con un impegno strenuo sui migranti: se ne può discutere – io dubito che abbia sacrificato alla responsabile domanda su “che cosa verrà dopo” l’urgenza del soccorso, in Siria e in Iraq. Ma mi sembra mancato un vero impegno comune, come quello attuato nella campagna contro lo “sterminio per fame”, o a suo tempo per la Cecenia, prima che la Cecenia diventasse la principale fornitrice di combattenti jihadisti ad al Qaeda e al Califfato, o di mercenari di Putin in Ucraina. O, appunto, nella ex-Jugoslavia.

Ma l’ordine del giorno è ancora quello, ed è ancora il tempo di affrontarlo. Anche rispetto alle divisioni e ai risentimenti nel nerbo dei militanti radicali, allargare le maglie sembra la via migliore, se non si voglia rompere del tutto. Il Partito transnazionale e il suo congresso, dunque. Ritelefonando alle “decine di militanti dei diritti umani che negli anni si son iscritti al Partito Radicale: tibetani, ceceni, uyguri, montagnards, hmong, khmer krom, sind, baluci, assiri, haredin, fino a meno estravaganti kosovari o qualche Lord britannico”, per citare l’elenco stilato da Marco Perduca. Durante il lungo addio di Marco, Matteo Angioli mi ha raccontato che, senza avvertire, erano venuti a Roma Sam Rainsy e sua moglie Saumura Tioulong, cambogiani esiliati in Francia. Speravano di vedere un’ultima volta Marco, che ne è stato così felice “che  ha voluto mostrare loro la terrazza e ci è salito pure lui”.

L’ultimo pezzo alle montagne
che lo fioriscano di rose e fior!

Poi c’è Radio Radicale. Alieno dagli impegni collettivi (da tre persone in su, come nel codice penale) io sono un consumatore notturno della radio – consumato. Non sono certo solo: un contributo prezioso come quello di Roberto Saviano, contro il proibizionismo in particolare, fa certo tesoro dell’ascolto della radio. Ma anche fuori dalle personali abitudini, perderemmo tutti molto se la radio non fosse in grado di durare. Dunque qualche istituzione, per competenza mentale e materiale, dovrebbe assicurarla come un bene comune. In ambedue gli aspetti, l’informazione sulla vita parlamentare e sugli avvenimenti pubblici politici e culturali, e quella sulle attività radicali. Oltretutto spesso le due informazioni coincidono. Questo quanto al futuro prossimo. Poi ci sono gli archivi, custodi del futuro remoto.