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1991 * Il Papato nella Storia. 1870-1960: novant'anni di battaglie - a cura di Marco Invernizzi e Oscar Sanguinetti

IL PAPATO NELLA STORIA.
1870-1960: NOVANT'ANNI DI BATTAGLIE.

STORIA - TESTIMONIANZE – DOCUMENTI

ITALICA LIBRI, Milano 1991

a cura di Marco Invernizzi e Oscar Sanguinetti

con contributi di Luigi Casalini, Giovanni Poggiali, Gabriele Fontana, Emanuela Comerio Galvagni, Piera Villa Sanguinetti



Premessa

Chi leggerà quest'opera della collana «Dossier sul sacro» si accorgerà che il tema I papi del nostro secolo viene trattato sotto un'angolatura particolare e forse inconsueta, che mette in evidenza, nella figura dei pontefici, soprattutto la loro missione magisteriale. Avremmo potuto seguire altre strade, come quella anedottico-scandalistica, o quella «politica» in senso lato, per esempio. Ci è sembrato viceversa opportuno privilegiare la parola dei papi, attraverso la presentazione delle loro principali encicliche o di altri documenti, allo scopo di far emergere la radicale contrapposizione tra l'insegnamento della Chiesa e le ideologie, tra la civiltà sacrale e la modernità, che caratterizza la storia delle nazioni occidentali da oltre due secoli.

 Inoltre, il lettore troverà un 'interpretazione degli avvenimenti del XX secolo - e soprattutto della genesi dell'unità italiana - sostanzialmente alternativa a quella oggi corrente. Anch'essa, come per la scelta di privilegiare il magistero dei papi, nasce dal desiderio di offrire una voce ai vinti almeno a posteriori, di dare cioè maggiore spazio a quanto è inconsueto ed escluso dalla versione della storia data dalla cultura prevalente: dai libri scolastici a quelli di grande tiratura, ai mass media.


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La Chiesa cattolica, infatti, può essere considerata come un insieme organico all'interno del quale coesistono diverse funzioni, fra le quali quella magisteriale. Quest'ultima comporta fondamentalmente il compito di trasmettere la dottrina ricevuta, di discernere quanto è conforme ad essa e di giudicare di volta in volta come questa dottrina deve essere ed è tradotta nella vita.

 Depositari concreti di questa funzione di magistero sono i vescovi, successori degli apostoli, e primo fra essi il vescovo di Roma, successore di Pietro, che rappresenta il fondamento visibile della Chiesa di Gesù Cristo e il garante fino al termine dei secoli della sua stabilità, della sua unità e della sua fedeltà al fondatore.

 Ora, il papa, maestro nella fede per i credenti, che insegna e discerne, giudica e può condannare, la cui parola viene ascoltata e accolta da milioni di uomini, rappresenta senza dubbio una delle principali sfide che il «senso del sacro» continua a rivolgere alla contemporanea mentalità laicistica e scettica, quella appunto che viene definita con il termine di «modernità».


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Questo dossier intende fare stato di tale sfida tra Chiesa e mondo moderno, facendo riemergere dall'oblio il magistero pontificio in una estensione ben più ampia di quella consueta, non soltanto quindi attraverso una selezione interessata e talvolta fuorviante di singoli documenti. Così esso potrà forse offrire la possibilità di valutare la modernità anche alla luce del «senso del sacro», cioè del modo con il quale la Chiesa l'ha affrontata e giudicata.

I criteri e le interpretazioni degli avvenimenti contenuti nelle pagine che seguono potrebbero far pensare a un tentativo pregiudiziale di presentare la Chiesa come una realtà anche temporalmente senza macchia e splendente, impossibilitata a sbagliare, quasi disumana nella sua perfezione. No, non ci siamo dimenticati che la Chiesa, realtà umano-divina, va guardata come uno stupendo grappolo di uva matura, che dal tralcio si protende fino a toccare il terreno e, nella parte terminale, rimane esposta alla marcescenza, che però non pregiudica la sua natura. Essa, come ha scritto uno dei più grandi storici contemporanei, Hubert Jedin, «non appare come quella sposa senza macchia e senza ruga quale se la sognarono gli spiritualisti di tutti i tempi, ma coperta dalla polvere dei secoli, sofferente per le mancanze degli uomini e perseguitata dai suoi nemici: per questo la storia della Chiesa è teologia della Croce».


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Potrà il non credente accettare una lettura dei fatti che si fonda sulla consapevolezza da parte dei pontefici che i loro atti magisteriali godono dell'assistenza dello Spirito Santo, cioè sono espressione del «sacro»?

Ma, d'altra parte, come può il credente accostarsi alla storia della Chiesa, alle sue conquiste, alle sue sconfitte, anche ai suoi errori pastorali, senza tenere presente la verità fondamentale che la Pentecoste continua nella Chiesa, manifestandosi in modo particolare in tale sacralizzazione dell'insegnamento del papa?


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Consapevoli di non aver potuto, per ragioni di spazio e per la natura essenzialmente divulgativa della collana, svolgere un lavoro esaustivo dal punto di vista scientifico, saremmo comunque soddisfatti se la lettura di queste pagine suggerisse a qualcuno di accostare i documenti integrali dei pontefici relativi ai temi da noi semplicemente sfiorati: il nostro lavoro, allora, non sarebbe risultato inutile.


Marco Invernizzi e Oscar Sanguinetti


I . IL SACRO NELL'ETÀ MODERNA


1. Sacralità e Rivoluzione


Con la Rivoluzione francese comincia per la Chiesa cattolica una delle prove più difficili della sua storia.

Lo storico francese Jean Dumont ha scritto che vi è «una specificità della Rivoluzione più significativa di ogni altra» e questa consiste nell'« anticristianesimo totalitario, la sola vera essenza della Rivoluzione francese e il suo unico vero progetto, iniziale e finale» (I falsi miti della Rivoluzione francese, effedieffe, Milano 1990, p. 32). La Rivoluzione dell'Ottantanove, in questo senso, può essere considerata come il parziale compimento di un processo di secolarizzazione cominciato con il Rinascimento e continuato con la Riforma protestante. Utilizzando questa interpretazione della storia - che legge l'epoca moderna e contemporanea come il graduale manifestarsi di un «progetto» ideologico e politico ostile a ogni influenza della religione sulla cultura e sul costume dei popoli - si può osservare come, dopo il 1789, è soprattutto la struttura politica delle nazioni europee a venire investita da questo processo definito anche Rivoluzione. Il concetto stesso di autorità politica  nella prospettiva delle ideologie che si affermano nel secolo XIX - perde ogni legame e ogni dipendenza da Dio e viene così radicalmente contestato il principio enunciato da san Paolo, secondo cui ogni autorità proviene da Dio e in Lui trova origine e legittimità (cfr. Rm. 13,1).

È dunque una cosa utile - a prescindere dal giudizio che si vorrà dare sul fenomeno - esaminare come il magistero dei papi abbia accompagnato e giudicato questo itinerario.


L'ostacolo alla secolarizzazione

La Chiesa infatti rappresenta l'ostacolo all'affermarsi della secolarizzazione e da ciò nasce l'inevitabile conflitto che contraddistingue la storia dei secoli XIX e XX. Bisogna pertanto tenere presente l'enormità della posta in gioco - cioè l'influenza sulla vita dei popoli - per dare un giudizio sui singoli avvenimenti che s'incontrano guardando la storia di quegli anni. Così, per esempio, si potrà comprendere la ferma opposizione della gerarchia ecclesiastica e della maggioranza dei cattolici all'abbandono del potere temporale dei pontefici, esemplificata dalle parole di Leone XIII pronunciate nel 1892: «la rapina della civile sovranità fu compiuta per abbattere a poco a poco la stessa spirituale potestà del Capo della Chiesa» (lettera apostolica Pervenuti all'anno vigesimoquinto).


Dopo le rivoluzioni nazionali e liberali che avvengono in Europa nella prima metà dell'Ottocento, la Chiesa si ritrova in una situazione per alcuni versi analoga a quella dell'epoca pre-costantiniana, sottoposta alla persecuzione - a volte violenta, altre volte soltanto politica e amministrativa, sempre comunque osteggiata da un'azione culturale avversa - da parte di Stati impregnati di ideologie diverse, ma unite da un comune sentire anticristiano.

La Chiesa comincia dunque a vivere in un'epoca completamente diversa dal tempo della cristianità medioevale quando, come scriveva Leone XIII nell'enciclica Immortale Dei, «la filosofia del Vangelo governava gli Stati» e «procedevano concordi il sacerdozio e l'impero, stretti fra loro per amichevole reciprocità di servigi».

Questa prova durerà - in forme diverse - fino al termine della seconda guerra mondiale, quando il consolidamento del socialismo in Russia e la sua espansione nell'Europa orientale e in altre nazioni, e l'avvento al potere in molti paesi occidentali dei partiti di ispirazione cristiana determineranno una situazione nuova per la Chiesa, caratterizzata da insidie e da problemi diversi dai precedenti.


Di fronte alla Rivoluzione

Mentre la Chiesa veniva sottoposta a questa nuova prova storica, le ideologie, i partiti e i regimi che l'avevano sfidata dovevano dimostrare agli uomini la propria capacità di costruire un mondo migliore di quello che per secoli era stato caratterizzato dalla cultura cattolica. Via via che i cattolici diventavano una minoranza nell'ambito dei nuovi regimi, questi dovevano passare dall'epoca della rivoluzione a quello della costruzione, del mantenimento delle promesse fatte ai popoli.

 Oggi, al termine del XX secolo, i risultati di questo processo di scristianizzazione possono permettere un giudizio obiettivo da parte di chi osservi la genesi, lo sviluppo e le conseguenze delle ideologie che hanno largamente caratterizzato il XIX e il XX secolo.2. IL PONTIFICATO DI PIO IX


Di fronte al processo di secolarizzazione che contraddistingue l'epoca successiva alla Rivoluzione francese, il papato diventa il principale punto di riferimento della resistenza cattolica nei riguardi del mondo divenuto ostile che circonda la Chiesa.

 Colui che incarna in modo particolare questo ruolo è Pio IX, sia per la drammaticità degli avvenimenti che si verificheranno durante il suo pontificato sia per la durata dello stesso, che si protrarrà fino al 1878.


La vita

Giovanni Maria Mastai Ferretti nasce a Senigallia il 13 maggio 1792 e studia nel collegio scolopio di Volterra; non riesce a entrare nel corpo delle Guardie Nobili del papa perché malato di epilessia, dalla quale guarirà progressivamente negli anni successivi, potendo così avviarsi al sacerdozio. Viene ordinato il 10 aprile 1819 e consacrato vescovo il 3 giugno 1827. Cardinale dal 14 dicembre 1840, diventerà papa il 16 giugno 1846.

È scritto sui muri del Quirinale nei giorni successivi alla sua elezione: «Mastai, che fai?», e quando il papa legge la frase esclama: «Aspetta e lo vedrai». Promulga immediatamente nello Stato pontificio l'attesa amnistia per i reati politici, in seguito alla quale comincia la «favola» del papa liberale, favorevole alla guerra degli Stati italiani contro l'Austria, «favola» che si conclude con l'allocuzione Non semel del 29 aprile 1848. In questa circostanza il pontefice, accortosi di essere rimasto «prigioniero» del disegno delle sètte e delle mire annessionistiche del regno sabaudo, oppone il grande rifiuto, affermando che il capo della cristianità non può favorire la guerra contro una nazione cattolica come l'Austria. Pochi mesi dopo, il 24 novembre, in seguito a sollevazioni di piazza promosse dalle forze rivoluzionarie, il papa è costretto a lasciare Roma per Gaeta, dove viene accolto dal re delle Due Sicilie Ferdinando II, abbandonando per diciassette mesi la sede di Pietro in mano a un triumvirato rivoluzionario composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini, che proclama la fine del potere temporale e instaura la Repubblica romana.

Comincia a Gaeta la seconda fase del pontificato, caratterizzata da un'altra «favola», quella del papa traditore del Risorgimento italiano: ma, chi conosce i documenti sa bene che, pur constatando la simpatia di Pio IX per un «certo» modo di realizzare l'unità d'Italia, già nella sua prima enciclica Qui pluribus, del 9-11-1846, aveva scritto di «mostruosi e fraudolenti errori coi quali coloro che si occupano solo di cose mondane tentano accanitamente di assalire la divina autorità della Chiesa e le sue leggi e di calpestare i diritti tanto del potere sacro quanto di quello civile».


La Breccia di Porta Pia

Frattanto la Rivoluzione italiana procedeva attraverso una ben congegnata divisione dei ruoli fra gli estremisti garibaldini e mazziniani e i moderati piemontesi, che si ponevano come garanti di una rivoluzione nell'ordine nei confronti delle potenze europee, che temevano una soluzione repubblicana e troppo sovversiva nel campo sociale.

Con le tre guerre d'indipendenza e con i conseguenti plebisciti, abilmente diretti dalle forze vincitrici, la Romagna, la Toscana, le Marche e l'Umbria entrano a far parte del regno d'Italia, ingrandito anche dall'Italia meridionale e dalla Sicilia dopo la spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. Mancano soltanto il Lazio e Roma, per i quali si attende il momento propizio, che verrà nel 1870, dopo la sconfitta a Sedan di Napoleone m, il garante dell'esistenza dello Stato pontificio. Il 20 settembre le truppe del re Vittorio Emanuele II entrano in Roma attraverso la Breccia di Porta Pia, dopo una resistenza puramente simbolica da parte dell'esercito pontificio, composto anche da migliaia di volontari cattolici giunti da tutte le nazioni europee per difendere il papa-re. Il Risorgimento era praticamente compiuto, coronando almeno in parte il desiderio plurisecolare degli avversari del cattolicesimo, così espresso tre anni prima a Ginevra da Giuseppe Garibaldi: «Qui i vostri antenati ebbero animo di assalire per primi codesta pestilenziale istituzione che si chiama Papato. A voi, cittadini di Ginevra, che vibraste i primi colpi alla Roma papale, non è più l'iniziativa che io domando, ma vi domando di compir l'opera dei vostri padri quando noi recheremo gli ultimi colpi al mostro. Vi ha nella missione degli italiani, che lo custodirono così a lungo nel loro seno, una parte espiatoria; noi faremo il debito nostro» (cit. in GIUSEPPE ORLANDI E ANTONIO ACHILLE, Un popolo diviso. Il paradosso di un unità che disunì, La Parola, Roma 1988, p. 152).

 Nel suo magistero, Pio IX aveva in un certo senso previsto questo esito drammatico dello scontro fra la Chiesa e la Rivoluzione, non soltanto nel Sillabo, ma anche nell'enciclica Quanta cura che lo accompagna, nelle allocuzioni Maxima quidem, del 9 giugno 1862, e Jamdudum cernimus, del 18 marzo 1861, nell'enciclica Nostis et Nobiscum, dell'8 dicembre 1849, oltre che in numerosissimi altri documenti.

 Ma sarà soprattutto il Sillabo ad attirare contro Pio IX le ire degli intellettuali laicisti.

Per la verità il Sillabo è soltanto un elenco di proposizioni che definiscono i principali errori delle ideologie del tempo già condannati dalla Chiesa in precedenti documenti e che il Sillabo si limita a riproporre. L'astio che si è riversato sopra di esso avrebbe quindi dovuto riguardare molto più questi altri documenti, fra cui in particolare l'enciclica Quanta cura. Circa il suo peso dottrinale, si deve dire che è ancora oggi oggetto di discussione. È infatti indubbio che si tratti di un atto del magistero ordinario della Chiesa, tuttavia sembrano mancare in esso quelle clausole formali che conferirebbero al documento un valore certamente dogmatico. Inoltre, il Sillabo non è firmato dal papa ma dal segretario di Stato cardinale Giacomo Antonelli, che comunque lo distribuisce ai vescovi con l'esplicita menzione «mihi in mandatis dedit [...] eiusdem Pontificis iussa». Rimane comunque un punto di riferimento obbligato per tutti i cattolici che vogliono prestare attenzione e ossequio al magistero, ma anche per ogni studioso che voglia accostare il documento e il periodo storico con la serenità che è certo mancata fino ad oggi.


Il papa dell'Immacolata

La Breccia di Porta Pia non aveva impedito al papa di attendere ad uno degli eventi più significativi del suo pontificato, ossia la convocazione del Concilio Vaticano I, chiusosi poche settimane prima della caduta di Roma con la promulgazione del dogma dell'infallibilità pontificia, decretato nel corso della seduta del 18 luglio 1870. Davanti a un mondo sempre più dominato dal relativismo e da un indefinibile caos di opinioni e di correnti ideologiche, la Chiesa ribadisce l'esistenza di una verità che trascende l'opinione e che viene trasmessa agli uomini dalla cattedra di Pietro; a quest'ultima, il Concilio attribuisce sotto forma di dogma la pienezza dell'autorità di governo nella Chiesa e l'infallibilità in materia di fede e di morale.

 Il dogma - contestato e rifiutato da intellettuali anche del mondo cattolico - viene favorevolmente accolto dai fedeli, che proprio in quegli anni si stringono attorno al papa «prigioniero» in Vaticano. Era lo stesso popolo che aveva accolto con entusiasmo, l'8 dicembre 1854, la proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione di Maria, che ricordava, di fronte ai liberali sostenitori della bontà originaria dell'individuo, come soltanto la Madonna era stata preservata dal peccato d'origine.

Pio IX morirà in fama di santità il 7 febbraio 1878 e oggi viene onorato con il titolo di venerabile in seguito al decreto sull'eroicità delle virtù, approvato il 6 luglio 1985.


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APPENDICI AL CAPITOLO I



EVENTI POLITICI DURANTE

IL PONTIFICATO DI PIO IX


1848

Scoppia la Rivoluzione a Vienna, quindi a Venezia (17-3) e a Milano con le cinque giornate (18-23 marzo). Il 23-3 il Piemonte dichiara guerra all'Austria: la prima guerra d'indipendenza si conclude con la sconfitta piemontese e l'abdicazione del re Carlo Alberto. Gli succede il figlio Vittorio Emanuele II che il 6-8-1849 firma a Milano la pace con l'impero austro-ungarico.


novembre 1852

Inizia il ministero di Cavour.


1853-1856

Guerra di Crimea fra Turchia e Russia con intervento delle nazioni occidentali a fianco della prima. La guerra si conclude con la sconfitta russa. Il Piemonte invia 15.000 bersaglieri.


1859

Inizia la seconda guerra d'indipendenza che si conclude con la cessione della Lombardia dall'Austria alla Francia, che poi la consegnerà al Piemonte.


6.6.1861 

Muore Cavour.


1866

Terza guerra d'indipendenza: si conclude con la cessione del Veneto all'Italia, anche questa volta tramite Napoleone III.


20.9.1870

Con la Breccia di Porta Pia le truppe italiane conquistano Roma; viene così sostanzialmente ultimata la Rivoluzione nazionale.


13.5.1871

Lo Stato italiano promulga la legge delle Guarentigie, che conserva allo Stato i diritti di placet e di exequatur, pur riconoscendo alla Chiesa l'extra-territorialità dello Stato del Vaticano e la libertà di esercitare la propria funzione spirituale. Con il divieto di partecipare alla vita politica nazionale sancito nel 1874 dall'autorità ecclesiastica (non expedit), si determina una profonda frattura nella nazione, fra i cattolici fedeli a papa Pio IX «prigioniero in Vaticano» e lo Stato gestito dalla Destra storica (i seguaci di Cavour, morto nel 1861) e poi, dopo il 18-3-1876, dalla Sinistra guidata da Agostino Depretis.


1870-1914

Dopo la sconfitta militare nella guerra con la Prussia e dopo la repressione dell'insurrezione socialista (la Comune di Parigi), la Francia entra nella Terza Repubblica, la cui Costituzione viene approvata nel 1875 per un solo voto di scarto. Inizia una politica laicista e imperialistica che durerà fino al 1914, con la nazione sostanzialmente divisa in due blocchi contrapposti, uno cattolico e conservatore e l'altro radicalsocialista, entrambi costituiti da componenti ideologiche profondamente diverse fra loro.


1871

Il 18 gennaio, in seguito alla vittoria militare della Prussia sulla Francia, viene proclamato a Versailles il II Reich. La politica tedesca è sempre più caratterizzata dalla figura del cancelliere Otto von Bismarck, al potere dal 1862, che cerca di vanificare l'influenza del cattolicesimo nella società tedesca attraverso il KuIturkampf, una «lotta per la cultura» che contempla leggi che limitano l'azione della Chiesa e prevedono lo scioglimento della Compagnia di Gesù, come poi avviene nel 1875. Bismarck verrà licenziato nel 1890 dall'imperatore Guglielmo II.


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«VIVA PIO IX!»


È la parola d'ordine lanciata dalle forze liberali nel primo periodo del pontificato, per coinvolgere il papa nel Risorgimento nazionale. Il tentativo raggiunge il suo apice quando Pio IX decreta l'amnistia nel luglio del 1846 che suscita festose manifestazioni popolari.


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«VIVA IL PAPA!»


È questo il grido che accoglierà Pio IX al suo ritorno a Roma, dopo la fine della Repubblica Romana.

Tra gli avversari più irriducibili del papato è Garibaldi, che definì Pio IX «un metro cubo di letame». 

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IL RITORNO DI PIO IX (1850)

NARRATO DA DON BOSCO


Sparsa la notizia che Pio IX era per far ritorno alla sua sede, tutti i suoi stati si prepararono ad una grande festa; moltissimi illustri personaggi da vari paesi della cristianità si recarono in quella santa città, che divenne ingombra di carrozze e di forestieri, tutti là accorsi per assistere e cooperare alla grande solennità. Ciò produsse straordinaria allegria pei Romani, perché così vedevano rifiorire il commercio e ripopolarsi le loro contrade. Il sommo Pontefice volle passare a Napoli, e di là prese il cammino per Roma. Quel viaggio, miei cari amici, fu quale si conveniva al Capo della cristianità, e si può appellare un vero trionfo. Da ogni parte era un affollarsi di popolo sulla via che doveva percorrere l'augusto Pontefice; uomini e donne, vecchi e fanciulli da ogni angolo spuntavano colla gioia sul volto e colle benedizioni sulle labbra a contemplare il sembiante di un sovrano, che seco portava la fortuna del mondo. Qui e qua si scorgevano archi trionfali, tappeti preziosi, pavimenti coperti di fiori per accogliere degnamente quel sovrano, che rappresenta in terra il Re del cielo.[...]

Il Papa continuò il suo viaggio accompagnato da molti insigni personaggi, tra i quali gli ambasciatori delle potenze alleate, le cui armi avevano combattuto e represso i rivoluzionari. Giunto a Terracina, prima città dei suoi stati, trovò tutte le autorità dei paesi circonvicini, che eransi colà recate per ossequiarlo. Era somma l'allegrezza degli abitanti; il loro contento sembrava un delirio […].

L'entrata di Pio IX nella sua capitale era fissata alle quattro dopo mezzodì del dodici aprile. Pareva che colà si fossero aperte le porte del cielo; tanto grande era il concorso della gente. Tutto era ornato a festa, e gli sguardi d'ognuno erano rivolti là donde si aspettava il santo Padre. Sorge in lontananza un nugolo di polvere; indi a poco giunge galoppando un corriere colla livrea rossa; si ode il primo sparo del cannone; da tutte parti echeggiano le grida: Evviva il Papa! Ad ogni istante rimbomba una cannonata, suonano le campane; esce in applausi l'immensa moltitudine. Pio IX giunge… smonta dalla carrozza, e piangendo per tenerezza tocca col piede la terra della patria, da cui era stato costretto per quasi un anno e mezzo di vivere lontano […]


Giovanni Bosco, La storia d'Italia raccontata alla gioventù, 17 ed., Tipografia e Libreria Salesiana, Torino 1886, pp. 428-431.


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LA LEGISLAZIONE ANTICATTOLICA

DURANTE IL PONTIFICATO DI PIO IX


Abituati, dopo il Concordato del 1929, a un «clima» politico di relativa collaborazione fra Stato e Chiesa perdurato in Italia fino all'inasprirsi della secolarizzazione negli anni Sessanta, ci riesce ancora oggi difficile cogliere la gravità della legislazione anticattolica attuatasi in Italia durante il pontificato di Pio IX. Vale quindi la pena avere presenti alcuni dati sulla questione:


1854-1855. Presentazione e approvazione alla Camera e al Senato del regno sabaudo di una legge che prevede la soppressione di un grande numero di ordini religiosi. Secondo lo storico marxista Giorgio Candeloro, «la legge mirava a colpire gli ordini religiosi puramente ascetici e contemplativi, da più di un secolo soggetti alla critica corrosiva dell'illuminismo e poi della democrazia e del liberalismo, che erano anche quelli giudicati più ostili al nuovo ordine di cose stabilito nel '48» (Storia dell'Italia moderna, vol. IV, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 166-167).

 La legge, approvata il 28 maggio 1855, comporta la soppressione di 34 ordini religiosi con un totale di 331 case e 4.050 persone.

 Nonostante la propensione del re, almeno in apparenza, per una soluzione di compromesso con i vescovi, la legge fa il suo corso e la crisi del governo presieduto da Cavour, che sosteneva la legge, si risolve con la riedizione di un nuovo governo presieduto dallo stesso Cavour.


1865. Pio IX scrive al re Vittorio Emanuele II per denunciare l'esasperata politica anticattolica dell'Italia. Infatti, 108 sedi vescovili su 229 sono vacanti, 80 vescovi, fra cui 9 cardinali, sono stati negli ultimi tempi incarcerati, processati e condannati alla reclusione o all'esilio.


1866. Con la legge del 7 luglio viene tolto ogni riconoscimento giuridico a ordini, corporazioni e congregazioni religiose (1.809 complessivamente) e i loro beni assegnati al demanio dello Stato.


1867. Promulgazione di una legge «per la soppressione di enti ecclesiastici e la liquidazione dell'asse ecclesiastico» che, con le leggi precedenti, costituirà la base della legislazione ecclesiastica italiana fino al 1929.

Vengono così soppressi 25.000 enti ecclesiastici senza cura d'anime e viene portato un colpo definitivo alla presenza della Chiesa in Italia.


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I VOLONTARI DEL PAPA


Decine di migliaia i volontari, accorsi a Roma dalle diverse nazioni europee, ricevono la benedizione del papa in piazza San Pietro, alla presenza delle famiglie della nobiltà romana, qui convenute sulle loro carrozze. Sono irlandesi, belgi, polacchi, soprattutto francesi, oltre agli italiani: vi si trovano i discendenti delle famiglie che combatterono in Vandea e Bretagna, durante la Rivoluzione francese, come Charette e Chatelineau, e ancora De Maistre, Pimodan, Duplessis de Grénedan. Sono loro che combatteranno a Castelfidardo, nel 1860, e a Mentana, nel 1867. 


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SUL RAPPORTO TRA RISORGIMENTO E PAPATO


«[...] leggo infine la religione posta in cima di ogni cosa umana; e i principi, i popoli gareggiar fra loro di riverenza e di amore verso il romano pontefice, riconoscendolo e adorandolo, non solo come successore di Pietro, vicario di Cristo e capo della chiesa universale, ma come doge e gonfaloniere della confederazione italiana, arbitro paterno e pacificato re di Europa. Institutore e incivilitore del mondo, padre spirituale del genere umano, erede ed ampliatore naturale e pacifico della grandezza latina».

 Vincenzo Gioberti (Del primato morale e civile degli Italiani)


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«È un fatto innegabile il progresso compiuto in Italia, in tutti i cuori veramente elevati, dal sentimento nazionale italiano. La gente per bene di questo paese non desidera affatto, credetelo, di vedere gli austriaci nelle Romagne o i francesi a Roma, e se li chiamano in questo momento, è con la speranza di vederli andar via, quando saranno liberati dal nemico comune che minaccia tutte le nazioni, dal nemico inafferrabile che si chiama la rivoluzione.

Proprio facendo vibrare la corda di questi sentimenti patriottici e molto onorevoli, i settari hanno trascinato con sé alcuni uomini di qualità, che a tutta prima non hanno visto nel programma del conte di Cavour che la felicità e l'indipendenza del loro paese, e che oggi si accorgono che questa felicità è stata accaparrata da una setta e dai nemici della religione cattolica. L'unità italiana ha generato il garibaldinismo, la guerra contro la religione, il prestito forzoso, l'imposta sul reddito accompagnata dalle più pesanti tasse dirette e indirette: questa unità condurrà fatalmente il paese alla bancarotta, all'irreligione e al disordine sotto l'una o l'altra forma.

Giacché, non vi lasciate ingannare, qui il disordine è possibile persino con un governo monarchico. In effetti, che cosa vediamo in questo momento?... Vediamo un paese di ventisei milioni di abitanti, molto religioso, molto conservatore e molto monarchico, condotto da dodici o quindici mila rivoluzionari, lasciando che si faccia di tutto contro la religione, il diritto di proprietà e il principio monarchico. In Francia, voi credete l'Italia popolata di feroci rivoluzionari: è un profondo errore. In Italia, di empio e di rivoluzionario non c'è che il governo, e il giorno in cui i cattolici decideranno di andare alle urne elettorali, si avrà una Camera interamente clericale. Non bisogna dunque disperare del paese; siamo in una crisi, e quando sarà passata, avremo la vera Italia conservatrice e religiosa».

(Henry d'Ideville, da I piemontesi a Roma 1867-1870, trad. it., Longanesi & C., Milano 1982, pp. 54-55. Diplomatico, secondo segretario dell'ambasciata francese a Roma dal 1862 al 1866, poi trasferito a Dresda ma quotidianamente informato da un amico rimasto nella capitale della cristianità, Henry-AMedée La Lorgne conte d'Ideville ha raccolto in un diario la cronaca della fine del potere temporale).


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«L'opera positiva, cosciente [di Pio IX] non fu la sua, ma dell'agitazione popolare e di chi la dirigeva, prendendo occasione dalle concessioni di Pio IX, ingrandendole, cambiandone il significato, facendo pressioni per ottenerne sempre di nuove. [...] Il Risorgimento si è fatto contro il papato e non poteva farsi diversamente: e in questo senso hanno concorso anche quegli elementi credenti cattolici che vi hanno partecipato effettivamente. La contraddizione non era di un uomo, né poteva cancellarsi per opera di un uomo: era nell'istituto, nell'idea».

Luigi Salvatorelli, Pio IX e il Risorgimento, in Spiriti e figure del Risorgimento, Le Monnier, Firenze 1961, pp. 253-257.




II. LEONE XIII, IL PAPA DELLA RINASCITA CULTURALE (1878-1903)


1. La vita, il pontificato


 Leone XIII proveniva da una famiglia della piccola aristocrazia del Lazio, quella dei conti Pecci, residente a Carpineto Romano nelle vicinanze di Frosinone, dove il padre, Ludovico, colonnello delle milizie pontificie locali, ricopriva diverse cariche pubbliche - tra cui l'esazione delle imposte - per conto del governo della Santa Sede.


Vincenzo Gioacchino dei conti Pecci

Qui nasce, il 2 marzo 1810, Vincenzo Gioacchino, sesto di sette tra fratelli e sorelle. I tempi dell'infanzia del futuro pontefice sono dunque quelli della restaurazione del governo papale a Roma e nel Lazio all'indomani della caduta del Regno d'Italia, fondato da Napoleone nel 1805, e del rientro a Roma di papa Pio VII dalla prigionia francese.

Fin dai primi anni Gioacchino - come veniva chiamato, con omissione del suo primo nome - mostra una netta inclinazione verso la vita di pietà e di studio e manifesta segni della vocazione - così tradizionalmente propria delle élites sociali italiane ai tempi dell'antico regime - di servire la Chiesa nei suoi ministeri o nelle cariche civili della cristianità. Entrambi questi aspetti della sua personalità trovano realizzazione, con l'aiuto della famiglia - in particolare di uno zio residente a Roma - in una formazione orientata a fare di lui un membro della diplomazia pontificia e un chierico: studia a Viterbo presso i padri gesuiti, continua poi a Roma sempre presso i gesuiti del Collegio Romano, l'attuale università Gregoriana, dove si laurea in filosofia nel 1832.

 I due itinerari corrono paralleli: dopo l'ulteriore laurea in diritto canonico e civile, inizia il tirocinio curiale diventando nel 1837 prelato domestico di papa Gregorio XVI. Poco dopo viene nominato membro del tribunale della Segnatura apostolica e ricopre cariche nell'ambito del governo civile della città di Roma, dando buona prova delle sue doti in occasione di un'epidemia di colera che colpisce la città. Gli ordini sacri maggiori gli vengono somministrati tutti in una volta tra il novembre e il dicembre 1837. Ad essi fa seguito la prima nomina importante: delegato apostolico, cioè governatore, della provincia di Benevento, allora facente parte degli Stati pontifici. In questa provincia di frontiera gli anni dell'occupazione francese e il rivolgimento sociale, politico e religioso da essa operato avevano lasciato una situazione morale e materiale disastrosa. Gioacchino Pecci agisce con risolutezza per riaffermare l'autorità dello Stato e la certezza del diritto, combattendo i potentati locali venutisi a creare negli anni della resistenza anti-francese e del «brigantaggio», poteri che talora si arricchivano sul contrabbando e sul troppo facile asilo concesso a ricercati dalla polizia napoletana. Oltre a ciò, si sforza di risollevare la vita economica, le condizioni dei ceti inferiori, dando vita a importanti opere pubbliche.

 Nel 1841, però, l'esperienza beneventana ha termine. Gregorio XVI, infatti, ritenendo le sue doti come le più idonee per fronteggiare una situazione di fermento soprattutto politico, originato dall'azione di propaganda e di agitazione delle sette rivoluzionarie eredi del regime francese, lo invia nel capoluogo delle province umbre, Perugia, come governatore. Monsignor Pecci dà qui ulteriore prova del suo acume politico e diplomatico, affrontando i problemi con coraggio, sforzandosi con successo di eliminare, ove possibile, le cause stesse del malcontento, onde togliere di mano ai membri delle società segrete pretesti sui quali fare leva per sollevare le popolazioni.


Da Bruxelles a Perugia

Due anni dopo soltanto, tuttavia, monsignor Pecci deve ancora una volta partire, in quanto inviato - dopo essere stato ordinato arcivescovo a Roma nel febbraio del 1843  a Bruxelles come nunzio apostolico. A un mese dalla nomina, Gioacchino Pecci - dopo un viaggio per mare con partenza da Civitavecchia, durante il quale riesce ad apprendere sufficientemente bene la lingua francese - arriva nella capitale dello Stato da poco creatosi (1830) con il distacco della provincia a maggioranza cattolica dal regno dei Paesi Bassi. Qui il futuro pontefice ha modo di intervenire nel dibattito civile e culturale, soprattutto incentrato sulla libertà di insegnamento e sulla scuola cattolica (sarà, in cooperazione con l'episcopato belga, uno degli artefici della rinascita dell'università cattolica di Lovanio) e di far apprezzare anche negli ambienti belgi le sue doti di fine diplomatico, lasciando di sé un duraturo ricordo.

 Ma, quasi come se esistesse un disegno secondo cui monsignor Pecci doveva subire un avvicendamento ogni due anni, ecco, ancora una volta, nel 1845, un trasferimento: questa volta il papa lo richiamava in patria, ancora alla testa della città di Perugia, però non più come massima autorità civile, bensì come pastore. È questa un'esperienza nuova per il curriculum del giovane arcivescovo, che segna anche la fine di quella che abbiamo immaginato essere la «legge dei due anni»: a Perugia infatti monsignor Pecci resterà per oltre trent'anni. Come vescovo di Perugia, si sforzerà di elevare la vita spirituale e culturale del clero, promuovendo la pratica religiosa nel popolo, difendendo le classi umili e i più deboli. Tutto questo dovendo costantemente combattere l'ostilità delle correnti liberali e l'aperta lotta delle sette anticlericali, affrontando i gravi avvenimenti del 1859-60 e, in particolare, l'insurrezione anti-pontificia del giugno 1859 e le polemiche seguite alla repressione da parte delle truppe governative, e ancora l'invasione piemontese e i plebisciti. Nel 1853 Gioacchino Pecci viene elevato alla porpora cardinalizia da Pio IX e il suo prestigio tra i vescovi della Penisola e presso la Curia romana si afferma sempre di più. Del 1877 è la sua nomina a camerlengo della Chiesa romana - cioè cardinale reggente in caso di sede vacante, come avviene alla morte di un pontefice  incarico che si trova a dover svolgere in modo effettivo soltanto sette mesi dopo, al momento del transito di Pio IX. Come camerlengo è anche suo compito organizzare il successivo conclave dei cardinali, che si presenta particolarmente difficile, essendo ancora assai incerta e insicura la situazione della Santa Sede all'indomani della conquista di Roma nel 1870 e della nascita del conflitto tra Vaticano e Stato sabaudo, che andrà sotto il nome di Questione Romana. Dopo assicurazioni da parte della pubblica autorità in merito al suo ordinato svolgimento, il conclave può riunirsi e, assai rapidamente, dopo soli tre scrutini e a soli diciassette giorni dalla morte di Pio IX, sovvertendo una tradizione che non voleva il camerlengo tra i candidati, il 20 febbraio 1878 elegge al soglio di Pietro il cardinale Gioacchino Pecci, che si impone il nome di Leone XIII. Giudicato al suo inizio come un pontificato di transizione - data l'età del nuovo papa, 68 anni, e la rapidità della sua elezione - quello di Leone XIII è destinato a durare ben venticinque anni, uno dei più lunghi della storia, che si concluderà soltanto il 20 luglio 1903.

 Il mondo nei confronti del quale il nuovo pontefice si trova a dirigere l'azione evangelizzatrice della Chiesa è caratterizzato da due tendenze generali prevalenti. Da un lato, lungo tutto l'Ottocento, ma con un culmine nell'età leoniana (l'ultimo quarto del secolo è anche detto «l'età dell'imperialismo»), si attua l'espansione oltremare delle potenze europee, nonché si consolidano nelle Americhe gli Stati nazionali, fenomeni entrambi che fanno sì che la civiltà europea si propaghi fino a toccare i quattro angoli del globo.

 Da un altro punto di vista, tuttavia, questa stessa civiltà inizia a mettere in discussione le proprie radici cristiane sotto l'influsso di ideologie nate al tempo della Riforma protestante, affermatesi con l'Illuminismo e tradotte in istituzioni civili dalla Rivoluzione francese, dall'impero napoleonico e dalle diverse rivoluzioni «borghesi» nazionali. Non sono più soltanto i popoli del nord Europa a rifiutare il legame con la Chiesa: anche le nazioni latine tradizionalmente cattoliche iniziano a distaccarsi e, talvolta, a entrare in conflitto con essa, perseguitandola.


In un mondo ostile

Mentre, sotto il primo aspetto, si offrono alla missione della Chiesa opportunità magnifiche per dilatare il regno di Cristo - anche se menomate proprio dal minore supporto ricevuto dall'autorità civile -, dall'altro, nel Vecchio Mondo in particolare, tra i popoli di più antica e radicata civiltà cristiana, si assiste a una crescente erosione del tessuto religioso della società. Dottrine empie ed eversive si diffondono tra il popolo, talora con il favore del potere, mentre l'esistenza stessa della compagine ecclesiale viene minacciata, e la Chiesa perseguitata fino al punto di vedere il successore di Pietro stesso privato della libertà e della autonomia, e addirittura assediato nei sacri palazzi.

In questo contesto di incipiente mondializzazione degli scenari e di crescente, aggressiva secolarizzazione e laicismo, l'attività pastorale di Leone XIII - coadiuvata dai segretari di Stato monsignor Ludovico Jacobini, prima, e Mariano Rampolla del Tindaro, poi - si esplica secondo linee che partono tutte da una considerazione preliminare: la sua diversificata e pluridecennale esperienza di pastore gli fa intendere che i mali di cui soffre il mondo del suo tempo non sono soltanto gravi, ma anche duraturi e necessitanti di terapie altrettanto lunghe e accurate. In altre parole, la restaurazione di un fecondo rapporto tra Chiesa e mondo, che tenga conto delle mutate condizioni di quest'ultimo, non può avvenire semplicemente attraverso condanne, appelli, scontri, bensì va ritessuto giorno per giorno, sceverando ciò che di buono esiste da ciò che di male si è prodotto, non demonizzando tutto in blocco, ma con un atteggiamento benevolo e di costruttivo confronto verso tutte le realtà e i poteri temporali.

Alla luce di questo si capisce, in primo luogo, il cambiamento di stile da parte del magistero della Chiesa, molto più propositivo, volto a trattare sistematicamente e diffusamente i vari temi, soprattutto i più delicati e controversi. Leone XIII intende ottenere, fra l'altro, un rilancio della spiritualità, in particolare tramite la devozione al Sacro Cuore di Gesù (con l'enciclica Annum Sacrum del 1899), la devozione alla Madonna (alla preghiera del rosario dedica ben dieci encicliche, sette lettere apostoliche e una costituzione), quella a san Giuseppe (enciclica Quamquam pluries del 1889, più cinque lettere apostoliche, tra il 1890 e il 1895) e alla Sacra Famiglia (indirizzata a richiamarne l'esemplarità per la società del tempo e consacrata con l'istituzione della festa relativa il 16 giugno 1892). Un insegnamento indirizzato, inoltre, a rifondare le corrette nozioni di autorità, di famiglia, di uso dei beni e di lavoro umano, come si vedrà in dettaglio nei paragrafi seguenti.


Conflitto o confronto?

È in conseguenza di questa strategia di fondo, volta al confronto più che al conflitto, che si spiega anche l'insistenza e il prodigarsi in prima persona del papa per una rinascita della cultura cattolica: della sua filosofia, della sua scienza, delle sue scuole, delle sue accademie.

È la Chiesa che sceglie di piegarsi per cercare di farsi intendere da un mondo che si allontana sempre di più, invece che pretenderne la sottomissione con la certezza di restare inascoltata.

È un cambiamento di prospettiva brusco, di difficile comprensione per molti, ecclesiastici e laici: ed è per questo che il papa, su certi aspetti - come, ad esempio, l'indifferenza delle forme di governo - deve insistere più e più volte.

Dove tutto questo è forse maggiormente avvertibile è nello stile che il papa inaugura nelle relazioni con le potenze terrene: davanti agli attacchi alla Chiesa o a princìpi irrinunciabili per essa, egli non si chiude mai nella protesta sdegnosa, bensì si sforza costantemente di persuadere il suo avversario del momento che egli ha solo da guadagnare concedendo libertà alla Chiesa o rinunciando alle sue pretese ragioni. Il papa non demorde, per esempio, nella vicenda del Kulturkampf (la cosiddetta «lotta per la cultura», contro la «superstizione» cattolica e clericale, scatenata dal cancelliere tedesco Otto von Bismarck) oppure quando l'atteggiamento dell'avversario è ispirato ad una intransigenza e a un fanatismo pressoché apocalittici, come nel caso dei rapporti con i governi - largamente influenzati dalla massoneria - della Terza Repubblica francese (cfr. oltre in questo stesso dossier). Ciò non significa, peraltro, che Leone XIII non sia intransigente: oltre a non mettere mai in questione il Sillabo di Pio IX sugli errori del tempo - del quale, anzi, a detta di Giovanni Spadolini (Cfr. L'opposizione cattolica da Porta Pia al '98, ed. ridotta, Mondadori, Milano 1976, p. 5) era stato fra gli ideatori -, nei suoi documenti dottrinali è estremamente rigoroso e infiammato nel denunciare gli errori del secolo. Nei riguardi per esempio della massoneria, intesa non solo come società di pensiero, ma anche come gruppo umano, il suo atteggiamento conciliativo e benevolo viene meno, quasi a voler ribadire che con essa ogni forma di dialogo è «tecnicamente» impossibile.


2. Cultura cattolica e cultura laicista


Il progetto leoniano per rilanciare la cultura cattolica e metterla in condizione di reggere il confronto con quella laicista moderna - orientata in senso anti-cristiano - si attua in diversi ambiti.


La storia

In campo storiografico, dove forse più evidente appariva il divario, Leone XIII favorisce la realizzazione di ricerche e di opere che costituiscono autentiche pietre militari, quale per esempio la Storia dei papi dalla fine del Medioevo del tedesco Ludwig von Pastor, in 16 volumi, promuove la nascita di centri di studio e di riviste, mentre, nel 1880, apre agli studiosi laici la biblioteca vaticana, la biblioteca Borghese e gli archivi vaticani e chiama a Roma studiosi di fama, come il cardinal Joseph Hergenrother - che nomina archivista pontificio - e il gesuita Ehrle.

 È del 1883 la sua enciclica programmatica in materia, la Saepenumero considerantes. In essa Leone XIII afferma tra l'altro: «La Storia, studiata nelle sue vere fonti con animo sgombro di passione e di pregiudizi, riesce spontaneamente per se stessa la più splendida apologia della Chiesa e del Papato».

 A chi si preoccupava di eventuali danni per la Chiesa dall'apertura degli archivi, risponde: «Per qualche foglia secca non muore una quercia».


Gli studi biblici

Altro ambito nel quale era poi urgente intervenire - visto il confronto in atto con le agguerrite scuole protestanti, nonché constatata l'incipiente diffusione delle società bibliche popolari eterodosse, favorite tra l'altro dal governo italiano sin dai tempi di Camillo Benso di Cavour - è quello degli studi scritturistici. Qui il papa si preoccupa di rafforzare lo studio delle discipline ausiliarie della ricerca biblica, quali l'archeologia, le lingue, nonché quello delle culture mediorientali antiche, e con una certa apertura al metodo storico-critico favorisce la redazione di opere di sintesi, talora poderose. Per la messe di studi propiziata del papa si delinea però presto il rischio (come si avrà modo di rilevare in alcune ricerche di Alfred Loisy, che diventerà uno dei massimi esponenti del modernismo) di una erezione del metodo quasi a dogma, sì che Leone XIII, per ricondurre gli studi nel giusto alveo, deve pronunciarsi con una enciclica, la Providentissimus Deus, del 1893, e istituire, nel 1902, una commissione centrale di coordinamento, la Pontificia Commissione Biblica.


La filosofia

Ma il terreno sul quale l'azione leoniana di rinnovamento riesce più profonda e duratura è quello filosofico. Consapevole dell'importanza capitale della filosofia - allo stesso tempo punto di partenza, con le ipotesi generali, e momento di sintesi della ricerca scientifica - e assolutamente persuaso della possibilità e della necessità di una filosofia cristiana, Leone XIII ripropone al suo secolo quel sistema speculativo già fiorito nei secoli XIII e XVII, cioè la Scolastica di san Tommaso d'Aquino, di sant'Anselmo d'Aosta, di san Bonaventura da Bagnoregio, di Francisco Suarez, che così felicemente era stata capace di organizzare insieme il dato di fede e quello di ragione. Questa filosofia si viene a trovare, con il diffondersi di una cultura relativistica nel mondo occidentale, una fra le tante possibili vie di pensiero e conosce un progressivo declino in conseguenza del rifiuto dei suoi princìpi - talvolta aprioristico - da parte del mondo profano e a causa della fascinazione operata dalla cultura rivoluzionaria sullo stesso mondo intellettuale cattolico.


«Doctor angelicus»

Ma Leone XIII non si limita a riproporre genericamente un ritorno alla Scolastica: conscio della sclerosi che ne aveva inaridito la linfa negli ultimi epigoni, nonché del fatto che la Scolastica non era un tutt'uno omogeneo, bensì un insieme di correnti di pensiero talvolta in disputa tra loro, Leone XIII ripropone al mondo il pensiero dell'autore delle Summae, cui la cristianità si era ispirata per secoli. In san Tommaso d'Aquino il pontefice vede il frutto più ricco e maturo di una speculazione cristiana, quasi il culmine, forse non più raggiungibile, di penetrazione di un pensiero illuminato dalla grazia divina nelle realtà del creato.


La rinascita del tomismo

Questa rinascita della filosofia cristiana è avvertita con tanta urgenza, che Leone XIII dedica una delle primissime encicliche, la Aeterni Patris, del 4 agosto 1879. In essa, il papa ricorda la funzione vitale della filosofia per pensare la fede (teologia), per confortarla (preambula fidei) e per difenderla (apologetica), e l'uso che di essa hanno fatto i Padri della Chiesa. Vede uno dei valori fondamentali della Scolastica medievale proprio nell'avere ripreso e sintetizzato il pensiero dei Padri, e la presenza in essa di san Tommaso come «maestro», dopo il quale quasi non rimarrebbe da desiderare altro. L'adozione poi pressoché universale delle opere dell'Aquinate (da parte di università, accademie, maggiori ordini religiosi, romani pontefici e, infine, Concilii, come il Tridentino e il Vaticano I), ne testimonia ulteriormente l'eminenza e l'efficacia, che il papa vede soprattutto nella formazione apologetica delle nuove generazioni di cattolici, affinché possano meglio rendere ragione della propria speranza.

Al richiamo di Leone XIII fa seguito un'autentica fioritura di iniziative nel mondo cattolico: chi è già tomista (come, ad esempio, il cardinale Tommaso Zigliara, il gesuita Matteo Liberatore, lo spagnolo Jaime Balmes, e le scuole di Piacenza e di Napoli) trova nuovo impulso nei suoi studi; altri accettano la direttiva leoniana e così centri importanti di ricerca vengono a crearsi presso le università cattoliche di Lovanio (in Belgio, dove si distingue presto la figura del cardinale Désiré Mercier), di Friburgo (in Svizzera), di Lilla (in Francia), di Washington, della Gregoriana di Roma. È in questi anni che nascono le riviste Divus Thomas, a Piacenza, e Revue Néoscolastique, a Lovanio, che tuttora esistono. Nell'ottobre 1879, con una lettera al cardinale De Luca, prefetto della Congregazione degli Studi, Leone XIII istituisce la Pontificia Accademia S. Tommaso e ordina la pubblicazione dell'opera omnia, la cosiddetta edizione «leonina», dell'Aquinate. Il 25 gennaio 1882, poi, in una lettera ad alcuni vescovi del nord Italia, la Cognita Nobis, ribadisce la necessità dell'opzione tomistica, condannando alcuni fermenti di dissenso a riguardo. Altrettanto raccomanda al clero francese nell'enciclica Depuis le jour del settembre 1899.

L'influsso della rinascita neoscolastica propiziata da Leone XIII sulla cultura cattolica sarà destinato a durare circa fino alla metà del Novecento, quando entrerà nuovamente in crisi.



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APPENDICE AL PARAGRAFO 2

DEL CAPITOLO II

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COME SI TRASMETTE LA CULTURA?


Il principale veicolo di trasmissione della cultura è la famiglia: nessuno sfugge interamente al tipo di cultura, od oltrepassa il grado di cultura che acquistò dal suo primo ambiente. Ciò non vuol dire che questo possa essere l'unico veicolo di trasmissione: in qualsiasi società, più o meno complessa, l'opera della famiglia è assistita e continuata da altri mezzi di trasmissione. È così anche in società relativamente primitive.

Nelle comunità più civilizzate, che conoscessero la specializzazione dei compiti, e in cui non tutti i figli seguissero l'occupazione del padre, il discepolo (idealmente almeno) non serviva semplicemente il suo maestro, né imparava da lui come uno farebbe in una scuola tecnica: egli veniva accolto in un modo di vivere che s'accompagnava a quel particolare mestiere o arte; e forse il segreto perduto dell'arte è questo: che non semplicemente un'abilità veniva trasmessa, ma tutto un modo di vivere. E cultura - da non confondersi con la conoscenza di essa - era quella che veniva trasmessa dalle più antiche università: se ne sono avvantaggiati giovanotti che pur sono stati studenti senza profitto, che non hanno acquistato alcun gusto per lo studio o per l'architettura gotica degli edifici universitari o per la ritualità e le forme della vita di collegio. [...] Ma la via di gran lunga più importante per la trasmissione della cultura resta la famiglia; e quando la vita famigliare manca a tale compito, dobbiamo attenderei una decadenza nella nostra cultura.

La famiglia è una istituzione di cui quasi tutti parlano bene: ma è opportuno tener presente che è termine che può variare di estensione. Oggi come oggi, essa significa poco più che i membri viventi di essa. E rara eccezione che un avviso pubblicitario raffiguri una famiglia numerosa o di tre generazioni. La famiglia tipo dei manifesti pubblicitari consiste dei due genitori e di uno o due figli.

Quel che si offre all'ammirazione non è la devozione a una famiglia ma l'affetto personale tra i membri di essa, e quanto più piccola è la famiglia tanto più sarà facile sentimentalizzare questo affetto personale. Ma quando parlo della famiglia penso ad un legame che abbraccia un più lungo periodo di tempo che non questo: una pietà per i morti, per quanto oscuri, e una sollecitudine per i non nati, per quanto remoti: se questa devozione per il passato e per il futuro non è coltivata nella famiglia, nella comunità essa non potrà essere altro che una convenzione verbale. Un tale interesse per il passato è cosa diversa dalle vanità e dalle pretese della genealogia; una tale responsabilità verso il futuro è cosa diversa da quella degli ideatori di programmi sociali.

(Thomas Stearns Eliot, Da Appunti per una definizione della cultura, trad. it., 2a ed., Bompiani, Milano 1967. pp. 47-49).



3. LE IDEOLOGIE DEL SECOLO


Il magistero di Leone XIII non trascura alcuna area di problemi del suo tempo e il carattere sistematico dei suoi documenti fa sì che nessuno di essi possa essere avulso dal contesto generale e venir valutato il parte. Come ha scritto il filosofo cattolico Augusto Del Noce, «i vecchi politici cattolici leggevano la Rerum Novarum come se fosse isolabile dall'insieme del Corpus Leonianum; coerentemente i nuovi, portando alle conseguenze ultime il difetto di questa linea, hanno del tutto trascurato di leggerla» (Il marxismo di Gramsci e la religione, in CRIS documenti, anno IV, n. 35, febbraio 1977, p. 26). Così, Leone XIII, ben lungi dall'essere soltanto il papa di una enciclica, la più celebrata di quelle di argomento sociale, affronta fin dai suoi esordi il problema delle ideologie, cioè del modo di pensare e quindi di vivere, della mentalità del proprio secolo: prima di occuparsi dei singoli problemi sembra volere, infatti, analizzarne le premesse ideali.


Il secolo del liberalismo

L'Ottocento è principalmente il secolo del liberalismo, la sua ideologia dominante, mentre il socialismo e il comunismo vi trovano, se non la loro attuazione - anche se la Comune di Parigi del 1871 ne è un saggio eminente -, quanto meno la loro massima teorizzazione (il Manifesto di Karl Marx e Friedrich Engels è del 1848, mentre Il Capitale di Marx viene pubblicato a partire dal 1867). Mentre al liberalismo dedica l'enciclica Libertas, nel 1888, nonché parecchi passi di numerosi documenti di argomento sociale ed economico, del socialcomunismo si occupa in una delle sue prime encicliche, promulgata l'anno della sua ascesa al pontificato, nel 1878, la Quod apostolici muneris.

L'urgenza con la quale il pontefice tratta di queste dottrine, a indirizzo principalmente sociale, deriva dalla ferma persuasione della loro erroneità e pericolosità e pare quasi un modo per mostrare al mondo, prima di indicare i princìpi per un'opera di restaurazione sociale, come la società non deve essere concepita.


Il movimento socialista

Premessa l'origine settaria dei movimenti socialcomunisti nella società di allora «e che sparsi per tutto il mondo e legati tra sé coi vincoli di iniqua cospirazione, ormai non ricercano più l'impunità delle tenebre di conventicole occulte, ma apertamente usciti alla luce del giorno si sforzano di colorire il disegno, già da lunga mano concepito, di scuotere le fondamenta medesime del consorzio civile», il papa individua nella radicalità dell'opposizione delle loro dottrine politiche e sociali all'insegnamento della Chiesa il frutto maturo del pensiero moderno, emancipatosi dalla religione. Frutto maturo, quindi, di quelle correnti filosofiche che, a partire dal Rinascimento, hanno contrapposto la ragione alla rivelazione (naturalismo), hanno elevato la ragione a giudice supremo (razionalismo), hanno sostenuto la separazione della fede dalla vita e dalle istituzioni sociali (laicismo), contribuendo così al prodursi di una mentalità ristretta al solo orizzonte temporale, che privilegia le realtà materiali, come la forza e il denaro, e quindi, tendenzialmente, materialistica e priva di speranza. Tutto ciò ha preparato e propiziato la negazione di realtà fondamentali e benefiche, in quanto ordinate al perfezionamento dell'individuo, come il principio di autorità, il matrimonio, la famiglia e la proprietà privata, cui si oppone uno spirito egualitaristico, un individualismo o uno statalismo radicali, e l'introduzione del collettivismo nei rapporti socio-economici.

La Quod apostolici muneris - più breve della media delle encicliche leoniane - propone parallelamente alla denuncia degli errori indicati anche una succinta elencazione dei princìpi opposti, così come la Chiesa li professa e li insegna da secoli, sull'autorità, sulla famiglia e sulla proprietà. Essa suona quasi come un accorato appello ai cattolici, ma soprattutto alle potenze mondane, perché tutte cooperino nella difesa della società dalla «peste del socialismo», e nel con tempo come un richiamo ai governi affinché cessino di combattere la Chiesa e invece si avvalgano della sua dottrina e della sua esperienza anche «in umanità» per soffocare realtà a lungo andare esiziali.


La libertà, per che cosa?

L'enciclica Libertas è, invece, un documento di ampio respiro, una via di mezzo fra un trattato e un manifesto filosofico e politico, una risposta di grande momento al più diffuso e potente errore del secolo: il liberalismo. Il documento propone dapprima la concezione cristiana della libertà, maturata alla luce della retta ragione e della fede. La libertà è caratteristica intrinseca alla natura umana, che la distingue dalle altre creature, e discende dall'essenza razionale di questa ed ha come contropartita la responsabilità.

Essa si attua nella conformazione volontaria, non meccanicistica, alla legge, cioè nel riconoscimento da parte della ragione dei caratteri e dei fini della natura umana e nell'assenso al loro perseguimento, allo scopo di esprimere in maniera compiuta per la ragione tali caratteri. Posta tale condizione, per l'attuazione piena della propria natura, all'uomo necessita una legge non solo naturale, cioè impressa dal Creatore nel suo cuore, ma anche una legge positiva che lo guidi e lo trattenga dalla violazione dell'ordine naturale e divino. La legge civile deve essere mutuata da tale legge naturale e deve consentire che «si possa più agevolmente vivere secondo le norme della legge eterna», cioè deve assicurare a ogni essere la possibilità di perfezionarsi conseguendo il suo vero fine, che è Dio. La libertà è dunque non solo «libertà da», assenza di costrizione pura e semplice, ma «libertà per» e la prima, pur necessaria, ha senso soltanto e unicamente alla luce della seconda.


La «libertà liberale»

La libertà del liberalismo, viceversa, viene ricollegata al «non serviam», cioè al proposito di ribellione da sempre riferito dalla Chiesa a Lucifero. Le sue radici sono nel razionalismo e nel naturalismo filosofici, nella concezione della cosiddetta morale indipendente, tratti tutti riferiti alla descrizione dell'ideologia massonica nell'enciclica Humanum genus. Secondo la visione del mondo massonica, le leggi della società derivano la loro autorità non da un principio di verità sopra la natura e la storia, ma da realtà terrene come per esempio la forza esclusiva delle maggioranze, il che apre la via ad abusi tanto da parte dell'autorità quanto da quella dei sudditi. Gli altri capisaldi del liberalismo politico sono le libertà civili (di culto, di coscienza, di stampa), che vengono rigettate dal papa in quanto in tutte si ritrova il tratto comune del relativismo (religioso, in ordine alla verità e alla morale). Questi errori del liberalismo, infatti, privano i popoli degli apporti benefici della Chiesa e li espongono - come viene spiegato nell'enciclica - a forme di aggressione esiziali, quali, per esempio, la pornografia o l'accanito proselitismo delle «nuove religioni».



4. LE SOCIETÀ SEGRETE


Fin dai suoi primordi la Chiesa ha professato di credere nell'esistenza del diavolo e nella presenza di uno sforzo storico contro la verità e la redenzione, ispirato dal demonio e condotto attraverso la collaborazione di uomini, spesso organizzati in gruppi e società segreti. È questa una credenza e un insegnamento espresso magistralmente da sant'Agostino di Ippona nella sua dottrina «delle due città», la città di Dio e la città di Satana: «Due amori hanno dunque fondato due città: l'amore di sé, portato fino al disprezzo di Dio, ha generato la città terrena; l'amore di Dio, portato fino al disprezzo di sé, ha generato la città celeste» (La città di Dio, lib. XIV, c. XXVIII).

È un insegnamento che viene ripreso anche da sant'Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, nei suoi Esercizi spirituali, con la celebre «contemplazione di due stendardi», nonché sviluppato dalla teologia cattolica, trovando formulazione compiuta nel concetto di «corpo mistico del demonio» in analogia con quello di «corpo mistico di Cristo».

La Chiesa nei secoli ha costantemente ricondotto a quest'opera di rivolta contro l'ordine del creato e contro la redenzione, l'insorgere e il proliferare delle sette e delle società iniziatiche, di volta in volta gnostiche, socialistiche, occultistiche, alchemiche, magiche, ermetiche, esoteriche, illuministiche, pseudo-mistiche, neopagane. In esse la Chiesa ha sempre individuato la proposta rivolta all'uomo - sia a quello colto, che a quello rozzo, con lusinghe diverse ma analoghe - di false vie di auto-redenzione e auto-trascendenza, basate sull'orgoglio e sulla sensualità, nonché su tecniche pseudo spiritualistiche varie, ma sempre in alternativa alla rivelazione e all'ascesi cristiane.


La massoneria

Fin dagli anni immediatamente successivi alla nascita ufficiale della massoneria in Inghilterra, nel 1717, la Chiesa ha ritenuto - con la condanna di papa Clemente XII nella bolla In eminenti del 1738 - che la fratellanza dei liberi muratori o massoneria fosse da considerare quale società segreta anticristiana, anzi, di più, come il tentativo di coordinare, unificandole in un unico progetto, la miriade di società iniziatiche allora esistenti. La massoneria conosce in breve tempo una diffusione capillare e una crescente influenza lungo tutto il Settecento e l'Ottocento. Essa si afferma non solo nel campo esoterico - dove viene a configurarsi sempre più come la «chiesa» o la casa. madre dello pseudo-spiritualismo, ma anche in campo sociale, culturale e politico, costituendo frequentemente un «gruppo di pressione», che influenza le decisioni dei parlamenti, nonché un serbatoio di risorse umane e di idee per le classi dirigenti non più cattoliche dei diversi paesi. I due ambiti di azione sembrano solo apparentemente in conflitto, poiché la setta è consapevole di quanto la scristianizzazione dell'ordine temporale sia determinano per logorare le radici sociali della religione rivelata e della Chiesa. Reagendo all'aggressione, nel corso degli anni la Chiesa rivolge alla massoneria una «raffica» di condanne davvero impressionante: tra il 1738 e il 1983 (anno della pubblicazione dell'ultima dichiarazione ufficiale in materia, da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede) i papi e i dicasteri vaticani emettono ben 586 documenti contro la massoneria; di essi 226 sono pubblicati durante il solo pontificato di Leone XIII.


Uno «strano» atteggiamento

Alla luce di questi dati resta inesplicabile il tentativo operato da storici cattolici negli anni seguenti al Concilio Vaticano II - e tenacemente reiterati anche di recente su riviste a grande diffusione popolare - di ridimensionare l'importanza di questo costante insegnamento dei papi, sforzandosi di volta in volta di diminuire il peso della massoneria in determinate vicende storiche, come per esempio la Rivoluzione francese o il Risorgimento italiano. Nessuno di questi storici sembra peraltro aver mai approfondito a sufficienza i contenuti dell'ideologia massonica e della sua essenza, lo gnosticismo, come invece ha fatto il magistero oppure hanno fatto in lunghi anni di studi figure solitarie di contemporanei, ignoti ai più, come il gesuita padre Florido Giantulli in Italia, o Leon de Montaigne de Poncins, in Francia.

A Leone XIII - sempre coerentemente con le linee programmatiche del suo magistero - dobbiamo il documento teologicamente più profondo e completo sulla massoneria: l'enciclica Humanum genus, del 1884.


L'enciclica Humanum genus

Attorno a essa si è tentata un'operazione riduttiva analoga, anche se con modalità differenti, a quella messa in atto nei confronti della Rerum novarum: la si è voluta isolare dal flusso dei molteplici pronunciamenti precedenti, allo scopo di datarla storicamente, oppure la si è messa in relazione con gli eccessi anticlericali che si sono manifestati nel clima di scontro prodottosi in Italia in seguito alla presa di Roma nel 1870. Secondo questa tesi, tra anticlericalismo e massoneria non esisterebbe un legame strutturale ma soltanto accidentale, e l'enciclica di Leone XIII sarebbe una risposta altrettanto «eccessiva» agli «eccessi» anticlericali  visti come soltanto temporanei - della massoneria.

La Humanum genus è in perfetta sintonia con quanto affermato dai papi precedenti: solo che, al solito, lo stile leoniano se ne differenzia per il fatto di sottolineare più gli aspetti analitici e terapeutici che non la condanna, che pure emerge decisa. 

Nel documento, dopo il richiamo alla dottrina agostiniana delle due città, il pontefice evidenzia il nesso tra massoneria e dottrine socialiste e comuniste e indica nel segreto e nell'esoterismo - diverse verità e finalità, sotto la copertura di simboli diversi, a seconda dei vari livelli di appartenenza alla setta - i motivi primari di condanna. Motivo fondamentale resta comunque quello ideologico-dottrinale: sotto l'apparenza di razionalismo e di filantropismo esteriori, la massoneria professa il naturalismo filosofico e teologico (non esistono realtà soprannaturali, come la rivelazione e il dogma, che limitino la ragione umana), che la Chiesa riprova come erroneo ed empio. Da ciò deriva il rifiuto del cristianesimo, della Chiesa, del suo magistero e lo sforzo di laicizzare, scristianizzandola, la società. Ancora: il naturalismo, rigettando la rivelazione, respinge anche la metafisica, eliminando così gli unici agganci possibili di una morale non ridotta a pura soggettività, e ingenera quindi il relativismo religioso, filosofico ed etico, potremmo dire le basi stesse dell'atteggiamento pratico dell'uomo moderno e contemporaneo. 

E’ questo il carattere di fondo che rende radicalmente inconciliabile la massoneria con il cristianesimo: per questo essa sarebbe sempre condannabile, anche se smettesse di combattere la Chiesa. Ed è ancora questo aspetto di fondo che rende impossibile per un cattolico la cosiddetta «doppia appartenenza», falso problema ancora oggi agitato. La vita massonica per forza di cose conduce il cristiano verso un modo scorretto di vivere la propria religione, la quale, tra l'altro, non va intesa soltanto come una partecipazione a riti o a una comunità, ma è anche la pratica della retta ragione e della legge morale integrale, così come la Chiesa le insegna.


L'influenza massonica

La Humanum genus illustra poi gli sviluppi di questo atteggiamento di fondo dell'ideologia massonica, che conduce verso una visione panteistico-razionalistica o materialistica del mondo da cui viene generato il deismo (Dio c'è ma non interviene nella storia), e quindi l'ateismo, che producono diversi riflessi sociali, come la morale «laica», il rifiuto della nozione di peccato originale, la «naturalità» del comportamento intesa come libero sfogo alle proprie passioni, e, in generale, una diffusa decadenza dei costumi pubblici e l'affermarsi di arti a sfondo immorale. Da qui, ancora, le battaglie della setta a favore del matrimonio civile, del divorzio, dell'istruzione di Stato contro la scuola libera e religiosa, per l'aconfessionalità dello Stato, per una «libertà» sempre più simile alla socializzazione di valori negativi, una uguaglianza sempre più vicina all'egualitarismo. L'influsso sui governi, sui parlamenti, sulle amministrazioni pubbliche, l'infiltrazione di propri membri in tutte le posizioni di potere in seno alla società civile, la propaganda velata dei propri principi nel popolo attraverso la stampa e la scuola sono indicate come le modalità di azione prescelte. 


I due rimedi

Come potranno i cattolici difendersi da tale aggressione? I rimedi indicati da Leone XIII sono molteplici, ma due spiccano fra tutti: primo, il dire sempre la verità strappando così la maschera menzognera dietro cui si nasconde la setta e mostrandone il vero volto tendenzialmente satanico; secondo, la diffusione di buoni principi fra il popolo, soprattutto elementi di sana filosofia naturale e cristiana. In questo compito un ruolo primario hanno il Terz'ordine francescano, così a contatto con la gente, e le associazioni operaie e caritative.



5. La famiglia


Nell'insieme del grandioso disegno di restaurazione sociale di Leone XIII, un ruolo importantissimo gioca la famiglia, cellula-base della società umana e primo luogo di evangelizzazione. Essa aveva subìto guasti di fatto e di principio da parte delle rivoluzioni illuministico-liberali, le quali, con la decapitazione del re di diritto divino e con la distruzione dell'infrastruttura corporativa, avevano rigettato la famiglia come modello delle istituzioni sociali stesse.

Leone XIII avverte l'urgente necessità di pronunciarsi sul tema, e dedica al matrimonio e alla famiglia una delle prime encicliche, la Arcanum divinae sapientiae, del 1880.

Il pontefice parte da molto lontano e si situa subito sul piano della teologia sociale, affermando che, nonostante i copiosi frutti portati della redenzione di Gesù Cristo anche nell'ordine della natura, la «società domestica» nella storia, soprattutto nei tempi recenti, si è venuta deteriorando ed è esposta a nuovi e crescenti pericoli di dissoluzione.


Il progetto divino sulla famiglia

Occorre pertanto richiamare le linee del disegno di Dio sulla famiglia. L'origine del matrimonio è descritta nel Genesi sostanzialmente come unità tra due esseri umani, un maschio e una femmina, nel vincolo coniugale perpetuo. Dopo il peccato di Adamo, questo progetto originario inizia a corrompersi e nascono la poligamia, il ripudio della sposa, l'oppressione della donna e del fanciullo. La rivelazione cristiana - contenuta soprattutto nel capitolo 19 del vangelo di Matteo e nella prima lettera ai Corinzi di san Paolo - pone rimedio, sancendo la pari dignità dell'uomo e della donna, e, quindi, del marito e della moglie, l'uguale responsabilità morale nei confronti dell'adulterio, i diritti dei figli, pur non mettendo in discussione la necessità del regime gerarchico all'interno dell'unione matrimoniale e della famiglia. Il matrimonio, inoltre, viene elevato dal cristianesimo a sacramento, cioè ad atto umano di importanza somma, in quanto operante anche sul piano soprannaturale, e ne viene ribadita l'unità e indissolubilità.


La Chiesa nella storia

La Chiesa, continuatrice della missione di Gesù nella storia, si è costantemente sforzata nei secoli di rivendicare la dignità femminile, ha combattuto ovunque possibile gli abusi dell'autorità maritale, ha lottato contro pratiche innaturali inerenti al matrimonio e alla generazione, antichissime e sempre riaffioranti, come l'aborto, la selezione della prole, la tendenza alla poligamia, il divorzio (la difesa del principio dell'indissolubilità del vincolo contro il re Enrico VIII d'Inghilterra le costò, nel Cinquecento, lo scisma della Chiesa d'Inghilterra, che tuttora perdura), il rifiuto della procreazione (praticato dalle sette gnostico-manichee, come i catari, cioè «i puri», i patarini in Lombardia, gli albigesi in Francia durante il Medioevo). Essa ha promosso viceversa in ogni forma la castità, la dignità e santità dell'istituto e dello stato coniugali.

L'attacco al regime naturale e cristiano del matrimonio e della famiglia viene condotto secondo Leone XIII, con modalità diverse; di queste se ne possono individuare due: da un lato l'azione corrosiva e corrompitrice delle ideologie moderne, di stampo individualistico e libertario, dall'altro la sempre crescente ingerenza dello Stato, che tende a proporsi sempre più spesso e fortemente come principio, fonte e regolatore dell'istituto matrimoniale, rifiutando di riconoscere gli aspetti religiosi della materia o confinandoli nella sfera privata e personale. La Chiesa, in quanto tutrice del sacro e del diritto naturale divino, cui quello civile dovrebbe conformarsi, non può non rivendicare il diritto di intervenire in materia di vincolo coniugale, ribadendo il carattere non meramente naturale di esso, la sua essenza non solo individualistica ma sociale e il suo rilievo per la comunità cristiana, senza peraltro privare lo Stato delle sue giuste prerogative.

Essa deve inoltre e in specifico combattere il naturalismo anche in questo àmbito, dove ragionare alla luce dei suoi postulati può condurre non solo a errori ma a conseguenze pratiche gravi. Infatti, considerare il matrimonio soltanto come un contratto tra due persone e non come sacramento - oltre alla erroneità della tesi sul piano della stessa ragione naturale - apre la porta alla solvibilità di esso, cioè al divorzio, che prepara a sua volta la strada alla poligamia, se non di principio almeno di fatto.

Ferma è la condanna del divorzio. La sua legalizzazione, infatti, muta la struttura dell'unione coniugale, e questo anche per i cristiani che lo rifiutano, in quanto vizia tendenzialmente il consenso che sta alla base del contratto, accresce i rischi di contesa all'interno della coppia, favorisce l'infedeltà, si ripercuote rovinosamente sui figli, è contro la dignità della donna, accresce il numero delle separazioni, produce un abbassamento della moralità pubblica, mina l'istituzione familiare che è fondamentale per la società.


I rimedi davanti ai guasti delle ideologie

Il rimedio ai guasti riscontrati al suo tempo e l'argine a quelli futuri provocati dallo sviluppo della tendenza alla laicizzazione e alla statalizzazione del matrimonio, non può consistere, per Leone XIII, che in una inversione di tendenza e in un ritorno dello Stato alla collaborazione feconda con la Chiesa. Egli non rivendica alla Chiesa un diritto assoluto in materia, che essa non ha e non ha mai rivendicato: solo chiede che nelle cosiddette «materie miste» che riguardano il cittadino come il credente, lo Stato non proceda autonomamente, ma riconosca invece alla Chiesa il suo ruolo necessario e insostituibile, dal quale ridonderà beneficio anche nella sfera civile, facendo sì che i vincoli stabiliti siano saldi e duraturi.



6. LO STATO E IL PRINCIPIO DI AUTORITÀ

Il magistero di Leone XIII sul problema dell'autorità alla luce della rivelazione e del diritto naturale cristiano si esplica attraverso diversi interventi, tra i quali due sono particolarmente rilevanti: le encicliche Diuturnum illud del 1881 e Immortale Dei del 1885.

Nella prospettiva di restaurazione della società nei suoi fondamenti, abbiamo già segnalato come al pontefice premesse in primo luogo distinguere ciò che era irrinunciabile per un cattolico da ciò che era soltanto accessorio. Occorreva, in altre parole, prima di passare all'azione, sgomberare il campo da polemiche e questioni venute a crearsi nel corso degli anni al fine di giudicare serenamente e spassionatamente la delicata situazione da modificare. Ad esempio, in campo cattolico fervevano ancora nell'ultimo quarto dell'Ottocento - soprattutto in Francia - le polemiche sul cosiddetto legittimismo (le correnti politiche che rivendicavano il potere ai sovrani legittimi pre-rivoluzionari) e sul legame tra questo e la restaurazione cristiana della società. Ebbene, Leone XIII non esiterà, in materia, a disilludere non pochi cattolici di valore ricordando, proprio a partire dalla Diuturnum, che per il cristianesimo nessuno dei regimi, né la monarchia e neppure la democrazia, può considerarsi privilegiato rispetto ad altri. E su questo tema, particolarmente ancora nei confronti dei francesi, insisterà più volte con un rigore quasi comparabile a quello impiegato nel denunciare al mondo gli errori del pensiero politico moderno.


La sovranità

Ma l'enciclica non si riduce a questo tema particolare: essa contiene anche una trattazione completa sul tema dell'autorità, partendo dalla questione della sua origine che, sulla base della filosofia classica e tomistica, viene rinvenuta nella stessa natura sociale dell'uomo. Essendo poi Dio l'autore della natura e il suo legislatore, è da Lui, in ultima analisi, che discende l'autorità umana: il che non significa che il depositario di essa nelle comunità umane più grandi non possa essere designato legittimamente da altri uomini. La forma poi che il regime politico assume può variare a seconda dell'epoca, del luogo o dell'indole dei sudditi, e tutte e tre le forme di governo tradizionalmente individuate dalla filosofia politica - monarchia, aristocrazia e democrazia - sono lecite in via di principio e buone, e la Chiesa le ammette tutte, purché ordinate al bene comune. Le argomentazioni addotte a sostegno di queste tesi sono abbondantissime: dai libri biblici dei Proverbi e della Sapienza, al vangelo di Giovanni, alla lettera di san Paolo ai Romani, ai Padri della Chiesa, soprattutto sant'Agostino.

Questi princìpi cozzavano frontalmente con le filosofie politiche di matrice illuministico-liberale, nonché con quelle socialiste, già in circolazione all'epoca di Leone XIII, secondo le quali il potere nasce solo dal popolo - concepito come somma di individui - e viene esercitato solo per delega e in nome di esso. È la tesi formulata nel celebre Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, che tanto influsso ha avuto sulla Rivoluzione francese e, anche, sulla nascita del totalitarismo moderno. L'enciclica giudica questa dottrina del patto originario (secondo cui ogni uomo, unico titolare di diritti per natura, si spoglia volontariamente di parte di essi a favore dell'autorità allo scopo di conseguire una maggiore libertà) come falsa e fantastica, in quanto storicamente non verificabile; inoltre, ancora, falsa di principio, in quanto la socialità dell'uomo è vista come opzionale e non come necessaria.


Autorità e società

Quale deve essere, invece, il corretto rapporto dell'individuo con l'autorità legittima? L'obbedienza all'autorità è per il cittadino e per il cristiano un obbligo di coscienza, anche se non assoluto e senza limiti: l'autorità è infatti un servizio reso alla comunità per il suo perfezionamento. Se essa si allontana da tale fine e viene esercitata, ad esempio, in nome di interessi personali o contro la legge di Dio, vale per i cristiani - come già ai tempi dell'impero di Roma - il precetto scritturale che afferma: «è necessario obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At., 5, 29).

L'apogeo della concezione cristiana dell'autorità viene dal pontefice individuato nel medioevo europeo: «Quando poi la civile società come suscitata dalle ruine dell'Impero romano risorse alla speranza della cristiana grandezza, i Pontefici Romani, istituito il sacro impero, consacrarono in modo singolare la politica potestà. Una nobiltà grandissima s'aggiunse con ciò al principato. [...]». Tanto l'assolutismo regio - più o meno «illuminato» - che mira a svincolare l'autorità del principe dalla legge di Dio, quanto le dottrine politiche del democratismo, del liberalismo e del socialismo, vengono considerate erronee e fonti sicure di mali per le società, non ultimo tra i quali la «crisi d'autorità», lamentata allora (oltre cento anni fa!) anche da ambienti liberali ostili al cristianesimo.


Lo Stato cristiano

Al tema dei caratteri di uno Stato cristiano è dedicata, quattro anni più tardi, l'enciclica Immortale Dei. A differenza di quanto sostiene il cosiddetto «diritto nuovo» - cioè il diritto pubblico costituzionale del tempo, d'ispirazione liberale -, uno Stato cristiano deve modellare la propria autorità su quella paterna di Dio, esercitarla a esclusivo vantaggio di tutti e, inoltre, deve fare esplicita professione di cristianesimo - nelle forme possibili a una persona giuridica - anche fino al punto di rendere a Dio un culto pubblico. Un esempio di statista autenticamente cattolico veniva offerto fino a pochi anni prima, in un contesto di regime non monarchico bensì repubblicano parlamentare, dal presidente dell'Ecuador, Gabriel Garcia Moreno, che consacrò pubblicamente il suo paese al Sacro Cuore. Uno Stato cattolico deve, infine, cooperare in armonia con la Chiesa, dato che i soggetti delle due potestà sono sempre gli stessi: gli uomini.

Nell'enciclica di Leone XIII è contenuto anche il celebre panegirico della cristianità medioevale - che conobbe tra l'altro tutte le forme di governo in tesi possibili - che inizia con «Fu già da tempo che la filosofia del Vangelo governava gli Stati […]» Il «diritto nuovo», viceversa, propugna la separazione dell'autorità civile dalla Chiesa, la sovranità popolare, la libertà civile in senso relativistico, rifiuta allo Stato contenuti e finalità etici e vede la Chiesa come semplice associazione di diritto comune. Leone XIII non può fare a meno, a questa stregua, di invitare i cattolici a rifiutarlo e se possibile a espungerlo dalle costituzioni delle nazioni, soprattutto di quelle di più antico e radicato cristianesimo. Ciò non significa altresì che il papa condanni i regimi parlamentari, la partecipazione dei cittadini al governo, la tolleranza dei culti non cattolici e non apprezzi e non difenda una retta e conveniente libertà o rigetti il progresso scientifico e tecnologico moderno; al contrario, incoraggia tutto questo, ma respinge le ideologie, le visioni del mondo, ad esso retrostanti, soprattutto quando queste vengono spacciate come parte integrante del progresso materiale stesso.


Un magistero politico

Da quanto sopra detto sembra emergere con chiarezza che, anche se la Chiesa non si occupa direttamente di politica, esiste un ben preciso e vasto magistero politico, vincolante negli stessi limiti del restante magistero ordinario della Chiesa, e che, quindi, non è lecito ridurre la dottrina sociale della Chiesa al solo ambito sociale ed economico: la morale sociale cattolica, infatti, non investe soltanto le diverse articolazioni del corpo sociale, ma anche, necessariamente, la testa di esso, cioè lo Stato.


«QUESTO È SIGNORE, IL VOSTRO POPOLO»

Atto di consacrazione dell'Ecuador al Sacro Cuore pronunciato il 25 marzo 1874


«Questo è, Signore, il vostro popolo. Sempre, Gesù mio, vi riconoscerà come suo Dio, Non volgerà i suoi occhi ad altra stella che non sia quella di amore e di misericordia che brilla in mezzo al vostro petto, santuario della divinità, arca del vostro Cuore. Guardate, Dio nostro!: genti e nazioni potenti trapassano con molti acuti dardi il dolcissimo seno della vostra misericordia. I nostri nemici insultano la nostra Fede, e si prendono gioco delle nostre speranze, perché le abbiamo riposte in voi. E tuttavia, questo vostro popolo, il suo capo, i suoi legislatori, i suoi pontefici, consolano il vostro Vicario, asciugano le lacrime della Chiesa: e, confondendo la empietà e la apostasia del mondo, corrono a perdersi nell'oceano di amore e di carità che scopre loro il vostro soavissimo Cuore.

«Sia dunque, Dio nostro!, sia il vostro Cuore il faro luminoso della nostra Fede, l'àncora sicura della nostra speranza, il simbolo delle Vostre bandiere, lo scudo impenetrabile della nostra debolezza, l'aurora bella di una pace imperturbabile, il vincolo stretto di una concordia santa, la nube che feconda i nostri campi, il sole che illumina i nostri orizzonti: insomma, la vena ricchissima della prosperità e della abbondanza, delle quali abbiamo bisogno per elevare templi e altari da cui brilli, con eterni e pacifici splendori, la sua santa e magnifica gloria.

«E, poiché ci consacriamo e ci affidiamo senza riserva al vostro Divino Cuore, moltiplicate senza fine gli anni della nostra pace religiosa; allontanate dai confini della patria la empietà e la corruzione, la calamità e la miseria. La vostra Fede detti le nostre leggi; la vostra giustizia governi i nostri tribunali; la vostra clemenza e la vostra fortezza sostengano e dirigano i nostri capi; la vostra sapienza, la vostra santità e il vostro zelo rendano perfetti i nostri sacerdoti; la vostra grazia converta tutti i figli dell'Ecuador, e la vostra gloria li coroni nella eternità, affinché tutti i popoli e tutte le nazioni della terra, contemplando, con santa invidia, la vera fortuna e sorte del nostro, si accostino a loro volta al vostro Cuore amante, e dormano il sonno tranquillo della pace, che offre al mondo questa Fonte pura e questo Simbolo perfetto dell'amore e della carità. Così sia.”


GABRIEL GARCIA MORENO


Il 30 gennaio 1985, in occasione della visita in Ecuador, Giovanni Paolo II ha rinnovato l'atto di consacrazione della nazione al Sacro Cuore, ripetendo quasi integralmente le parole usate mercoledì 25 marzo 1874.



7. LA QUESTIONE SOCIALE


La cosiddetta «questione sociale», cioè il problema inerente alla condizione del lavoro umano e della vita delle classi lavoratrici nell'epoca del distacco della società dal cristianesimo, viene affrontato dai cattolici assai prima che Leone XIII si pronunci con l'enciclica che più è rimasta nella memoria storica anche del mondo profano, la Rerum novarum.


Prima della Rerum novarum

Fin dai primi anni dell'Ottocento, infatti, le dure e talvolta tragiche condizioni dei lavoratori in seguito alla rivoluzione industriale, avevano attirato l'attenzione del mondo cattolico in tutti i paesi d'Europa ed era nato, di conseguenza, un vero e proprio movimento di iniziative, per alleviare e sanare le piaghe dei ceti umili. Questo slancio, che precorre di decenni il movimento socialista, è illustrato - lasciando da parte figure di santi come Giovanni Bosco o Francesco Faà di Bruno, - da nomi ormai celebri, come quelli del cardinale Gaspar Mermillod in Svizzera, del cardinale Henry Manning in Inghilterra, del barone Karl von Vogelsang in Germania, del visconte Albert de Mun e di monsignor Charles Freppel in Francia. La Rerum novarum non segna, dunque, la nascita del movimento sociale cattolico bensì soltanto l'occasione per un suo rinnovato impulso.

Essa non costituisce, peraltro, neppure il momento della nascita della dottrina sociale cristiana. In realtà, quest'ultima, le cui fonti sono la rivelazione, la retta ragione e l'esperienza storica, esiste da quando esiste la Chiesa e la sua struttura di princìpi è una e non può mutare: possono soltanto variare nel tempo la modalità e la misura della sua esplicitazione. Possiamo dire che la dottrina della Chiesa cattolica riguardo alla società umana è rimasta tanto più implicita quanto più essa veniva incarnata nella realtà: che senso avrebbe avuto, infatti, un'enciclica sociale durante i secoli della cristianità, quando - almeno in tesi - la fede e il diritto naturale cristiano permeavano radicalmente il potere, l'economia, il diritto, lo stesso modo di fare la guerra? Viceversa, dopo la Rivoluzione francese e con i regimi liberali, con il cosiddetto «diritto nuovo», come avrebbe potuto la Chiesa astenersi dall'agire, prima, e poi dall'intervenire per illuminare le coscienze?

Una questione preliminare va infine chiarita ed è quella del nesso tra il magistero sociale di Leone XIII e quello politico; mai ricordato o al massimo relativizzato, restringendolo a prese di posizione in seno al dibattito del suo tempo. È proprio l'esordio della Rerum novarum che lo chiarisce, laddove il pontefice afferma che «L'ardente brama di novità che da gran tempo ha incominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall'ordine politico passare nell'ordine congenere dell'economia sociale», rivelando la piena consapevolezza che i mali sociali non erano scindibili da quella crisi dell'autorità già lucidamente denunciata e analizzata dal papa.


Sulla «questione operaia»

L'enciclica Rerum novarum, promulgata il 15 maggio 1891 con il sottotitolo «Sulla condizione degli operai», è non solo un intervento autorevole su questo tema, bensì un ampio riepilogo dei princìpi cattolici riguardo a tutto l'ordine delle realtà socio-economiche.

Il papa anzitutto definisce il problema: «i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell'industria; le mutate relazioni tra padroni e operai; l'essersi in poche mani accumulata la ricchezza e largamente estesa la povertà […]; questo insieme di cose e i peggiorati costumi hanno fatto scoppiare il conflitto». Quindi Leone XIII passa senz'altro ad individuarne le cause remote, da un lato il venire meno delle istituzioni socio-economiche della cristianità medioevale, cioè dei corpi sociali intermedi, cioè ancora, in tema di lavoro, l'infrastruttura corporativa; dall'altro, il prevalere nella società delle dottrine «moderne», individualistiche e professanti un falso concetto della persona umana e della libertà. La caduta di entrambi questi argini all'avidità dell'uomo ha condotto allo smantellamento degli antemurali classici che proteggevano soprattutto le classi più basse, e quindi ha favorito l'immiserimento, la inurbazione di queste ultime, e la loro caduta in condizioni di sostanziale oppressione, alla mercé di un capitale avido e talora «anonimo e vagabondo».

La pretesa soluzione socialista della «questione operaia», sempre secondo la Rerum novarum, è da rigettarsi in quanto falsa e peggiore del male che vorrebbe curare: la sola soluzione possibile richiede il contributo concorde della Chiesa e dello Stato, e la costituzione di associazioni tra i lavoratori stessi.


Socialismo e proprietà privata

Il socialismo è rifiutato - e nuovamente condannato - soprattutto perché vuole sopprimere la proprietà privata, soppressione che, secondo Karl Marx, costituisce la quintessenza e la sintesi stessa di tutto il socialismo. La proprietà, viceversa - qui Leone XIII inserisce una delle più ampie e profonde argomentazioni a favore del diritto di proprietà di tutta la dottrina sociale della Chiesa - è indispensabile per l'uomo: senza possibilità di acquisire e conservare la proprietà, il lavoro umano stesso è frustrato in radice; il diritto di provvedere non solo al bisogno momentaneo ma anche a quello futuro, proprio e dei discendenti, è intimamente connesso alla natura umana, antecedente ai diritti civili e non può essere negato senza ferire profondamente l'uomo. Se Dio ha destinato i beni creati a tutti gli uomini - è la dottrina cui corrisponde l'espressione, spesso fraintesa, del «comunismo primitivo» -, non è meno vero che ha stabilito la proprietà come modalità naturale di fruizione di essi da parte dell'uomo. L'abolizione della proprietà, poi, priverebbe la libertà dell'uomo e della famiglia delle difese necessarie da costrizioni esterne, non esclusa quella dello Stato. Infine, afferma Leone XIII  con una lucidità che si può definire profetica se si pensa che cento anni or sono non esistevano ancora esperienze di «socialismo reale» - il socialismo è una causa di impoverimento generale delle società; dalla distruzione del capitale materiale si passerebbe alla distruzione del «capitale» in senso lato (conoscenze, esperienze tecniche, virtù, talenti) che sul primo si appoggia; lo Stato dilaterebbe oltre misura la propria sfera di controllo sociale; lo spirito di iniziativa individuale ne sarebbe mortificato e nascerebbero la passività e la rassegnazione: «Si aprirebbe la via agli astii, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, tolte all'ingegno e all'industria individuale ogni stimolo, inaridirebbero e la sognata uguaglianza, non altro sarebbe di fatto che una condizione universale di abbiezione e di miseria». Come non pensare a quanti lutti, sofferenze e ingiustizie prodotti dal socialismo realizzato, il mondo si sarebbe risparmiato se le parole di Leone XIII non fossero cadute nel vuoto?


Ostacoli e rimedi

La soluzione vera si potrà avere ascoltando la parola della Chiesa, allorché essa ricorda le stesse verità di ragione, come la provvidenzialità e la non ingiustizia intrinseca delle differenze sociali, la necessaria inerenza del lavoro  anche prima del peccato originale  alla condizione umana, la radicale contrapposizione della lotta di classe al principio di organicità sociale. E, ancora, quando essa richiama l'insegnamento del Vangelo, ammonendo sia i datori di. lavoro che i lavoratori a rispettare gli obblighi di giustizia e di carità reciproci.

Anche lo Stato, secondo Leone XIII, può fare molto, soprattutto uno Stato sul modello di quello delineato nella Immortale Dei, attraverso la promozione effettiva del bene comune, l'attuazione di una efficace giustizia distributiva, non ingerendosi ma intervenendo in maniera sussidiaria nei confronti delle famiglie e dei gruppi sociali, tutelando e diffondendo la proprietà, intervenendo nei conflitti di lavoro al fine di scongiurare la calamità dello sciopero, imponendo e difendendo il riposo festivo o, comunque, sufficiente, soprattutto per i più deboli (donne e fanciulli), sforzandosi di istituire un «giusto salario» e favorendo il risparmio dei lavoratori. Infine, solo associandosi tra loro e con i propri datori di lavoro, per gli scopi più diversi purché nei limiti del rispetto della legge e della religione, i lavoratori potranno ricostituire legami di mutuo sussidio e una infrastruttura che, se non sarà come quella dei «secoli della fede», sarà comunque a questi ispirata, al fine di proteggerli e di far loro validamente affrontare la condizione lavorativa nel mondo moderno.

In ultima analisi, però, secondo Leone XIII, il rimedio alla questione operaia «non può venire che dalla religione» e «la salvezza desiderata deve essere principalmente frutto di una effusione di carità [...] che compendia in sé tutto il Vangelo e che […] è il più sicuro antidoto contro l'orgoglio e l'egoismo del secolo». Ed è questa la condizione - al di là dei principi e delle tecniche - per l'attuazione di tutta la dottrina sociale cristiana, così come lo fu storicamente, attraverso l'opera e il sacrificio di innumerevoli santi e di uomini retti, nei secoli della cristianità.


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APPENDICE AL PARAGRAFO 7 

DEL CAPITOLO II


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EVENTI POLITICI DURANTE

IL PONTIFICATO DI LEONE XIII


1875-1914

La politica imperiale britannica, accompagnata da un'intensa attività commerciale e finanziaria su scala internazionale, porta al British Empire, che trova giustificazione ideologica nella concezione puritana, la quale prevede la chiamata a portare e promuovere nel mondo il progresso (cfr. Carlyle, Kipling, etc.).


1878

Congresso di Berlino: indipendenza nazionale per Romania, Serbia e Montenegro.


1882

L'Italia entra a far parte della Triplice Alleanza con la Germania e l'impero austro-ungarico.


1889

Nel centesimo anniversario della Rivoluzione francese viene fondata a Parigi la II Internazionale Socialista, con un ufficio permanente a Bruxelles; essa è l'erede della I Internazionale fondata nel 1864 ed entrata in crisi qualche anno dopo la Comune di Parigi. Durerà fino allo scoppio della prima guerra mondiale.


1890

Con il licenziamento di Bismarck, la Germania di Guglielmo II attua la «politica delle mani libere», caratterizzata da eccessiva fiducia nella propria forza militare. Il risultato è l'isolamento internazionale.


1892

A Genova viene fondato il Partito Socialista Italiano che sancisce la definitiva rottura del movimento socialista con quello anarchico.


26-10-1896

Dopo ripetute sconfitte italiane nella guerra d'Africa, viene stipulato il Trattato di Addis Abeba con la rinuncia italiana al protettorato sull'Abissinia.


1897

A Basilea si svolge il primo Congresso mondiale sionistico che mira alla «creazione per il popolo ebraico di una sede in Palestina garantita dal diritto pubblico».


29-7-1900

A Monza è assassinato Umberto I dall'anarchico Gaetano Bresci. Gli succede Vittorio Emanuele III.III . PIO X, UN PAPA CHE VERRÀ PROCLAMATO SANTO (1903-1914)


1. La vita, il pontificato


L'attività dottrinale e pastorale di Leone XIII era stata caratterizzata da un'accorta prudenza politica nei rapporti con gli Stati liberali europei e da un grande sforzo magisteriale per dotare i cattolici di un efficace apparato culturale, al fine di affrontare i problemi posti dalla secolarizzazione del pensiero e della vita nell'epoca della Rivoluzione. Gli succede Pio X, che si trova a dover affrontare soprattutto l'acuirsi della crisi interna alla Chiesa a causa del diffondersi del movimento modernista.


Giuseppe Sarto, da Riese

Giuseppe Melchiorre Sarto nasce a Riese, nella pianura veneta, il 2 giugno 1835, da una famiglia profondamente religiosa, nella quale il padre, nonostante dovesse lavorare duramente per sfamare i dieci figli - due dei quali moriranno in tenera età - assisteva quotidianamente alla Messa e alla sera spiegava il catechismo alla famiglia. La vocazione sacerdotale di Giuseppe viene aiutata dall'esempio e dall'educazione ricevuta dalla madre oltre che dall'aiuto del parroco di Riese, don Tito Fusarini. Ordinato sacerdote nella cattedrale di Castelfranco Veneto il 18 settembre 1858, sarà cappellano di Tombolo e parroco di Salzano, entrambi in provincia di Treviso, e quindi canonico della cattedrale del capoluogo dal 28 novembre 1875.

Il 16 novembre 1884 viene consacrato vescovo e il 19 aprile dell'anno successivo farà il suo ingresso nella sede episcopale di Mantova; creato cardinale il 12 giugno 1892, entra a Venezia come patriarca il 24 novembre 1894.

Il cardinale Giuseppe Sarto diventa papa il 4 agosto 1903, al termine di un conclave divenuto famoso per il veto posto dall'imperatore d'Austria Francesco Giuseppe - attraverso una lettera letta in assemblea dal vescovo di Cracovia, cardinale Jan Puzyna - all'elezione al soglio pontificio del cardinale Mariano Rampolla, segretario di Stato di Leone XIII. Accetta il pontificato dopo una certa resistenza - «come una croce» dirà al cardinale decano Luigi Oreglia che lo interrogava secondo la prassi prevista dal diritto canonico - e sceglie il nome da pontefice con questa motivazione: «Poiché devo soffrire, prendo il nome di quelli che hanno sofferto: mi chiamerò Pio», ricordando la persecuzione subìta dal predecessore Pio VII da parte di Napoleone.

Uno dei primi atti del pontificato sarà, il 20 gennaio 1904, la Costituzione Commissum nobis con la quale viene abolito il veto utilizzato dall'imperatore d'Austria nei confronti del cardinale Rampolla: la relativa questione era stata affidata dal papa al futuro segretario di Stato di Pio XI, il monsignor Pietro Gasparri, esperto nelle materie giuridiche, e questi a sua volta aveva incaricato per una prima stesura don Eugenio Pacelli, il futuro papa Pio XII.


«Instaurare omnia in Christo»

Dopo aver scelto come segretario di Stato monsignor Raffaele Merry del Val - una personalità complementare alla sua, per le origini aristocratiche del cardinale e per il fatto che proveniva dalla diplomazia pontificia senza essere passato attraverso tutte le tappe del ministero sacerdotale, come papa Sarto - Pio X definisce il programma dell'azione pastorale e affronta i due principali ostacoli per la sua realizzazione.

Infatti, nella prima enciclica E supremi apostolatus, del 4 ottobre 1903, spiega come caratteristica del pontificato sarà quella di cercare l'instaurazione di tutte le cose in Cristo, affinché il mondo si lasci guidare dalla Chiesa, e questa guardi a Cristo come Cristo a Dio. Ma questo progetto incontra due ostacoli, secondo il papa: l'ignoranza religiosa, riscontrabile anche nelle classi alte e causa in moltissimi della perdita della fede, e il diffondersi anche tra il clero di una «certa nuova scienza», che favorisce l'estendersi del razionalismo; questa preoccupazione, già presente dalla prima enciclica, diventerà sempre più intensa e sarà alla base della lotta contro l'eresia modernista.

La realizzazione della divisa ricavata da san Paolo, «instaurare omnia in Christo», necessitava dunque dell'incremento dell'insegnamento catechistico, per superare l'ignoranza religiosa, e della lotta contro il modernismo e i modernisti, che si erano installati in posti significativi all'interno delle strutture ecclesiastiche, per esempio nelle cattedre dei seminari, da dove potevano influenzare agevolmente il mondo cattolico e soprattutto determinare in molti aspetti la formazione dei futuri sacerdoti.

Naturalmente, sia la realizzazione del programma pastorale che la rimozione degli ostacoli predetti richiedevano la rivitalizzazione dei cattolici, sia sacerdoti che laici, che avrebbero poi dovuto concretamente attuare questo progetto. Come aveva scritto nella prima enciclica, questa consegna era rivolta anche al laicato, perché «i fedeli tutti, senza eccezione, [...] debbono darsi pensiero degli interessi di Dio e delle anime».


Tre modelli da imitare

Ai vescovi, il papa indica tre esempi ai quali conformare in modo particolare la loro azione pastorale: san Gregorio Magno, alla rievocazione del quale dedica l'enciclica Jucunda sane del 1904, dove fra l'altro ribadisce le indicazioni cui attenersi in materia di musica sacra, già contenute nel motu proprio del 22 novembre dell'anno precedente. Lo scopo di Pio X consiste nel fare comprendere che la musica deve essere al servizio della liturgia e non viceversa, come sembra accadesse con frequenza all'epoca, quando non era difficile assistere a messe accompagnate da musica profana che attirava l'attenzione dei fedeli più della celebrazione stessa.

La seconda figura che Pio X indica ai vescovi come modello è il monaco sant'Anselmo d'Aosta, arcivescovo di Canterbury dal 1033 al 1109, del quale papa Sarto ricorda la vita, l'attività pastorale e il grande tentativo dottrinale di presentare la ragionevolezza della fede; in occasione dell'ottavo centenario della morte del santo vescovo, il papa scrive l'enciclica Communium rerum, nel 1909.

Il terzo esempio additato è quello dell'arcivescovo di Milano san Carlo Borromeo, con l'enciclica Editae saepe Dei del 1910. Le indicazioni contenute in quest'ultima sono molto utili per comprendere il modo di pensare del papa a proposito della crisi della Chiesa: egli ricorda infatti che in ogni tempo la Provvidenza divina suscita nella Chiesa persone adeguate per rispondere ai problemi del tempo, e come suscitò san Carlo per fare fronte all'eresia protestante, così saprà fare oggi di fronte ad un'eresia tanto più pericolosa e sottile in quanto opera all'interno della Chiesa stessa, fingendo che le condanne non la riguardino. Quest'ultima infatti è la caratteristica più singolare del modernismo, che lo distingue per esempio dal protestantesimo, come avremo modo di vedere in un successivo paragrafo. Lo scopo del vescovo, spiega papa Sarto citando san Carlo, consiste nel vigilare affinché l'eresia non penetri nel gregge affidatogli, e nel ricacciarla, con ogni sforzo, qualora vi fosse penetrata.

Pio X sarà sempre inflessibile per quanto riguarda la custodia del deposito affidato alla Chiesa dal Signore e per l'obbedienza dei sacerdoti ai loro pastori: la profonda mitezza del tratto e la grande bontà così documentate da innumerevoli testimonianze, e che sono sempre state percepite dai fedeli anche prima dell'elezione al soglio pontificio, non devono essere mai confuse con la debolezza nell'esercizio del ministero o con la disponibilità al compromesso con l'errore. Tutto ciò appare in modo evidente nella fermezza con la quale affronta il modernismo e la crisi dei rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica francese, quando dimostra che, se necessario, si deve «rinunciare ai beni della Chiesa per il bene della Chiesa».

Con l'enciclica Pleni animo del 2 luglio 1906, il papa ricorda ancora ai pastori la necessità di vincere l'insubordinazione del clero, allora particolarmente diffusa, e raccomanda una particolare prudenza nell'ordinazione di nuovi sacerdoti, anche perché - sorprendentemente per chi considera la situazione di oggi - in molte diocesi «il numero dei sacerdoti è di gran lunga superiore alle necessità dei fedeli».

A tutti i sacerdoti, infine, il papa esprime la propria preferenza per una predicazione che privilegi l'istruzione catechistica e quella di natura morale rispetto alle conferenze, peraltro utili, ma poco adatte al pulpito.


Per vivificare l'azione popolare

«In un'udienza ai cardinali, il papa aveva domandato:

- Qual è oggi la cosa più importante per la salvezza della società?

- Aprire molte scuole, rispose uno.

- Moltiplicare le chiese, soggiunse un altro.

- Promuovere le vocazioni ecclesiastiche, rispose un terzo.

- No - commentò Pio X - quello che presentemente è necessario è di avere un gruppo di laici, virtuosi, illuminati, risoluti e veramente apostoli (cit. in Luigi Cocco, Cuore di un papa, breve vita aneddotica di S. Pio X, 9 ed., Ed. Paoline, Modena 1967, p. 100).

Il papa si rendeva conto che «instaurare omnia in Christo» diventava un programma possibile soltanto con il coinvolgimento del laicato cattolico, superando le divisioni che l'incremento della corrente democratico-cristiana aveva cominciato a determinare nelle associazioni di militanti verso la fine del pontificato di Leone XIII, particolarmente in Italia, ma anche in altre nazioni europee. Per questo dedica molti documenti del magistero a chiarire punti dottrinali nel campo sociale e politico, cosciente che le divergenze operative hanno la loro origine nel campo teoretico. Il primo di questi documenti è il motu proprio del 18 dicembre 1903, che il papa stesso definisce Ordinamento fondamentale dell'azione popolare cristiana. Si tratta di diciannove tesi di dottrina sociale ricavate dalle encicliche di Leone XIII Quod apostolici muneris, Rerum novarum e Graves de communi e dalla Istruzione della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari del 27 gennaio 1902.

Ai cattolici italiani, papa Sarto dedicherà un'attenzione particolare - come vedremo in un apposito capitolo - arrivando a soluzioni anche drastiche, come la soppressione dell'Opera dei Congressi, resa necessaria dalla gravità della situazione.

Il papa si rivolge anche ai cattolici tedeschi con l'enciclica Singulari quadam del 24 settembre 1912, con la quale interviene nei confronti dei vescovi di quella nazione per dare indicazioni a proposito di un dissenso sorto fra due gruppi di cattolici, circa la possibilità o meno di partecipare a sindacati interconfessionali. Nel documento, il papa invita a privilegiare le associazioni composte soltanto da cattolici, ma non esclude la possibilità di entrare a far parte di sindacati misti quando questo venga ritenuto utile per ragioni sociali o salariali e purché si prendano le necessarie precauzioni di fronte ai pericoli insiti in questo tipo di scelta.


Le riforme e i loro frutti

Ma come era possibile restaurare tutte le cose in Cristo e ricostruire la civiltà cristiana «sulle sue naturali e divine fondamenta contro i rinascenti attacchi della malsana utopia» (lettera Notre charge apostolique all'episcopato francese del 15 agosto 1910) senza la riforma personale dei laici, che avrebbero dovuto partecipare a questa straordinaria opera di apostolato? Il papa sa che questo grande ideale per i cattolici è raggiungibile soltanto con la grazia di Dio e che quest'ultima si ottiene attraverso la preghiera e i Sacramenti, in primis quello dell'Eucarestia. La conseguenza di questo ragionamento si attua, fra l'altro, nella promozione della comunione quotidiana per i fedeli e di quella anticipata per i bambini, attraverso i decreti eucaristici voluti dal papa dell'Eucarestia, come Pio X verrà chiamato. Lo scopo di queste riforme - fra le più importanti del pontificato per le straordinarie conseguenze che avranno nella vita di pietà dei fedeli - era quello di favorire, attraverso l'accostamento frequente al sacramento eucaristico, un reale mutamento nelle tendenze dei fedeli rispetto al laicismo dominante nella cultura e nel costume. Infatti, soltanto dalla santificazione dei singoli, cioè dalla loro «incorporazione» in Cristo, sarebbe potuta venire la riforma della società.

A tutti, infine - e sempre nella stessa prospettiva della riforma personale strettamente legata a quella sociale - il papa raccomanda la devozione alla Madonna con l'enciclica Ad diem illum laetissimum del 2 febbraio 1904, in occasione del cinquantesimo anniversario della proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione. In essa, il papa non si limita a commemorare, ma rammenta come l'immacolato concepimento di Maria ricordi a tutti i popoli l'altrettanto fondamentale «punto fermo» del peccato originale, presente in ogni uomo dalla nascita e così insistentemente negato dalla cultura moderna.

Pio X chiuderà la sua esistenza terrena il 20 agosto 1914, poco dopo aver firmato l'esortazione ai popoli del mondo per metterli in guardia contro le conseguenze del conflitto mondiale ormai deflagrato.

Trentasette anni dopo, nel giugno del 1951, verrà beatificato e infine, nel maggio del 1954, verrà, da Pio XII, proclamato santo.

 


2. LA CRISI MODERNISTA


Di fronte alle difficoltà che i cattolici incontrano nel promuovere la penetrazione del messaggio evangelico nel mondo ostile del XIX e dell'inizio del XX secolo, nasce il tentativo di adattare la dottrina cattolica di sempre alle ideologie dominanti.

È il modernismo, definito da Pio X «il compendio e il veleno di tutte le eresie che tende a scalzare i fondamenti della fede e ad annientare il Cristianesimo» (allocuzione concistoriale del 15 aprile 1907). Si può dire che esso nasca da un peccato contro la speranza nell'azione salvifica di Cristo, speranza promossa attraverso la predicazione della dottrina della Chiesa: se quest'ultima non convince più gli uomini del tempo, allora, secondo i modernisti, deve essere «adattata» allo spirito dell'epoca, per diventare comprensibile ed essere accettata.

Da questi presupposti derivano alcune tesi fondamentali del modernismo: adattamento ed evoluzione dei dogmi, immanentismo e vitalismo della fede, sottomissione dell'idea di Dio alla verifica della scienza e separazione della Chiesa dallo Stato.

Il problema-modernismo ha ancora oggi una grande rilevanza nel mondo cattolico: lo dimostra, per esempio, una recensione abbastanza recente, scritta dall'ex-direttore de La Civiltà Cattolica padre Bartolomeo Sorge, di un libro sui rapporti fra Pio X e il cardinale di Milano Andrea Ferrari (cfr. La Civiltà Cattolica, n. 3217 del 7 giugno 1984) che ha dato adito a forti polemiche intorno alla figura di papa Sarto.


La Pascendi e l'azione disciplinare contro il modernismo

Perché la polemica sul modernismo ritorna periodicamente e non si limita al solo aspetto storico? Il modernismo è una di quelle eresie che, come il giansenismo e a differenza del protestantesimo, vogliono operare in modo discreto all'interno della Chiesa, anche dopo la condanna pronunciata contro di esse dal magistero. È quello che accade dopo l'enciclica Pascendi dominici gregis con la quale, 1'8 settembre 1907, il papa non si limita a condannare il fenomeno, ma ne ricostruisce e descrive i contenuti dottrinali tanto fedelmente che più tardi uno dei capi del movimento modernista, l'inglese padre George Tyrrel, scriverà di riconoscere il modernismo nella descrizione tracciata nel documento pontificio (cfr. The Times, 30 settembre 1907). Dopo l'enciclica - e anche in seguito alle condanne ripetute negli anni successivi - i modernisti infatti continueranno a organizzarsi in modo discreto dentro la Chiesa per diffondere le loro idee: questo spiega perché l'attività pastorale promossa dal papa e dai suoi collaboratori contro il modernismo non poteva rimanere su di un piano soltanto dottrinale, ma doveva necessariamente essere portata anche nel campo disciplinare. Così, l'azione della Chiesa non si limita ad enunciazioni di principio raccolte nei documenti pontifici, ma fa seguire provvedimenti concreti nei confronti dei singoli teologi e propagandisti modernisti che «si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista», come scrive il papa sempre nell'enciclica Pascendi. Proprio a causa della segretezza del loro agire, essi dovevano essere individuati e scoperti e, a questo fine, Pio X si serve di numerosi collaboratori fra i quali diventerà particolarmente famoso monsignor Umberto Benigni, fondatore nel 1909 del Sodalitium Pianum, un organismo ristretto avente lo scopo di informare il papa sull'attività modernista nelle diverse diocesi del mondo, particolarmente per mezzo di un'agenzia di stampa che si chiamava La Correspondance de Rome.

Molti storici hanno voluto denigrare l'azione antimodernista promossa da Pio X accusandola di «caccia alle streghe», e attribuendola nella gran parte dei casi al fanatismo e alla ristrettezza di vedute dei suoi collaboratori, in primis di monsignor Umberto Benigni: un papa intransigente ma buono, circondato da un'entourage di uomini mediocri e violenti: questa è l'immagine diffusa. Ma la tesi non è sostenibile, sia perché il papa conosceva e sosteneva l'azione del Sodalitium Pianum, come per esempio dimostra l'esortazione scritta nel luglio 1912 e indirizzata direttamente a monsignor Benigni, sia perché in una lettera a un parroco, il 19 marzo 1911 - il papa trovava tempo anche per questo -, scriveva «che il S. Padre, per la grazia del Signore, è circondato da tali persone che, con sincerità e coscienza, lo coadiuvano, non gli tacciono niente di quello che si riferisce al governo della Chiesa, e che Egli è informato dell'andamento di tutte le diocesi non solo dell’Italia, ma del mondo, così da poter provvedere con l'aiuto di Dio a tutto» (in S. PIO X, Lettere, raccolte da Nello Vian, Gregoriana, Padova 1958, p. 369).


Il modernismo sociale

Il modernismo, ricostruito nella Pascendi soprattutto come un errore nel campo religioso, doveva inevitabilmente estendersi ad altri settori della vita umana. Infatti, il magistero di papa Sarto interverrà in modo particolare contro il modernismo nel campo politico-sociale con la lettera Notre charge apostolique del 25 agosto 1910, indirizzata all'episcopato francese per condannare il movimento democratico-cristiano Sillon guidato da Marc Sangnier. Come aveva fatto nella Pascendi, il papa ricostruisce le teorie filosofico-politiche alla base del movimento francese e ne condanna il contenuto utopistico; in particolare rifiuta il principio secondo cui soltanto la moderna democrazia potrebbe realizzare autenticamente i postulati del Vangelo, e denuncia il principio della sovranità popolare, in contrasto con il principio cattolico secondo il quale ogni autorità, quella politica compresa, discende da Dio.

La lotta contro l'eresia modernista caratterizzerà così tutto il periodo del pontificato e sarà un assillo costante del papa, il quale evidentemente si rendeva conto che la possibilità di raggiungere l'obiettivo del suo pontificato, instaurare omnia in Christo non poteva essere raggiunto se i cattolici non avessero ritrovato l'unità nelle verità della fede.


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APPENDICE AL PARAGRAFO 2 DEL CAPITOLO III


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«PERCHÈ COMBATTO IL MODERNISMO»


(Da una lettera di Pio X a monsignor Bonomelli)


[...l Voi quasi spaventato mi raccomandate moderazione nelle disposizioni contro il Modernismo.

Ora distinguiamo benissimo, il moderno, (fonte di studi severi e di ricerche diligenti) dal modernismo. Mi meraviglio che Voi troviate eccessive le misure prese per rattenere la fiumana, che minaccia di dilagare, mentre l'errore che si vuol diffondere ai nostri dì, è ben più micidiale di quello dei tempi di Lutero, perché arriva direttamente alla distruzione non della Chiesa soltanto, ma del cristianesimo, per cui in qualche luogo gli stessi protestanti hanno stabilito la Commissione di vigilanza, che ha deposto da poco tempo un Pastore convinto di modernismo. Sono con Voi nell'ammettere tutta la benignità e l'indulgenza nella applicazione delle pene; ma di fronte ad un male così grave non sono mai troppe le precauzioni, né severe le leggi, che prevenendo mettono in guardia senza far male ad alcuno.

E quindi fra tanti che sono infetti di questa pece non troverete che un solo Prete (il Murri) il quale avendo abusato di ogni pazienza e di tutte le misericordie non solo ha provocato, ma voluto il massimo dei castighi; mentre nel doloroso processo dei mesi passati provocato dall'apostata Verdesi fui biasimato perfino nel Tribunale di trattare con troppa generosità certi Preti dimessi dall'insegnamento, ai quali ho conservato gran parte dello stipendio, altri sospesi dalla Messa, ma che ricevono egualmente da me la quotidiana limosina, e tutti finalmente trattati con la massima carità e benevolenza.

Ma colle Vostre disposizioni così severe, Voi dite, fate degli apostati o degli ipocriti. Abbiamo pur troppo degli apostati, ma non condotti dalle leggi contro il Modernismo, e li compiangiamo; avremo degli ipocriti, e peggio per loro; ma non avremo almeno nel Clero dei maestri e predicatori dell'errore che condurrebbero in breve alla eresia tutto il mondo.

Mi ha recato poi non solo meraviglia, ma vero dolore la preghiera, che mi fate, di mettere fine al dissidio ed alla lotta, che v'è fra la Chiesa e l'Italia, aggiungendo che basta una mia parola per salvare tante anime.

Qual è questa prodigiosa parola che Voi desiderate da me?

Voi soggiungete subito, «che non dovrò mai compromettere la libertà della S. Sede. Su ciò nessuna concessione assolutamente. Ma altro è la libertà della S. Sede ed altro il mezzo per ottenerla ed assicurarla. Quella è cosa assolutamente necessaria, questo può e deve variare». Sono d'accordo perfettamente con Voi; ma ripeto qual è la parola che da me si aspetta?

Per parlare in termini chiari: la rinuncia al potere temporale. In tutto il mio pontificato ho voluto, che in nessuna lettera, in nessuna allocuzione si nominasse il potere temporale, per non dare argomento agli avversari (che però l'hanno sempre in bocca perché è un incubo che li opprime) a inveire contro la Chiesa ed il Papa. Ma data la rinuncia a questo mezzo, che la Provvidenza per tanti secoli ha voluto come baluardo alla libertà della Chiesa, qual altra cosa lo sostituisce per conseguire questo fine necessario?

E Voi mi rispondete subito: le Guarantige. - Assicurate da chi? Da un Governo che si cambia ogni mese e schiavo della setta, [massonica, ndr] - da un Parlamento nel quale i partiti estremi reclamano tutti i dì l'abolizione di ogni guarantigia, perché non è al potere temporale che si fa la guerra, ma aperta e manifesta allo spirituale volendo ad ogni costo distrutta la Chiesa.

Ah! se quelli che stanno al Governo potessero e volessero la vera libertà della Chiesa in quarant'anni avrebbero trattata ben altrimenti la Sede Apostolica e la persona del Papa! Non avrebbero tollerato che si facessero leggi, che impediscono il libero esercizio del ministero ecclesiastico, non avrebbero impediti i diritti sacrosanti della Chiesa persino nella educazione del Clero, non avrebbero tollerato la licenza sfrenata degli insegnamenti nelle pubbliche scuole, né permesso che la persona del Papa fosse trattata nei modi più sconci ed abbietti, nel Parlamento, nei giornali, nei pubblici uffici, fatto ludibrio alla furia del popolo persino dal primo Magistrato di Roma, che impunemente e quasi gloriosamente lo insulta del continuo nella sua autorità spirituale, impedendo poi, che la sola voce di un onesto faccia solenne protesta nel Senato.

E qui mi fermo, perché sarebbe da scrivere un volume, se si volesse enumerare tutte le angherie del Governo contro la S. Sede, che deve studiare ogni atto, ogni parola per non dare appiglio a nuove persecuzioni a tal punto che è tolta al Papa non solo la libertà di lamentarsi, ma anche quella di parlare, perché ogni sua parola, oltre essere derisa, eccita secondo loro alla violenza ed alla ribellione, e per poco il Papa è la causa di tutti i mali; delle discordie, delle rivolte e delle sediziose dimostrazioni.

Ma concediamo, che un Governo forte ed indipendente assicuri in modo assoluto le guarantige. Però il Papa non è dell'Italia soltanto, ma di tutto il mondo; e saranno paghe le altre Nazioni? Saranno soddisfatti i popoli cattolici, che qui hanno diritto di cittadinanza, e guardano a Roma come alla Patria universale? - E se l'Italia fosse in guerra con una nazione, come si troverebbe il Papa, che è Re della Pace e Padre di tutti i suoi figli a qualunque nazione appartengano? - Siamo proprio adesso nel caso che la S. Sede non può avere comunicazioni col Delegato di Costantinopoli dove per soprappiù, prendendo occasione dalle preghiere indette dai Vescovi per la cessazione della guerra, si è fatta correre laggiù la voce, che il Papa, il quale ha usato sempre ed usa con tutti il più delicato riserbo, benedice le armi italiane, e quindi nella Turchia si perseguitano non solo gli italiani, ma tutti i cattolici.

Ora vi dimando, caro Monsignore, se nelle presenti circostanze dopo una prova di quarant'anni, nei quali tutti i Governi d'Italia, che si succedettero, hanno trattato la S. Sede ed il Papa peggio assai di quello che avrebbe fatto il più accanito avversario, sia possibile pronunciare la parola, che Voi suggerite, e se la S. Sede possa rinunciare ai mezzi ordinarii della sua esistenza per tentare Iddio obbligando lo ad un miracolo.

Io voglio sperare che questi brevi riflessi Vi persuaderanno a non dare ulteriormente di tali suggerimenti, [...]».


(Da una lettera di Pio X al vescovo di Cremona mons. Geremia Bonomelli del 14-10-1911, in S. Pio X, Lettere raccolte da Nello Vian, Gregoriana, Padova 1958, pp. 375-379).


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MURRI, TRA POLITICA E MODERNISMO


Romolo Murri (1870-1944), sacerdote, animatore del movimento democratico-cristiano negli ultimi decenni del secolo XIX, è probabilmente l'esponente italiano più noto del fenomeno modernista.

Dotato di grandi capacità intellettuali e organizzative, studia sia in istituti ecclesiastici che in università statali; entra in conflitto con l'autorità ecclesiastica dopo aver profondamente influenzato il movimento cattolico italiano sia attraverso una intensa opera di pubblicistica culturale sia militando nell'Opera dei Congressi. Dopo la soppressione di quest'ultima nel 1904, fonda la Lega Democratica Nazionale tentando la via del partito aconfessionale. Nel 1907 viene sospeso a divinis; due anni dopo, in seguito alla decisione di candidarsi al Parlamento con l'appoggio di radicali e socialisti, viene scomunicato. Abbandonato anche dai seguaci più vicini, che sceglieranno di continuare l'azione culturale dentro la Chiesa, Murri si iscrive al gruppo radicale della Camera e nel 1912 si sposa con la figlia del presidente del Senato norvegese. Si avvicinerà alla filosofia di Giovanni Gentile e guarderà con simpatia ad alcuni aspetti del fascismo, prima di riconciliarsi con la Chiesa nel novembre del 1943. Redattore del quotidiano Il Resto del Carlino dal 1919 al 1942, è in questa veste che si trova a Napoli nel 1920 al secondo congresso del Partito Popolare Italiano, dove rilascia questa intervista (Giornale d'Italia, 10-4-1920), utile per capire come il «suo» modernismo andasse nella direzione del partito di don Sturzo.

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Intervistato da un inviato del Giornale d'Italia, che gli faceva presente come, con un poco di pazienza, il suo posto avrebbe potuto essere oggi quello di don Sturzo, cioè segretario del nuovo partito, Romolo Murri rispondeva:

«In un certo senso ciò è vero. Io lavorai per l'agitazione da parte dei cattolici del problema politico della libertà in cui vedevo una nuova e feconda esplicazione del cristianesimo; per l'autonomia politica dei cattolici e per la costituzione di un partito politico non confessionale: questa ultima era già fatta in embrione e ad essa oggi si appoggiano in gran parte quelli che oggi la conducono, a cominciare da don Sturzo.

«Vi furono dei momenti difficili nei quali fui lasciato quasi solo rivendicando l'autonomia di quelli stessi che oggi ne profittano. Ma le basi del partito erano gettate. Poi venne la reazione di Pio X."

«... E voi perdeste la pazienza."

«... No. Fu piuttosto Pio X che la perdette. Ad ogni modo era necessario che l'iniziatore si sacrificasse o che fosse sacrificato. Avviene sempre così, ma non me ne dolgo.»

«Tuttavia, scusate l'audacia: Non sentite che sareste voi in mezzo a costoro al vostro posto?»

«No. C'è un equivoco che importa dissipare e io veggo con piacere i frutti del mio lavoro, molto più che noto come questo enorme partito messo insieme in fretta, tessitura, tradizione, programma, gran parte dell'ufficialità e dello stato maggiore sono presi dalla democrazia cristiana di ieri […]».

«Lo confessarono in parte ieri mattina per atto di lealtà. Ma nel mio programma v'è ben altro, c'è quel che fu detto poi il modernismo; ossia una concezione nuova, idealistica e immanentistica del cristianesimo, detestata dalla Chiesa; una relazione spirituale profonda, e questa deve ancora venire. Evitare con cura ogni traccia di confessionalismo non vale finché la Chiesa è quella che è ed ha il programma che ha. La società contemporanea non può tornare alla religione di ieri. Bisogna che essa faccia sua l'essenza viva del cristianesimo, e forse alcuni congressisti più o meno oscuramente hanno questa convinzione. Ma essa è l'eresia di oggi e come l'eresia di ieri, ossia l'autonomia politica, è la verità di oggi, così l'eresia di oggi sarà la verità di domani. Il p[artito] p[opolare] è un problema risolto e un problema nuovo. Io ho un poco il diritto di rallegrarmi di quello che ho ottenuto e che si è fatto, ma attendo di più e vado più avanti e più lontano di coloro che si sono messi in marcia, e un tempo erano ai miei fianchi nel movimento di battaglia».



3. L'INSEGNAMENTO DELLE «COSE DIVINE»


Avendo svolto il suo ministero sacerdotale sempre a contatto con il popolo e con i problemi pastorali conseguenti, prima come cappellano e come parroco, poi come vescovo di Mantova e patriarca di Venezia, papa Sarto porterà nel suo pontificato il frutto delle preoccupazioni e delle esperienze maturate. Questo spiega l'estrema attenzione al tema dell'istruzione catechistica dei fedeli, al quale il papa dedica una delle sue prime encicliche, l'Acerbo nimis, del 15 aprile 1905.


L'enciclica Acerbo nimis

Pio X è convinto che la radice del rilassamento e della decadenza religiosa dei tempi sia da ricercarsi «nell'ignoranza delle cose divine», non soltanto tra i fedeli di bassa condizione - «scusabili talvolta perché soggetti al comando di inumani padroni, e con appena il tempo sufficiente per pensare a se e ai propri interessi» -, ma anche fra le persone colte, la cultura delle quali è limitata alle scienze profane. L'osservazione del papa non ha perso di attualità, se pensiamo che ai nostri giorni, nonostante la grande diffusione dell'istruzione scolastica e universitaria, l'ignoranza nelle cose divine è sicuramente aumentata rispetto ai tempi di Pio X, tanto da spingere i vescovi italiani a rilanciare la catechesi degli adulti, riproponendo un invito fatto da papa Sarto quasi un secolo fa.

L'enciclica Acerbo nimis spiega questa osservazione ricordando come la volontà dell'uomo moderno, fuorviata e accecata, ha un particolare bisogno della guida dell'intelletto, perché, se alla corruzione dei costumi si aggiunge l'ignoranza della fede, allora la conversione degli uomini diventa quasi impossibile.


Ai bambini ma anche agli adulti

A questo scopo, il papa raccomanda ai sacerdoti che l'istruzione dei fedeli sia il loro primo e principale dovere e ricorda che l'insegnamento del catechismo non può essere sostituito dalla spiegazione del Vangelo. Quindi il papa stabilisce che tutti coloro che hanno cura d'anime istruiscano i bambini in ogni festa religiosa dell'anno, per un'ora, spiegando loro il catechismo; la stessa cosa, in modo più approfondito, dovrà avvenire in occasione della preparazione dei bambini alla Penitenza, alla prima Comunione, alla Cresima. Nelle parrocchie poi, il papa ordina l'erezione canonica della Congregazione della Dottrina Cristiana, con la quale vuole far partecipare all'insegnamento del catechismo anche i laici, iniziando un fenomeno che si estenderà progressivamente nella vita della Chiesa e non soltanto per la diminuzione dei sacerdoti. Inoltre, nelle maggiori città, anticipando gli attuali Istituti di formazione teologica anche per laici, il papa vuole l'istituzione di scuole di religione destinate all'educazione della gioventù «che frequenta le pubbliche scuole, dalle quali è bandito ogni insegnamento religioso».

Infine, chiede a tutti i parroci di promuovere la spiegazione del catechismo anche agli adulti, distinguendola dalla omelia sul Vangelo della messa festiva e utilizzando allo scopo il Catechismo tridentino.


Il «Catechismo maggiore»

Due mesi più tardi, il 14 giugno 1905, papa Sarto dispone con una lettera al vicario di Roma l'adozione nelle parrocchie della diocesi di un catechismo popolare, la stesura del quale era stata personalmente seguita da lui stesso, redatto sulla base del catechismo utilizzato nelle diocesi di Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia e Toscana. Il papa auspica che venga adottato dalle diocesi di tutta la penisola e questo testo, chiamato Catechismo Maggiore, rimarrà per cinquant'anni la base dell'istruzione catechistica per gli adulti e, grazie a una versione ridotta e adattata predisposta negli anni successivi, anche per i bambini.



4. LA «RIFORMA EUCARISTICA»


Il Concilio di Trento aveva auspicato «che in ciascuna messa i fedeli che l'ascoltavano si comunicassero non solo spiritualmente, ma sibbene con ricevere il vero Sacramento Eucaristico». La diffusione nel XVII secolo dell'eresia giansenista e una certa permanenza dei suoi effetti ancora all'inizio del secolo ventesimo - con l'abitudine rigoristica presso alcuni fedeli di accostarsi alla Comunione di rado e in taluni casi soltanto una volta all'anno pur frequentando regolarmente la messa e pur essendo in stato di grazia - indeboliva fortemente la vita spirituale dei cattolici in quanto li privava della forza soprannaturale proveniente dalla grazia sacramentale.


Una bambina veneziana

Già nelle precedenti esperienze pastorali, papa Sarto aveva combattuto questa pericolosa tendenza cercando di favorire la Comunione frequente tra i fedeli e di anticipare la prima Comunione dei bambini. Si racconta per esempio che quando era patriarca di Venezia ricevette la visita di una mamma, con una bambina di sette anni, che chiedeva il permesso per la figlia di ricevere all'indomani la sua prima Comunione, cosa contraria a tutte le abitudini di allora. Il cardinale Sarto le fece una sola domanda: «Quante nature vi sono in Gesù Cristo?», «Due», rispose la bambina, «la natura divina e la natura umana». Allora il patriarca si rivolse al suo segretario dicendogli: «Scrivete al parroco di San Silvestro che domani ammetta questa piccina alla prima Comunione. Io stesso la comunicherò giacché devo portarmi alla chiesa per la cerimonia» (cit. in RENÈ BAZIN, Pio X, trad. il., Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1928, pp. 157-158).

Diventato papa, Pio X dispone l'applicazione di queste sue convinzioni. I decreti eucaristici che vengono promulgati durante il suo pontificato determineranno una grande svolta nella vita di pietà dei cattolici, nonostante le diffidenze e gli ostacoli che incontrano all'inizio in molte diocesi.

Il 20 dicembre 1905, la Sacra Congregazione del Concilio promulga il decreto sulla Comunione frequente approvato dal papa. Il documento, diviso in nove paragrafi, contiene questa affermazione: «La Comunione frequente e quotidiana, essendo desideratissima da Gesù Cristo e dalla Cattolica Chiesa, sia accessibile a tutti i fedeli a qualsivoglia classe e condizione appartengano; cosicché a nessuno, che trovisi nello stato di grazia ed abbia retta intenzione, può essa negarsi». Con due interventi successivi, il 14 febbraio 1906 e il 15 settembre 1906, la stessa Congregazione stabilisce che la Comunione frequente e quotidiana va raccomandata anche ai bambini che hanno fatto la prima Comunione, ricordando come questa pratica fosse molto diffusa nell'antichità e, nonostante sia entrata in disuso, non è mai stata condannata dalla Chiesa.

Rimaneva da definire soltanto l'età nella quale i bambini si sarebbero potuti accostare alla prima Comunione. Viene stabilita l'età di sette anni, cioè quando i bambini vengono ritenuti in grado di distinguere il pane eucaristico da quello materiale (decreto della S. Congregazione del Concilio Quam singulari, dell'8 agosto 1911). Lo scopo del decreto è quello di favorire l'accostamento dei bambini alla Comunione eucaristica prima che perdano l'innocenza, come non accadeva allora nella maggioranza dei casi, con la prima Comunione stabilita all'età di dodici o anche quattordici anni, conformemente alle abitudini del tempo.

Dopo i decreti, bisognava favorire la loro messa in pratica. A questo fine, già dall'aprile del 1905, viene istituita a Roma dai padri del SS. Sacramento una Lega sacerdotale della quale, sei anni dopo, faranno parte cinquantamila sacerdoti. Nello stesso senso, dopo il decreto che anticipa la comunione ai bambini, viene costituita sempre a Roma una Pia Unione per la Comunione dei bambini; gli stessi decreti, inoltre, conosceranno una maggiore applicazione grazie all'opera di sensibilizzazione sul punto svolta dai Congressi Eucaristici Internazionali, anche dopo la morte di Pio X, quando la Comunione frequente e quotidiana viene assunta dal Codice di Diritto Canonico, redazione di quest'ultimo, iniziata con il motu proprio Arduum sane mutus del 19 marzo 1904, si concluderà durante il pontificato di Benedetto con la promulgazione definitiva, nel 1917.


La Comunione come mezzo per acquistare la virtù

La riforma eucaristica voluta da papa Sarto si fonda teologicamente sul ritenere la Comunione non un premio per la vita virtuosa condotta, ma un mezzo per ottenerla; questo principio incontrava allora forti resistenze in chi pensava che per accostarsi frequentemente al banchetto eucaristico bisognasse romperla con il peccato veniale deliberato. Ammiratore di don Giovanni Bosco, grande apostolo della Comunione frequente e di quella precoce per i bambini, e continuatore dell'azione nello stesso senso iniziata da Leone XIII con l'enciclica Mirae caritatis del 28 maggio 1902, Pio X stabilisce che per accostarsi alla Comunione è necessario soltanto lo stato di grazia e la retta intenzione. Egli ritiene tanto importante la questione che, dal 30 maggio 1905 al 14 luglio 1907, interviene ben dodici volte in questa direzione, con decreti, lettere o discorsi. Oggi, a distanza di quasi un secolo, possiamo valutare l'importanza dell'opera di papa Sarto constatando la grande diffusione della Comunione frequente, anche se spesso accompagnata da un certo abbandono della pratica del sacramento della Confessione. Ciononostante, persiste in alcuni paesi, dove più intensa è stata la penetrazione giansenista, l'abitudine da parte di molte persone di frequentare quotidianamente la messa senza accostarsi all'Eucarestia.



5. PIO X E IL MOVIMENTO CATTOLICO IN ITALIA

di Gabriele Fontana


Quando il cardinale Giuseppe Sarto viene eletto pontefice - il 4 agosto del 1903 - il movimento cattolico in Italia si trovava già in una situazione di frattura latente. Organizzati nell'Opera dei Congressi, da poco tempo sotto la presidenza del conte Giovanni Grosoli, i militanti cattolici italiani mantenevano un'unità formale che però conosceva al suo interno una profonda divisione.


Intransigenti e democratici cristiani

Il congresso cattolico di Bologna, nel novembre 1903, palesa in pieno la gravità della contrapposizione fra la componente intransigente, che fa riferimento al presidente uscente dell'Opera, Giambattista Paganuzzi, e quella democratico-cristiana, capeggiata da don Romolo Murri.

La posizione degli intransigenti vuole mantenere saldo da una parte il legame tra l'azione sociale dei cattolici e la dottrina del magistero pontificio, e dall'altra appare legata all'osservanza del non expedit, cioè al rifiuto di partecipare alle elezioni politiche dopo l'occupazione di Roma da parte dell'esercito sabaudo.

I democratico-cristiani, al contrario, spingono verso una autonomia che dovrebbe assumere le forme del partito politico, semplicemente «ispirato» a valori cristiani e sostanzialmente indipendente dal movimento cattolico stesso. Di fatto, essi continuavano a ignorare il contenuto delle raccomandazioni circa la vera «democrazia cristiana», indicate dal precedente pontefice Leone XIII nell'enciclica Graves de communi.

La posizione di mediazione del presidente in carica Giovanni Grosoli, che pur propende verso la componente democratico-cristiana, fa riferimento alla necessità di unità tra i cattolici - in linea con il messaggio inviato al congresso di Bologna dallo stesso pontefice -, ma operativamente si allinea sulle posizioni contrarie a quelle di Giambattista Paganuzzi. Quest'ultimo viene infatti messo in minoranza alla fine del congresso stesso.

Pio X, fin dai suoi incarichi precedenti di vescovo a Mantova e di patriarca a Venezia, aveva sempre riservato particolare attenzione al contenuto e all'organizzazione dell'azione sociale dei cattolici. Non gli sfuggiva quindi la sostanza dei problemi e della crisi in tutti i suoi aspetti: perciò non pone indugi nel mettere mano all'opera di riforma.


La soppressione dell'Opera dei Congressi

L'Ordinamento fondamentale dell'azione popolare cristiana, del 18 dicembre 1903, è il primo documento in cui affronta organicamente il problema, subito dopo la conclusione del congresso di Bologna, tanto che è difficile non vedere il nesso tra le insoddisfacenti conclusioni di quest'ultimo e quanto indicato dall'Ordinamento. Nonostante lo scopo del documento sia ben chiaro - mettere fine alle divergenze pratiche e teoriche in seno al movimento cattolico - non sortisce effetto immediato e le contese non cessano. Atto finale di questa crisi è la circolare del presidente Grosoli ai comitati cattolici, datata 15 luglio 1904, nella quale si afferma di assumere il programma democratico-cristiano e di ritenere superata la Questione Romana: si tratta quindi di un documento non certo conforme alle indicazioni del magistero. Infatti viene riprovato da L'Osservatore Romano pochi giorni dopo: le dimissioni di Grosoli appaiono a questo punto inevitabili e vengono accettate dalla Santa Sede, che inoltre - con provvedimento della segreteria di Stato  sopprime l'Opera dei Congressi.

Il provvedimento è indubbiamente drastico, ma ha tutt'altro scopo che la disorganizzazione del movimento cattolico. All'origine di esso vi è indubbiamente un'esigenza di carattere dottrinale, cioè il distacco tra magistero e democratico-cristiani sul significato stesso della democrazia cristiana, che non casualmente il pontefice continua ad indicare con il termine di «azione popolare cristiana», come per svuotarla di significati ideologici. Ma per rispondere a questa esigenza sarebbe bastato un provvedimento disciplinare di espulsione dell'ala democratico-cristiana dall'Opera.


La ristrutturazione del movimento cattolico

In realtà Pio X aveva dubbi anche su alcune modalità operative, quale ad esempio l'astensionismo elettorale senza deroghe, il non expedit, conseguenza diretta della Questione Romana che traeva origine dall'occupazione sabauda dello Stato pontificio. Tutto ciò diviene ben chiaro con la promulgazione dell'enciclica Il fermo proposito, fondamento non solo dottrinale della riorganizzazione del movimento cattolico e uno tra i più importanti documenti del pontificato. Inconsuetamente la lingua usata è l'italiano, a significare la specifica situazione cui faceva riferimento. Peraltro la profondità della dottrina ne fa tuttora un testo di riferimento che va ben oltre il contesto storico in cui era stato concepito.

Allo scopo di introdurre organizzativamente i cattolici alla vita politica dello Stato unitario, viene costituita l'Unione Elettorale Cattolica Italiana, mentre, affinché ci fosse «un solo centro comune di dottrina, di propaganda e di organizzazione sociale», si dà vita all'Unione Popolare Cattolica Italiana. Il vasto patrimonio di iniziative economiche e sociali che avevano preso corpo nell'ambito della defunta Opera rimane invece nell'Unione Economico-Sociale, continuità resa evidente dal mantenimento del gruppo dirigente che già operava nello stesso ambito.


L'enciclica Il fermo proposito

Quanto ai criteri che i cattolici avrebbero dovuto seguire nel loro operare, l'enciclica Il fermo proposito pone alcuni riferimenti precisi, in primo luogo circa le dimensioni di tale operare, pertinenti tanto ai beni spirituali quanto alla costituzione della civiltà in tutti i suoi elementi, per i quali non è possibile negare il legame - anche solo indiretto - con i primi.

La Chiesa - inoltre - così come mantiene sempre «l'integrità e l'immutabilità» di ciò che concerne fede e morale, mostra flessibilità per quanto riguarda le esigenze dei tempi e della società. A questo proposito viene da una parte ribadita la validità storica del non expedit, ma anche la possibilità per i cattolici di partecipare alle elezioni politiche, a discrezione dei singoli vescovi, di fronte al crescere delle forze socialiste. Questo criterio troverà in seguito, nel 1913, amplia applicazione con il cosiddetto Patto Gentiloni.

Secondo l'enciclica, l'attività cattolica deve apparire veramente tale, avendo sempre come scopo il bene comune, anche in termini economici e sociali, e deve «difendere insieme gli interessi della Chiesa, che sono quelli della religione e della giustizia». Quanto alle opere concrete, devono nascere spontaneamente per non risultare effimere, e si possono quindi organizzare secondo un criterio di maggiore autonomia.

L'enciclica Il fermo proposito si può così vedere - nell'ambito della dottrina sociale della Chiesa - come un grande documento «missionario», indicante la via per risvegliare la società da quell'oblìo verso la legge naturale e divina che il pontefice non solo percepisce pienamente, ma del quale intuisce i rischi a venire.


La reazione dei democratico-cristiani

L'ala democratico-cristiana reagisce alle indicazioni pontificie ed alla loro attuazione in modo diverso: i più radicali - con don Romolo Murri - escono dal movimento cattolico per dar vita alla Lega Democratica Nazionale, che in realtà non avrà grande successo; gli altri - con don Luigi Sturzo - non intraprendono la via della scissione, pur conservando un atteggiamento critico.

Pio X aveva una concreta percezione del bene comune e ciò gli consentiva di valutare appieno come, di fronte alla gravità del pericolo socialista, fosse opportuno modificare alcuni atteggiamenti del passato, anche se gli elementi che li avevano determinati di fatto sussistevano ancora. Da questa visione della realtà nasce quel fenomeno definito clerico-moderatismo, spesso con intenti dispregiativi, frutto di una scelta pastorale che escludeva la via del partito «ispirato», cara ai democratico-cristiani.


Il «Patto Gentiloni»

In tale prospettiva il non expedit trova progressiva attenuazione a partire dal 1910, per poi sfociare nel cosiddetto Patto Gentiloni - dal nome del presidente dell'Unione Elettorale, il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni - realizzazione politica principale del cosiddetto clerico-moderatismo.

Il patto nasce in occasione delle elezioni del novembre 1913, che per la prima volta vedono ampliarsi in modo significativo la base di suffragio, prima assai ridotta, e di conseguenza accrescersi l'importanza elettorale dei cattolici stessi, ma anche dei socialisti. Il patto consiste in accordi specifici tra i candidati governativi e le rappresentanze locali dell'Unione Elettorale dei cattolici, in base ai quali i primi aderiscono pubblicamente o per iscritto a sette punti programmatici, irrinunciabili per i princìpi cristiani, mentre i cattolici assicurano l'appoggio elettorale. L'operazione si risolve in un successo: ben duecentoventotto candidati risultano eletti con il pubblico appoggio dei cattolici, mentre contemporaneamente viene bloccata l'avanzata elettorale socialista. Non si sopiscono invece le polemiche nel mondo cattolico, anche a causa del giudizio negativo che i democratico-cristiani mantengono nei confronti del fenomeno cosiddetto clericomoderato.



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APPENDICE AL PARAGRAFO 5

DEL CAPITOLO III


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LE ORIGINI DELLA DEMOCRAZIA CRISTIANA

Tra le questioni di particolare importanza e gravità che si presentano a Pio X quando sale al pontificato il 4 agosto 1903, si trovano quelle relative al movimento sociale cattolico, nato e sviluppatosi nel tentativo di porre rimedio ai guasti operati soprattutto dalla Rivoluzione francese ai danni dell'ordinamento sociale dell'Antico Regime, già snaturato da inopportuni interventi statali

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Da molti anni, ma sopra tutto, dall'epoca della Rerum novarum di Leone XIII (15 maggio 1891) vivissime discussioni erano sorte tra i cattolici a proposito del movimento sociale e della democrazia cristiana.

Non si vuole negare che la Rerum novarum non desse una grande spinta alle iniziative sociali dei cattolici; ma il movimento era vecchio ed aveva dato ottimi risultati, i quali andarono sciupati per l'invadenza di tendenze tutt'altro che ortodosse, sebbene si volessero giustificare proprio con la Rerum novarum il fatto che Leone XIII si vide costretto a richiamare i cattolici democratici sulla retta strada con la susseguente Enciclica Graves de communi (18 Gennaio 1901) riprovando interpretazioni e spiegazioni niente affatto corrispondenti al pensiero nella Rerum novarun, è già di per sé eloquente.

Purtroppo il Modernismo, dopo di avere falsato le idee nel campo filosofico e teologico, aveva finito per scendere dal principio della separazione della scienza dalla fede, all'altro principio della separazione dello Stato dalla Chiesa, della coscienza cristiana da quella civile. Dunque aconfessionalità completa. Questo il principio seguito dalla scuola dei nuovi cattolici sociali - come così si chiamarono - mutato ben presto nell'altro di democratici cristiani. Il cambiamento del nome avvenne in seguito alla Lettera ai Francesi del 16-2-1892

Il favore che la democrazia politica credette di poter ricavare da questa Lettera Pontificia per le proprie idee, ossia, per una adesione senza riserve non soltanto alla Repubblica in quanto forma di governo, ma ai principi che la informavano […] condusse i cattolici aderenti a quella politica ad attribuire egualmente un carattere democratico alla Rerum novarum, nella quale essi non vedevano che una proclamazione dei diritti del popolo. E così l’azione sociale cattolica sì trovò mutata in una azione democratica cristiana, subendo, necessariamente, tutte le deviazioni, alle quali la mescolanza e confusione dei principi la esponevano.

Così nacque la Democrazia Cristiana in Francia, donde passò in Italia, con i caratteri di un vero e proprio partito politico che doveva provocare la reazione dei cattolici più fedeli alla parola e alle direttive del Papa, che di partito politico democratico cristiano non aveva mai inteso di parlare né voleva sapere. L’azione politica dei cattolici, se così sì voleva chiamare l’azione sociale cattolica, doveva essere solo e unicamente un movimento in favore della elevazione, del miglioramento morale e materiale delle classi meno abbienti, non mai un movimento politico.

Ma, i desideri e gli ordini di Leone XIII espressi nella accennata Graves de comnumi re e rinnovati nella non meno famosa Istruzione della S. Congregazione degli Affari Ecclesiastici straordinari sulla Azione popolare cristiana del 27 Gennaio 1902, dovevano rimanere, pur troppo, inascoltati. Così, le discussioni e le polemiche tra i cattolici continuarono, con danno immenso della causa cattolica e della stessa fede. Sappiamo il contegno osservato dal Cardinale Sarto, Patriarca di Venezia, in mezzo alle correnti che si discutevano e si combattevano e quanto attentamente seguisse il movimento cattolico sul terreno delle riforme sociali. Perciò, elevato al supremo Pontificato, fece sentire subito la sua voce

A quelli che temevano quasi una sconfessione dell’azione sociale cattolica Pio X fece sapere che egli niente aveva da mutare nell'indirizzo del suo Predecessore, a un patto, però, che l’azione si tenesse nelle linee e nel programma bene fissato nelle Encicliche Rerun novarum e Graves de communi; che non uscisse dal proprio fine di «movimento in favore della elevazione religiosa, morale e materiale del popolo» per diventare un partito politico; che, nella discussione di materie sociali si attenesse strettamente alla dottrina tradizionale della Chiesa affermata nei documenti della Sede Apostolica, e, soprattutto, fosse in essa assicurata il rispetto e l'obbedienza alla autorità del Papa e dei Vescovi, a cui, pur troppo, la Democrazia Cristiana tentava di sottrarsi, innalzando la bandiera della ribellione contro la Gerarchia della Chiesa.

Pio X non aveva niente da cambiare, in materia di movimento sociale negli indirizzi di Leone XIII, ma riflettessero bene che la Democrazia cristiana non era quella benedetta, promossa e valutata da Leone XIII. E per meglio persuaderli, il 18 Dicembre 1903 - quattro mesi appena dopo la sua esaltazione - pubblicava il celebre Motu Proprio sull'Azione Popolare cristiana: riassunto lucidissimo degli insegnamenti sparsi nelle diverse Encicliche Sociali del suo Predecessore, codice e «guida pratica» da seguirsi fedelmente e costantemente da tutti i cattolici che si interessavano di azione sociale secondo le direttive della dottrina sociale cristiana.

L'opportunità - meglio - la necessità del documento fu resa manifesta dalla sorda opposizione, con cui esso venne accolto dalle file democratiche, particolarmente murriane, le quali ne erano state - per dire così - la causa prossima con le loro intemperanze al Congresso Cattolico Italiano di Bologna del precedente Novembre. Ma l'ammonimento del Papa si rivolgeva a tutti i democratici cristiani o cattolici sociali - come allora pomposamente non meno che abusivamente si chiamavano - di qualunque paese e nazionalità, perché, tanto in Italia, quanto in Francia ed altrove, identici erano gli errori e identiche le tendenze della Democrazia Cristiana: errori e tendenze che si riassumevano nel sottrarre l'economia sociale dalla legge morale, e, per conseguenza, dalla autorità e dalla direzione della Chiesa.

Per questo il Motu Proprio di Pio X costituiva il vero «codice» e la «regola pratica» a cui l'Azione Popolare Cristiana doveva da qui innanzi uniformarsi, volendo lavorare insieme con la Chiesa al miglioramento morale e materiale del popolo e per esso, come a fine ultimo, alla formazione del regno sociale di Gesù Cristo nel mondo.

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Questa lunga citazione è tratta da GEROLAMO DAL GAI., Beato Pio X Papa, a cura della postulazione della causa, Il Messaggero di S. Antonio, Padova 1951, pp. 460464. Essa spiega le origini e lo sviluppo del movimento democratico-cristiano e ricorda un documento su questo tema, tanto importante quanto sconosciuto, il motu proprio sull'azione popolare cristiana di Pio X, che lo stesso papa ha definito la «regola pratica» dell'azione sociale dei cattolici (il documento integrale si può trovare in Cristianità, anno I, n. 2, novembre-dicembre 1973).



6. IL SEGRETARIO DI STATO, CARDINALE MERRY DEL VAL

di Giovanni Poggiali


Raffaele Merry del Val nasce a Londra il 10 ottobre 1865. Di famiglia nobile, suo padre don Raffaele e sua madre donna Giuseppina De Zulueta sono cattolici ferventi, di profonde convinzioni e di pratica religiosa quotidiana. Le origini della famiglia Merry del Val erano irlandese e spagnola e da quest'ultima discendenza era nato nel 1250 san Dominguito del Val, crocifisso a sette anni nei dintorni della cattedrale di Saragozza da fanatici ebrei e oggi venerato soprattutto in Spagna.

All'età di sei anni, alla domanda rivoltagli da un padre gesuita «Che cosa vuoi diventare da grande?», Raffaele risponde: «Voglio essere prete». Il suo unico svago consiste nella costruzione di piccoli altari, nel formare arredi sacri e mettere insieme candelabri ed immaginette; si diverte, inoltre, ad imitare il sacerdote nel celebrare la messa, invitando ad assistervi i suoi fratelli e coetanei.

Ancora adolescente si trasferisce a Bruxelles con la famiglia, dove studia presso il Collegio di San Michele. I suoi compagni di studio si compiacevano ammirando in lui bontà e dolcezza senza pari, unite ad un'intelligenza superiore alla media. Venuto quindi a Roma nel 1885 per poter studiare nel Collegio Scozzese, viene indirizzato dallo stesso Leone XIII alla Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici. Frequenta poi la Pontificia Università Gregoriana laureandosi in filosofia e successivamente in teologia.

Viene ordinato sacerdote il 30 dicembre del 1888 a Roma. Particolarmente forte in lui è il desiderio di ricondurre i cristiani dissidenti alla religione cattolica e così si occupa personalmente di coloro che tornano alla fede, persuaso che una persona convertita è quasi sempre occasione di nuove conquiste spirituali nella propria famiglia o fra le proprie conoscenze.

Durante il pontificato di Leone XIII riceve incarichi importanti affidatigli dallo stesso papa, che aveva grande stima di lui. Consacrato arcivescovo titolare di Nicea il 6 maggio 1890, a soli 35 anni, anziché offrire il consueto rinfresco di tali occasioni, il novello consacrato offre un pranzo a duecento poveri d'ambo i sessi, regalando anche un vestito nuovo ad ognuno di loro.

Frattanto, nel 1903, moriva Leone XIII e la contemporanea morte di monsignor Volpini, che avrebbe dovuto essere il segretario del conclave, porta alla nomina del cardinale Merry del VaI come segretario del Sacro Collegio dei cardinali e quindi del conclave.


La scelta di Pio X

Con l'elezione pontificia del cardinale Sarto, che assume il nome di Pio X, inizia la fruttuosa collaborazione del cardinale Merry del Val con il santo pontefice che, fin da subito, ripone in lui piena fiducia; gli sarebbe stato illuminato collaboratore e amico devoto nelle sofferenze e nelle lotte del pontificato.

Il cardinale Merry del Val a 38 anni viene infatti scelto da Pio X come nuovo segretario di Stato e di fronte alla titubanza del prescelto, che non si credeva all'altezza, il pontefice risponde: «lavoreremo insieme, soffriremo insieme per amore della Chiesa».

Inizia così un pontificato tra i più difficili della storia. Pio X rinforza la gerarchia accostandola più strettamente alla cattedra di san Pietro; accresce la responsabilità e la missione del clero; disciplina il laicato cattolico, diviso fra intransigenti e democratici-cristiani, cerca di gettare i fondamenti perché la società cristiana possa fondarsi su rette basi e sui princìpi immutabili di dottrina e di morale, che le teorie utopisti che ed eversive e il ritorno di vecchi errori già condannati avevano deformato o fatto perdere di vista.

Per condurre a compimento un tale programma occorrono uomini di metodo e di azione, e Pio X sa scegliersi come segretario di Stato un uomo dalle rare qualità.

Nel corso della lotta contro il modernismo, il papa e il segretario di Stato diventano oggetto di ampie critiche ed insulti e dichiarati fanatici intolleranti dai modernisti. Mentre l'anticlericalismo in Italia cresceva, aizzato soprattutto dalla stampa massonica, lo stesso cardinale segretario di Stato, trovandosi in villeggiatura a Castel Gandolfo, per poco non rimane vittima di un agguato tesogli da anticlericali di Marino. Ma il modernismo viene smascherato e perseguito ovunque possibile, e dopo la morte del pontefice, il cardinale Merry del Val, con la carica assegnatagli da Benedetto XV di segretario della Sacra Congregazione del Sant'Offizio, vigilerà affinché si mantenga integro il frutto di tanti sforzi.


Due anime gemelle

A Pio X e al cardinale Merry del Val si devono la riforma dei seminari, l'istituzione della Commissione Biblica, di quella per la liturgia, per la musica sacra, la restaurazione dell'insegnamento catechistico, l'importante riforma delle congregazioni, dei tribunali, degli uffici della Curia romana, riforme che segnano altrettante tappe di un cammino irto di spine e di dolori in cui però i successi della Chiesa sono molti e duraturi.

Il 19 agosto 1914 Pio X muore, e il cardinale Merry del Val ne rimane profondamente colpito per il grande legame che lo avevano legato al papa.

Pio X e Merry del Val: tanto distanti per nascita, per età, per formazione e anche per cultura, in realtà erano due anime gemelle, unite dal dovere soprattutto, dalla sottomissione alla volontà di Dio, dall'obbedienza gerarchica, dalla purezza della dottrina insegnata e da una volontà inflessibile al servizio di questi ideali. Per volere dello stesso pontefice, il cardinale assume, nel 1914, la carica di arciprete della Basilica e Prefetto della Rev. Fabbrica di San Pietro, che mantiene fino alla morte, nel 1930. Fonda anche la pia associazione del Sacro Cuore di Gesù, che seguirà e amerà come una famiglia. L'associazione aveva sede in Trastevere e quando il cardinale aveva tempo disponibile, tra i molteplici impegni di arciprete e segretario della Sacra Congregazione del Santo Offizio, lo dedicava ai giovani, che lo amavano profondamente.

Sarà legato Pontificio nel 1920 ad Assisi per l'anniversario del ritrovamento del corpo di san Francesco. Negli anni prima della morte assolve i suoi compiti e il suo ministero con l'unico fine della conquista delle anime a Dio, con carità, umiltà e profondo spirito di mortificazione.

Il 26 febbraio 1930 si spegne nella Città del Vaticano ed il 26 febbraio 1953 inizia il suo processo informativo ordinario sulla fama di santità. Tale processo viene richiesto con voto solenne dall'episcopato spagnolo, che indirizzando la richiesta al santo Padre, diceva del cardinale: «La sua fama di santità non è mai venuta meno tra il popolo, ma specialmente tra il clero, il quale guarda a lui come ad un sacerdote santo degno di meritare gli onori dell'altare».



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APPENDICE AL PARAGRAFO 6 

DEL CAPITOLO III


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EVENTI POLITICI DURANTE IL PONTIFICATO DI PIO X


1903-1904

Durante questi anni, la politica italiana è caratterizzata dalla figura dello statista Giovanni Giolitti, che governa quasi ininterrottamente con un'abile attività parlamentare e attraverso il tentativo di coinvolgere al governo l'opposizione socialista (sfruttando la divisione fra riformisti e massimalisti) e quella cattolica (con l'accordo elettorale fra liberali conservatori e cattolici del 1913, che passa alla storia con il nome di Patto Gentiloni).


1911-1912

Guerra italo-turca in seguito all'occupazione italiana della Libia dopo lo sbarco delle truppe italiane a Tripoli (29-9). Il 5 novembre un decreto regio italiano sancisce l'annessione della Libia, accettata anche dalla Turchia con la pace di Losanna il 18-10-1912.


1910

Enrico Corradini fonda l'Associazione Nazionalista Italiana, cui aderisce anche Gabriele D'Annunzio.


1912-1913

Crisi balcanica. La prima guerra balcanica (ottobre 1912) vede la sconfitta della Turchia contro Serbia, Bulgaria, Grecia e Montenegro, che nella pace di Londra (maggio 1913) ottengono ampi territori dalla Turchia e le isole egee. Ma nella lotta per la spartizione di questi territori, la Bulgaria attacca la Serbia e al fianco di quest'ultima intervengono Romania, Grecia, Montenegro e Turchia. La seconda guerra balcanica termina con la pace di Bucarest (agosto 1913) con la quale la Bulgaria perde la Macedonia e la Dobrugia, Creta tocca alla Grecia e l'Albania diventa un principato autonomo.


28.6.1914

L'erede al trono austriaco arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie vengono assassinati dallo studente bosniaco Gavrilo Princip, membro dell'organizzazione segreta grandeserba «Unità o morte». L'ultimatum lanciato il 23 luglio dall'impero austro-ungarico alla Serbia, considerata corresponsabile, nel quale si chiede la repressione dei movimenti nazionalistici anche attraverso la partecipazione di forze austriache, viene respinto dalla Serbia che decreta la mobilitazione parziale. Scattano con un effetto a catena tutte le alleanze fra i diversi Stati e in breve quasi tutta l'Europa è coinvolta nella guerra che diverrà mondiale.



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LA CHIESA E L'EMIGRAZIONE


Il fenomeno dell'emigrazione si afferma, per molti aspetti drammaticamente, a partire dai primi decenni dell'Ottocento. In Italia l'emigrazione esplode all'indomani dell'unità, con particolare accentuazione nelle regioni meridionali. Non mancheranno, però, in seguito, contributi di altre zone, come il Veneto e il Friuli, anche verso l'Australia. Prima del 1876 si calcola siano migrati circa un milione di italiani dal 1876 al 1885, 1.300.000; 2.400.000 fino al 1895; 4.300.000 fino al 1906 e, infine, circa 6 milioni fino all'inizio del conflitto mondiale, quando inizierà la flessione, anche in conseguenza delle restrizioni adottate dagli Stati Uniti. Nel 1913 si verifica il «picco» con 900.000 migranti.

La Chiesa e il mondo cattolico affrontano il problema, soprattutto in vista dei rischi morali ad esso inerenti. Un nome, quello di santa Francesca Cabrini lodigiana, s'impone su tutti.

Con il pontificato di Pio X si tenta di dare un carattere di organicità agli interventi nei confronti dei migranti: patronati cattolici vengono istituiti in ogni diocesi allo scopo di preparare e tutelare la migrazione, anche in collaborazione con le diocesi cattoliche di arrivo. Nel 1912 viene poi fondata una struttura presso la Curia romana, con competenza su tutta la Chiesa. Infine, per l'assistenza religiosa degli emigranti, viene fondata a Roma nel 1914 il Pontificio Collegio per l'emigrazione italiana, con lo scopo di preparare sacerdoti per potenziare il personale ecclesiastico dei paesi ospitanti.


 

7. LO SCONTRO CON LA REPUBBLICA FRANCESE


Papa Sarto non era mai stato in Francia; sapeva di questa nazione quello che aveva detto uno dei suoi maestri preferiti, il cardinale Edouard Pie: «far la guerra a Dio non è nella sua natura».

Eppure la guerra tra la Francia e la Chiesa cattolica scoppia violenta proprio durante il suo pontificato, anche se sotto quello di Leone XIII - nonostante gli sforzi del papa per avvicinare i cattolici alla repubblica, con il cosiddetto ralliement - era proseguita la profonda secolarizzazione della nazione, con la laicizzazione della scuola elementare (28 marzo 1882), il ripristino del divorzio (27 luglio 1884), l'abolizione delle pubbliche preghiere alla riapertura del Parlamento (14 agosto 1884), l'esclusione dei membri delle congregazioni religiose dal pubblico insegnamento (30 ottobre 1886), l'imposizione ai chierici del servizio militare (15 luglio 1889) e quindi, nel marzo del 1903, il rifiuto da parte della Camera dei deputati di esaminare le domande di autorizzazione di 50 congregazioni maschili, delle quali 25 insegnanti, e di 91 congregazioni femminili, premessa alla legge del 7 luglio 1904, che vieterà l'insegnamento in ogni grado ai membri delle congregazioni religiose.


La frattura

Pio X, il 2 dicembre 1903, prende l'iniziativa di scrivere al presidente della Repubblica francese, Emile Loubet, denunciando le suddette iniziative legislative che mirano «non solamente alla completa separazione dello Stato dalla Chiesa, ma anche, se fosse possibile, a togliere alla Francia l'impronta cristiana che la rese gloriosa nei secoli passati». Il presidente francese risponde il 27 febbraio 1904 sostenendo la sua irresponsabilità costituzionale e due mesi dopo, il 24 aprile, la sua visita a Roma al re Vittorio Emanuele II suscita l'inevitabile protesta del Vaticano, automatica nei confronti di sovrani che visitavano a Roma un re scomunicato in seguito ai fatti del 1870. Si aggrava così, irrimediabilmente, la tensione tra Francia e Santa Sede.

La rottura formale delle relazioni diplomatiche avviene il 30 luglio dello stesso anno, in seguito al rifiuto da parte del governo francese, guidato da Emile Combès, di permettere a due vescovi francesi di recarsi a Roma per rispondere ad accuse relative a supposte violazioni del diritto canonico: ma la vicenda è chiaramente un pretesto e del resto la rottura diplomatica rappresenta soltanto un preludio alla separazione totale fra Chiesa e Stato, che infatti avviene l'anno successivo con la legge di separazione votata dal Parlamento 1'11 dicembre 1905. Il papa, avvertito per telefono, risponde: «ecco forse l'ora in cui i cristiani di Francia dovranno dare a Cristo più del loro tempo, della loro pena e del loro amore. La Francia non verrà staccata da Cristo» (dalle note di Camillo Bellaigue, udienza del 7 gennaio 1906, cito in RENÈ BAZIN, Pio X, cit., pp. 174-175).


Una grave decisione

Promulgata la legge, gli agenti del governo cominciano ad inventariare i beni delle sessantamila chiese francesi: molte di queste, soprattutto a Parigi, vengono difese dai fedeli. Il patrimonio ecclesiastico, più di 42 milioni di franchi, viene incamerato dallo Stato. In questo clima di altissima tensione, 1'11 febbraio 1906, due mesi dopo la promulgazione della legge, il papa pubblica la prima enciclica sulla situazione francese, la Vehementer Nos. In essa Pio X, dopo aver ricordato i diversi provvedimenti legislativi contrari alla Chiesa promossi dal governo francese negli ultimi decenni, condanna formalmente la soppressione del Concordato e il principio stesso della separazione fra Stato e Chiesa, affermando che «questa opinione si basa infatti sul principio che lo Stato non deve riconoscere nessun culto religioso: ed è assolutamente ingiuriosa verso Dio, poiché il Creatore dell'uomo è anche il fondatore delle società umane e conserva nella vita tanto loro che noi, individui isolati. Perciò noi gli dobbiamo non soltanto un culto privato, ma anche un culto sociale e onori pubblici».

La legge di separazione prevedeva anche l'istituzione di associazioni cultuali, composte da fedeli, alle quali attribuiva la tutela e l'amministrazione del culto pubblico, andando contro il principio gerarchico sul quale si fonda la Chiesa, come Pio X fa notare nella sua enciclica. Ma queste associazioni cultuali - e soprattutto una loro revisione in senso più favorevole ai principi cattolici che le rendesse sia legali che conformi al diritto canonico - avrebbero potuto salvare la Chiesa in Francia dalla miseria in cui sarebbe caduta in seguito alla separazione. I vescovi francesi riuniti in assemblea plenaria avevano rifiutato le associazioni cultuali così com'erano previste, ma si erano dichiarati disponibili a una loro revisione.

Ma il papa non è dello stesso avviso e nella seconda enciclica sulla crisi francese, la Gravissimo officii, del 10 agosto dello stesso anno 1906, rifiuta anche l'ipotesi della revisione, non ritenendo sufficienti le garanzie offerte in quel momento dalla Repubblica.

È una decisione estremamente grave, e come tale viene percepita in tutto il mondo. Il papa impone il fardello della povertà alla Chiesa francese pur di non venire ad alcun compromesso con una legge che ritiene iniqua e con il potere che l'ha emanata: così facendo ribadisce che il principio della collaborazione fra l'autorità religiosa e quella politica e, in subordine, quello della libertà della Chiesa di fronte ad ogni interferenza dello Stato, non hanno prezzo.

Pio X aveva ritenuto la Chiesa francese capace di eroismo e i cattolici rispondono con grande generosità, mantenendo le loro scuole e sostentando l'attività pastorale del loro clero, rinunciando anche ad usare la forza contro gli espropri, così come richiesto dal papa nella stessa enciclica. Papa Sarto ritornerà ancora sulla crisi francese con una nuova enciclica, Une fois encore, il 5 gennaio 1907, rispondendo al parlamento francese che aveva reso definitive le spoliazioni sancite con la legge di separazione.


La morte e la canonizzazione

Pio X fa in tempo ad implorare la pace ai popoli e ai governi che hanno appena dato inizio al primo conflitto mondiale (esortazione Dum Europa, del 2 agosto 1914), poi, il 20 agosto, soltanto diciotto giorni dopo, muore.

Le linee pastorali del nuovo pontificato cambiano e i suoi principali collaboratori, fra i quali il segretario di Stato, cardinale Merry del Val, e i cardinali De Lai e Vives y Tutò, vanno ad assumere posizioni secondarie nella struttura ecclesiastica. Ma la fama di santità che circonda la figura di papa Sarto e la ferma volontà di Pio XII permettono la canonizzazione in tempi straordinariamente brevi, dopo soltanto quaranta anni.

Verrà infatti fatto santo da Pio XII il 29 maggio 1954, dopo che i diversi processi diocesani e apostolici avevano dovuto superare non poche difficoltà, tutte legate alla lotta contro il modernismo e i modernisti voluta da Pio X, fra le quali la deposizione contraria del cardinale Pietro Gasparri.

A chi accusava Pio X di eccessi nella lotta antimodernista risponderà papa Pacelli nel discorso per la beatificazione, il 3 giugno 1951: «Non dunque eccessiva prevalenza della fortezza sulla prudenza. Al contrario queste due virtù, che danno quasi il crisma a coloro che Dio presceglie a governare, furono in Pio X equilibrate a tal segno, che, all'esame obbiettivo dei fatti, egli apparisce tanto eminente nell'una, quanto eccelso nell'altra». E preoccupato per il permanere e per il diffondersi di un «nuovo modernismo», nel discorso per la canonizzazione Pio XII richiamerà «al grande Pontefice» che «non conobbe debolezze dinanzi a qualsiasi alta dignità o autorità di persone, non tentennamenti di fronte ad adescanti ma false dottrine entro la Chiesa e fuori, né alcun timore di attirarsi offese personali e ingiusti disconoscimenti delle sue pure intenzioni» (29 maggio 1954).IV . BENEDETTO XV, UN PAPA NELLA TRAGEDIA DELLA «GRANDE GUERRA»

(1914-1922)


1. LA VITA, IL PONTIFICATO


Asceso al soglio di Pietro pochi giorni dopo l'inizio del primo conflitto mondiale, Benedetto XV spenderà la sua autorità e la sua capacità diplomatica perché venga posto fine alla tragedia bellica. Ma i governanti delle potenze terrene non lo ascolteranno.


Giacomo Della Chiesa, da Pegli

Giacomo Paolo Battista Della Chiesa nasce a Pegli il 21 novembre 1854 da una famiglia nobile; studia filosofia come esterno nel seminario arcivescovile e quindi giurisprudenza all'università di Genova, dove si laurea nel 1875. Ottiene dal padre il permesso di iniziare la via verso il sacerdozio e studia teologia a Roma, presso il Collegio Capranica. Viene ordinato sacerdote il 21 dicembre 1878 e continua gli studi nell'Accademia dei Nobili fino al 1882, quando, per interessamento del cardinale Mariano Rampolla, che sarà fino alla morte il suo protettore, entra nella Congregazione degli Affari Straordinari. Il cardinale Rampolla lo porta con sé in Spagna, dove era stato nominato nunzio apostolico, e quando, nel 1887, diventa segretario di Stato, fa di Giacomo Della Chiesa un suo stretto collaboratore, prima come minutante, poi come sostituto. Accanto alla carriera diplomatica, svolge anche intensa attività nella cura d'anime nella chiesa di Sant'Eustachio e anche come catechista e conferenziere. Dopo l'elezione al soglio pontificio di Pio X, nel 1903, rimane al suo posto nonostante la sostituzione del cardinale Rampolla alla segreteria di Stato. Nel 1907 viene nominato arcivescovo di Bologna e soltanto sette anni dopo riceve la porpora cardinalizia: alla madre, il cardinale Rampolla aveva «profetizzato»: «Suo figlio farà pochi passi ma lunghi». Alla morte di papa Sarto, nel conclave che si svolge a guerra mondiale già incominciata, dal 31 agosto al 3 settembre 1914, viene eletto papa e sceglie il nome di Benedetto XV, in memoria di Benedetto XIV, il cardinale Prospero Lambertini, anch'egli arcivescovo di Bologna nel Settecento. Sceglie come segretario di Stato il cardinale Domenico Ferrata e, alla morte di quest'ultimo, il 10 ottobre dello stesso anno, incarica il cardinale Pietro Gasparri.


Il suo magistero

Nei poco più di sette anni di pontificato - morirà il 22 gennaio 1922 - l'opera di Benedetto XV è evidentemente condizionata dalla prima guerra mondiale in corso e dagli strascichi che le seguono, ma molti altri interventi magisteriali e pastorali meritano di essere ricordati. Di alcuni di questi tratteremo specificamente nei successivi paragrafi, come la promulgazione del Codice di Diritto Canonico nel 1917, che conclude l'opera iniziata da Pio X, la pubblicazione dell'enciclica Spiritus Paraclitus sulla Scrittura nel 1920, probabilmente la più importante del pontificato, e quella su Dante Alighieri, In praeclara summorum, del 1921, oltre naturalmente ai numerosi interventi a proposito della guerra. Ma altri documenti devono almeno essere ricordati: le encicliche per i centenari di sant'Efrem Siro (Principi Apostolorum Petro, del 1920), di san Francesco d'Assisi (Sacra propediem, del 1921), contro la sua rappresentazione come figura «di vago e vaporoso ascetismo» «d'invenzione prettamente modernista», di san Domenico (Fausto appetente die, del 1921), le importanti canonizzazioni di Giovanna d'Arco, di Gabriele dell'Addolorata e di Margherita Maria Alacoque e inoltre il grande sviluppo alle missioni anche attraverso l'enciclica Maximum illud del 1919.


L'opera per le Chiese orientali

Né bisogna dimenticare l'intensa opera per favorire la riunificazione con le Chiese ortodosse, soprattutto dopo la persecuzione iniziata in Russia in seguito alla Rivoluzione socialista del 1917, e il sostegno offerto alle Chiese cattoliche di rito orientale, con la costituzione della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali nel 1917 e l'enciclica Principi apostolorum del 1920. La stessa azione diplomatica svolta a Varsavia dal nunzio monsignor Achille Ratti, il futuro Pio XI, diretta a favorire il disegno del capo dello Stato polacco, il cattolico maresciallo Iòsef Pilsudski, di costituire Lituania, Russia Bianca e Ucraina come Stati autonomi confederati alla Polonia in funzione antirussa, sembra rientrare a pieno titolo nel progetto di Benedetto XV di aiutare appunto le Chiese greco-cattoliche. E ancora deve essere menzionata la costante azione diplomatica in Europa e nel mondo, che aumenta, durante il pontificato di Benedetto XV, l'autorevolezza internazionale della Santa Sede e il numero di Stati accreditati in Vaticano.

 

La prima guerra mondiale

La maggioranza degli interventi e delle energie del papa hanno avuto come oggetto la guerra. Mentre nel prossimo paragrafo esamineremo i principali documenti del pontefice sulla guerra e sulle sue conseguenze, con i problemi che il conflitto provoca anche nel mondo cattolico, è utile descrivere brevemente alcuni aspetti culturali e di costume relativi al periodo di Benedetto XV, con i mutamenti avvenuti durante e in seguito alla guerra mondiale.

Si legge con una certa frequenza di una rinascita religiosa che sarebbe avvenuta nelle trincee, durante le lunghe pause dei combattimenti, grazie anche alla presenza di un numero rilevante di cappellani militari e alla partecipazione al conflitto di masse di contadini tradizionalmente religiosi, a causa della leva obbligatoria. In alcune nazioni, sempre secondo questo ragionamento, la guerra avrebbe potuto favorire il superamento della frattura tra le forze laiciste e i cattolici, e questo particolarmente in Francia e in Italia. Addirittura, nel caso italiano, questa preoccupazione avrebbe spinto alcuni cattolici, sia democratici come don Luigi Sturzo, che conservatori, a propagandare l'ingresso dell'Italia in guerra disattendendo completamente le indicazioni del magistero pontificio.

È facile osservare come queste speranze, nell'arco di tempo che va dall'inizio al termine della guerra e che copre buona parte del pontificato di Benedetto XV, non soltanto non si siano realizzate ma, al contrario, si siano determinate condizioni sociali peggiori di quelle esistenti all'inizio del conflitto. Diversa, infatti, è la riscoperta del cristianesimo nel dramma della guerra, di fronte al dolore e alla morte, dalla penetrazione dei principi cristiani nella cultura e nel costume di un popolo, che liberamente e consapevolmente li accetta. Se la guerra, come tutte le guerre, è stata occasione per la conversione di molti uomini, basta osservare il dopoguerra per rendersi conto di quanti mali il conflitto sia stato portatore alle nazioni dell'epoca.


Le tragiche conseguenze della guerra

Benedetto XV scrive poche settimane dopo la fine del conflitto mondiale: «È desolante ciò che dai fratelli nell'Episcopato Ci viene riferito sulle devastazioni morali della guerra, scaltramente sfruttate da chi spia le sventure e le abbiezioni, per volgerle a profitto della irreligione e dell'abbruttimento sociale» (allocuzione al Sacro Collegio, del 24 dicembre 1919). Viene individuato, con queste parole, il passaggio della corruzione e della pratica dell'immoralità da ambiti ristretti della popolazione a livelli di massa, con la relativa giustificazione ideologica di questi disordini. La guerra favorisce così quella che viene chiamata la «secolarizzazione di massa» e si assiste negli anni del dopoguerra ad una esplosione di erotismo, al rifiuto delle autorità sociali, favorito anche dall'odio ideologico propagano dato dopo la vittoria della Rivoluzione bolscevica in Russia e dai successivi moti socialisti nelle principali nazioni europee. Benedetto XV descrive con queste parole tale male morale: «Oggi lo spirito di indisciplina, stato per lo innanzi tristo privilegio di pochi, ha invaso le masse e suggerisce anche ad esse l'antico "Non serviamo. Oggi, l'umanità avida di piacere, assetata di ricchezze, schiva del lavoro, non arrossisce, con insana e collettiva incoscienza, di sollazzarsi fra le gramaglie ed i lutti, e non si périta di intensificare l'abuso dei beni, proprio mentre ne inaridisce le fonti» (ibidem). Il papa - che spiegherà ancora più in dettaglio questa analisi nel corso dell'allocuzione al Sacro Collegio dell'anno successivo, il 24 dicembre 1920 - indica nel naturalismo la causa di questi mali, naturalismo che individualmente porta all'egoismo e socialmente alla «rivoluzione, all'anarchia, alla distruzione».


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APPENDICE AL PARAGRAFO I 

DEL CAPITOLO IV


EVENTI POLITICI DURANTE

IL PONTIFICATO DI BENEDETTO XV


26.4.1915

Dopo essersi proclamata neutrale, l'Italia si accosta all'Intesa e con il «patto segreto» di Londra ottiene la promessa di guadagni territoriali in cambio dell'entrata nel conflitto, che avviene il 24 maggio con la dichiarazione di guerra all'impero austro-ungarico.


6.4.1917

Dichiarazione di guerra da parte degli Stati Uniti contro la Germania a cui seguirà il 7 dicembre quella all'impero austro-ungarico.


27.2[12.3].1917

Rivoluzione di febbraio a Pietrogrado. Abdicazione dello zar Nicola II.


3[16].3.1917

Lenin rientra in Russia grazie al «treno piombato» messogli a disposizione dall'Alto Comando tedesco.


3[16]/4[17].7.1917

Fallimento di moti bolscevichi a Pietrogrado e fuga di Lenin in Finlandia. Alexsandr Kerenskij diventa presidente del Consiglio.


24.10[6.11]/25-10[7.11].1917 Rivoluzione d'Ottobre in Russia.


26.10[8.11].1917

Il Governo rivoluzionario assume compiti governativi e decreta l'esproprio dei grandi proprietari terrieri (150 milioni di ettari).


6[19].1.1918

Il Consiglio dei Commissari del Popolo scioglie l'Assemblea Costituente, nella quale il partito di Lenin aveva solo il 25% dei voti.


8.1.1918

Pubblicazione dei «quattordici punti» da parte del presidente americano Thomas Woodrow Wilson, che prevedono l'abolizione della diplomazia segreta, la libertà di navigazione sui mari, la liberalizzazione degli scambi economici mondiali, la limitazione degli armamenti, il disfacimento delle giuste aspirazioni coloniali, l'evacuazione della Russia da parte degli imperi centrali, la restaurazione della piena sovranità del Belgio, la restituzione alla Francia dell'Alsazia-Lorena, la rettifica del confine italiano secondo il principio di nazionalità, lo sviluppo libero e autonomo dei popoli dell'impero austro-ungarico, lo sgombero della Romania, della Serbia e del Montenegro, l'indipendenza della Turchia e l'apertura degli Stretti, l'autonomia ai popoli non turchi dell'impero ottomano, la creazione di uno Stato polacco con sicuro accesso al mare, la fondazione di una Società delle Nazioni che assicuri la pace mondiale.


3.3.1918

Con la pace di Brest-Litovsk, la Russia riconosce Finlandia e Ucraina come Stati autonomi e rinuncia a ogni pretesa su Livonia, Curlandia, Lituania, Lettonia, Estonia e Polonia. Lenin vuole concludere al più presto la pace per consolidare la Rivoluzione.


18.1.1919

Si apre la Conferenza della Pace nella Sala degli Specchi del castello di Versailles, con la partecipazione di 70 delegati delle 27 nazioni vincitrici. Inizia la stesura dei trattati di pace con gli Stati sconfitti.


28.6.1919

Dopo molte resistenze viene firmato dai delegati tedeschi il trattato di pace. Consta di 440 articoli e prevede per la Germania la perdita delle colonie, dell'Alsazia-Lorena, della Posnania, della Prussia Occidentale, dei territori di Hultschin e della zona di Memel. Il territorio della Saar viene posto sotto l'amministrazione della Società delle Nazioni, mentre i bacini carboniferi vengono assegnati alla Francia. La Renania viene smilitarizzata e divisa in tre zone d'occupazione a tempo determinato (5-10-15 anni). L'esercito tedesco è ridotto a 100.000 uomini. Si stabiliranno in 269 miliardi marchi-oro le riparazioni dovute dalla Germania agli Stati vincitori.


10.9.1919

Viene firmato il Trattato di pace con l'impero austro-ungarico a St. Germain-en-Laye. Prevede la cessione all'Italia dell'Alto Adige fino al Brennero, oltre a Trieste, all'Istria e a parte della Dalmazia, della Carinzia e della Camiola; l'indipendenza dell'Ungheria, e la formazione di nuovi Stati nazionali come la Cecoslovacchia, la Polonia e la Jugoslavia. L'esercito austriaco non può superare i 30.000 uomini. Seguiranno nei mesi successivi le firme dei Trattati di pace con la Bulgaria, l'Ungheria e la Turchia.



2. I CATTOLICI E IL PRIMO CONFLITTO MONDIALE


Ciò che più stupisce di fronte ai reiterati appelli di Benedetto XV in favore della pace durante la prima guerra mondiale, è la posizione opposta assunta da molti cattolici, anche autorevoli, nelle diverse nazioni coinvolte nel conflitto.

Come era conciliabile infatti l'interventismo contro l'impero Austro-ungarico di don Luigi Sturzo - che fra l'altro proprio nel corso del pontificato di Benedetto XV va ad occupare ruoli rilevanti nel movimento cattolico italiano, prima di fondare il Partito Popolare Italiano nel 1919 - con l'universalità del messaggio evangelico e con le indicazioni del magistero per una soluzione negoziata della guerra, che non prevedesse né vinti né vincitori?


Il nazionalismo e il mondo cattolico

La mentalità nazionalista era penetrata dunque nel mondo cattolico. Ma bisogna distinguere fra il grande problema di coscienza di un cattolico francese o tedesco, chiamati entrambi a combattere in una guerra che poteva significare la sopravvivenza per la propria nazione, dall'odio ideologico che caratterizza l'atteggiamento interventista contro l'impero Austro-ungarico dei cattolici democratici italiani o l'ambigua giustificazione «politica» che spinge alcuni cattolici conservatori a ritenere giusto l'intervento italiano a fianco della Triplice Intesa, al fine di non lasciare fuori i cattolici anche dall'ultima fase del processo di unificazione nazionale. Sono soltanto i cattolici intransigenti - che avevano dato vita all'Opera dei Congressi - o quelli chiamati «integrali», a prendere sul serio il magistero di Benedetto XV, rimanendo rigorosamente neutrali, assecondati in questo dalla gran parte della popolazione italiana che, come dimostrano le 535.000 diserzioni nel corso della guerra, non parteciperà mai moralmente al conflitto.

Quest'ultimo, infatti, come ormai documentato da storici di diverse tendenze ideologiche, in Italia era stato voluto dal re e dal governo, influenzati dalla massoneria - come dimostra il telegramma in questa direzione inviato il 6 settembre 1914 dal Gran Maestro Ettore Ferrari ad Antonio Salandra e da quest'ultimo riportato nelle sue Memorie (cit. in. G. CANDELORO, op. cit., p. 38) - e da interventisti presenti in tutti i partiti, da quello socialista a quello liberale.


Il magistero del papa

Rigorosamente contrario alla guerra invece è l'atteggiamento della Santa Sede, anche se esistevano fra i cattolici posizioni favorevoli all'impero Austroungarico, e soprattutto a un intervento che ponesse fine alle gravi provocazioni della Serbia, una delle quali, con l'assassinio dell'arciduca austriaco Francesco Ferdinando, era stata all'origine del conflitto.

Già Pio X, il 2 agosto 1914, aveva esortato i cattolici a pubbliche preghiere perché venisse risparmiata al mondo, «una funestissima guerra». Benedetto XV riprende immediatamente la stessa consegna con l'esortazione Ubi primum dell'8 settembre dello stesso anno e, poco dopo, con la prima enciclica del suo pontificato, Ad beatissimi, del primo novembre. In questo documento il papa indica in quattro fattori le cause della guerra: la mancanza di mutuo amore fra gli uomini, il disprezzo per l'autorità, l'ingiustizia nei rapporti fra le diverse classi sociali e il bene materiale considerato come unico obbiettivo dell'attività umana. La guerra mondiale mette in evidenza la crisi radicale dell'unità del genere umano; scrive il papa a questo proposito: «chi direbbe che tali genti, l'una contro l'altra armata, discendano da uno stesso progenitore, che sian tutte della stessa natura, e parti tutte di una medesima società umana?».


L'«inutile strage»

Gli interventi del pontefice non si limitano a indicare le radici della guerra, ma scendono sul terreno delle proposte concrete.

Il primo agosto 1917, rivolgendosi alle nazioni belligeranti con la famosa esortazione nella quale definisce la guerra in corso una «inutile strage», Benedetto XV chiede la «diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti», la libertà di accesso ai mari, l'«evacuazione totale sia del Belgio [...] sia del territorio francese» da parte della Germania e, dalla parte avversaria, la «restaurazione delle colonie tedesche».

Purtroppo, la Conferenza di Pace di Versailles e i successivi trattati con le singole nazioni sconfitte non garantiranno l'equanimità che la Santa Sede auspicava, tanto che il 24 gennaio 1921, parecchio tempo dopo la fine del conflitto e in seguito al trattato di pace, Benedetto XV interverrà per sottolineare «la singolare e triste condizione in cui è venuta a trovarsi l'Austria», «che nel corso dei secoli tante benemerenze si è acquistata per la difesa della fede e della civiltà cristiana», la cui capitale una volta «era il centro di un vasto e fiorente Impero», mentre oggi «somiglia ad un capo tagliato dal corpo e si dibatte fra gli orrori della miseria e della disperazione», invitando infine ad un soccorso finanziario internazionale per porre fine a questa ingiusta condizione (lettera La singolare, al cardinale Pietro Gasparri).


Le proposte del Vaticano

La Santa Sede era stata anche accusata di difendere gli interessi austriaci, accusa alla quale aveva risposto la segreteria di Stato nel mese di ottobre del 1917, biasimando l'«atteggiamento generalmente ostile della stampa francese nei confronti dell'appello pontificio» del primo agosto 1917 e facendo presente che «se vi è nella Lettera pontificia una nazione favorita, questa non è la Germania o l'Austria ma bensì la Francia e il Belgio». Nello stesso documento, la segreteria di Stato avanza ancora proposte concrete per la restaurazione di una pace definitiva e generale, fra le quali, molto significativa, quella della soppressione in tutte le nazioni civili del «servizio militare obbligatorio», «da oltre un secolo, la vera causa di innumerevoli mali che hanno afflitto la società», con la conseguente proposta di boicottaggio universale contro la nazione che volesse ristabilirlo (lettera della segreteria di Stato a monsignor Chesnelong, arcivescovo di Sens, dell'ottobre 1917).



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APPENDICE AL PARAGRAFO 2 

DEL CAPITOLO IV


IL GOVERNO ITALIANO CONTRO LA SANTA SEDE

 

Il primo agosto 1917 Benedetto XV inviava la famosa Nota ai capi dei popoli belligeranti nella quale invitava i governi a iniziare trattative sulla base di proposte concrete per porre fine alla «inutile strage». La Nota ottiene una risposta formalmente favorevole dagli imperi centrali, una sostanzialmente negativa dal governo degli Stati Uniti e nessuna risposta dai governi dell'Intesa.

Il ministro degli Esteri Italiano Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922) attacca esplicitamente la Nota nel discorso alla Camera del 25 ottobre 1917, giudicandola espressione della propaganda austro-tedesca, e sostiene l'opportunità di non darle alcuna risposta.

Quest'uomo politico liberal conservatore è lo stesso che aveva fatto inserire nel patto di Londra - con il quale l'Italia si impegnava a entrare in guerra a fianco dell'Intesa - il famoso articolo 15, che impegnava le potenze alleate Francia, Gran Bretagna e Russia a sostenere «...l'opposizione che l'Italia farà a ogni proposta tendente a introdurre un rappresentante della Sante Sede in qualsiasi negoziato per la pace e per la soluzione dei problemi sollevati dalla guerra in corso».

Del governo in cui Sonnino era ministro degli Esteri faceva parte anche uno dei cattolici più conosciuti, l'onorevole Filippo Meda. Quest'ultimo, dopo il discorso di Sonnino, pensa di rassegnare le dimissioni per difendere la Nota del papa; ma in seguito alla difficile situazione militare venutasi a creare in Friuli-Venezia Giulia dopo Caporetto, decide di rimanere al suo posto per dimostrare fedeltà alla patria in pericolo.

L'episodio dimostra la grave crisi che in quel drammatico frangente travagliava il mondo cattolico, diviso tra la fedeltà al magistero papale, che chiede la pace, e la lealtà verso la patria impegnata nella guerra.



3. SULLA SACRA SCRITTURA


Benedetto XV è conosciuto soprattutto per i documenti con i quali interviene per spiegare le radici della guerra e indicare le condizioni della pace: e non poteva essere altrimenti date le enormi, tragiche dimensioni del conflitto.

Sebbene siano passati ingiustamente in secondo piano, molti altri documenti del papa meritano di essere conosciuti e studiati. Fra questi, una grande attenzione si deve certamente portare alla lettera enciclica Spiritus Paraclitus, del 15 dicembre 1920, scritta in occasione del quindicesimo centenario della morte di san Gerolamo, dottore della Chiesa, il più grande maestro riconosciuto dalla Chiesa nell'interpretazione delle Sacre Scritture.


«Per almeno mezz'ora...»

I cattolici sanno che la loro fede si fonda sulla Tradizione e sulle Sacre Scritture; sanno anche che queste ultime sono state ispirate da Dio e scelte dalla Chiesa fra tanti altri documenti considerati non ispirati e quindi apocrifi. La caratteristica di ogni eresia consiste nel mettere in contrasto dialettico due verità, o due aspetti della verità, e così accade in occasione dell'eresia protestante che sceglie la Scrittura e abbandona la Tradizione, cioè la Chiesa come Maestra e interprete delle Scritture e custode della Rivelazione. Ora, i cattolici, per opporsi alla penetrazione dello spirito protestante e nell'esasperazione del clima polemico, accantonarono la lettura e lo studio della Bibbia, partendo dal presupposto, esatto, che soltanto la Chiesa possiede l'autorità per risolvere eventuali dubbi in materia, ma limitando così l'influsso di uno dei più importanti elementi di arricchimento della vita spirituale, tanto che Paolo VI assicurerà l'indulgenza plenaria a coloro che leggeranno e mediteranno la Bibbia per almeno mezz'ora.

La Chiesa è perfettamente consapevole della fondamentale importanza delle Scritture anche come prezioso alimento spirituale dei fedeli; in questo senso interviene con il suo magistero sia per favorirne la lettura e lo studio, sia per diffonderne l'inerranza e l'assoluta ispirazione divina dagli attacchi dello scientismo moderno e dalle restrizioni avanzate dal modernismo. Come di fronte al protestantesimo, anche davanti agli errori del secolo XX, la Chiesa ritiene di dover intervenire.

Nella sua enciclica, Benedetto XV si richiama esplicitamente alla Providentissimus Deus di Leone XIII, del 18 novembre 1893, e all'opera di Pio X in questa direzione, in particolare alla fondazione dell'Istituto Biblico, avvenuta a Roma, il 10 maggio 1907.


Il valore storico dei testi

Dopo aver ricordato alcuni cenni biografici di san Gerolamo - il ritiro in Palestina e poi nel deserto siriano, la presenza a Roma accanto a papa Dàmaso dal quale riceve l'incarico di revisionare la versione latina del Nuovo Testamento, e infine il ritorno a Betlemme per consacrarsi interamente alla preghiera e allo studio dei testi sacri - l'enciclica di Benedetto XV passa a descrivere l'insegnamento del santo dalmata. Quest'ultimo aveva anticipato la dichiarazione di Leone XIII circa l'inerranza della Bibbia, inerranza che non viene meno «per il fatto che lo Spirito Santo s'è servito di uomini come di strumenti per scrivere», perché «diversamente non potrebbe essere lo Spirito Santo l'autore di tutta la Sacra Scrittura» (enciclica Providentissimus Deus). Benedetto XV denuncia le false interpretazioni dell'enciclica del suo predecessore, secondo le quali l'ispirazione divina si limiterebbe all'aspetto religioso della Scrittura, ma non riguarderebbe i fenomeni naturali e i fatti storici. «Non è così che Gerolamo, Agostino e gli altri Dottori della Chiesa hanno compreso il valore storico degli Evangeli», aggiunge il papa, soffermandosi poi, nella terza parte dell'enciclica, a descrivere la dottrina di san Gerolamo e il suo amore per la Scrittura. Il papa raccomanda ancora la diffusione della Società di San Gerolamo, sorta con «lo scopo di [...] estendere la diffusione dei quattro Vangeli e degli Atti degli Apostoli, in modo che questi libri trovino finalmente il loro posto in ogni famiglia cristiana e che ognuno prenda l'abitudine di leggerli e meditarli ogni giorno». In conclusione, dopo aver ricordato, nella quarta parte del documento, i frutti spirituali colti da san Gerolamo accostando la Scrittura, Benedetto XV esorta alla fedeltà alla Chiesa e all'amore per le Sacre Scritture, alla difesa di queste ultime da tutti gli attacchi e dalle riduzioni alle quali sono sottoposte, e infine invita a osservare con cura le prescrizioni contenute nella presente enciclica e nella precedente di Leone XIII, la Providentissimus Deus.


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APPENDICE AL PARAGRAFO 3 

DEL CAPITOLO IV


UNA RISPOSTA BRUTALE


Per documentare il clima di tensione venutosi a creare fra la Santa Sede e il governo dell'URSS, al potere dopo l'Ottobre, riportiamo la missiva inviata 1'11 marzo 1918 dal commissario del popolo agli Esteri russo, Georgij V. Cicerin, in risposta a una preoccupata richiesta di informazioni fatta pervenire a Mosca dal cardinal Gasparri, segretario di Stato di Benedetto XV, a causa delle tragiche notizie di uccisioni e violenze perpetrate contro i fedeli e la gerarchia della Chiesa ortodossa da parte delle forze rivoluzionarie. Cicerin non si limita a smentire spudoratamente i fatti - d'altronde confermati parzialmente dalla stessa stampa sovietica dell'epoca - ma contrattacca, riversando sull'interlocutore accuse e responsabilità.


«Dopo la separazione della chiesa dallo stato che è stata attuata in Russia, la religione è considerata un fatto privato, per questo motivo è senz'altro errato parlare di persecuzioni contro i rappresentanti della religione in Russia. Tenendo presente il particolare interesse da Lei manifestato verso una religione che la chiesa cattolico-romana ha definito eretica, e che Lei oggi designa come ortodossa, Le posso garantire che nessun rappresentante di questa religione ha avuto a soffrire a causa delle proprie convinzioni.

«Le testimonianze di solidarietà delle varie chiese ci giungono proprio nel momento in cui le nostre autorità hanno finalmente tolto la maschera all'inganno clericale con cui si raggiravano le masse popolari.

«Ritengo necessario sottolineare che nel momento esatto in cui ponevano qualche limitazione al clero, venivano compiute innumerevoli atrocità da parte dei nemici del popolo russo. L'autentico umanitarismo, per il quale combatte la nostra rivoluzione, non è stimato da quanti vengono considerati vostri seguaci.»


GeorgiJ V. Cicerin 

(pubblicata in L'altra Europa, anno XII, n. 6, novembre.dicembre 1987)




4. IL CODICE DI DIRITTO CANONICO

di Emanuela Comerio Galvagni


Il Codex Iuris Canonici del 1917 rappresenta nel diritto della Chiesa un'innovazione di incomparabile portata. Viene promulgato da Benedetto XV con la costituzione Providentissima Mater Ecclesiae il 27 maggio 1917 ed è pubblicato il 28 giugno dello stesso anno, mediante inserzione negli Acta Apostolicae Sedis.

La nuova normativa, entrata in vigore il 19 maggio 1918, si compone di 2414 canoni raccolti in cinque libri. Il valore giuridico del Codice è quello di una collezione autentica ed unica, ma non universale ed esclusiva; non universale perché il Codice riguarda solo la Chiesa latina e non esclusiva perché non comprende la totalità del diritto: non comprende infatti le leggi liturgiche; non abroga gli accordi della Santa Sede e lascia intatti i diritti acquisiti ed i privilegi disposti dalla Santa Sede che siano ancora in uso, purché non espressamente revocati.


La genesi del Codice Pio-Benedettino

Il Codice del 1917, conosciuto anche come Codice Pio-Benedettino, dal nome dei due pontefici che intervennero nella sua redazione, costituisce il risultato di un lunghissimo lavoro avviato ufficialmente nel 1904, ma che si snoda, ancor prima, nell'ampio dibattito sul processo di codificazione del diritto della Chiesa.

Molti, a più riprese e con vigore, ribadiscono l'esigenza di un intervento radicale, quale solo poteva essere una codificazione, che eliminasse gli inconvenienti di una legislazione frammentata e dispersa in più fonti stratificatesi nei secoli. Non mancano però quelli che avanzano critiche alle istanze dilaganti, manifestando il timore che, abbandonando il sistema tradizionale delle collezioni, si finisca con il privilegiare i concetti giuridici e le formule astratte, in ossequio ad una concezione secolarizzante della Chiesa, sempre più assimilata alle società statuali (cfr. GIORGIO FELICIANI, Le basi del Diritto Canonico, Il Mulino, Bologna 1984, p. 18).

Il dibattito sembra perdere importanza con la pubblicazione del motu proprio Arduum sane munus, con cui Pio X avvia i lavori per la redazione del Codice. Una commissione speciale, composta da cardinali designati dal papa, dirige i lavori.

La stesura dei canoni richiede approfondite conoscenze giuridiche e, per questo motivo, la collaborazione si estende a consultori specializzati in diritto ed in teologia, la cui nomina spetta ai membri della commissione cardinalizia, salva approvazione del pontefice. Il numero degli Acta Apostolicae Sedis in cui è contenuto il motu proprio Arduum sane munus riconferma, in una nota marginale, la lista dei sedici cardinali che Pio X aveva nominato membri della commissione.

Tuttavia ci si rende subito conto che la commissione è troppo numerosa perché possa adeguatamente far fronte al proprio compito. Allora, su suggerimento di monsignor Pietro Gasparri, al quale è affidata l'immane attività di coordinamento dei lavori, il pontefice crea una nuova commissione di cinque cardinali scelti nell'ambito della commissione plenaria: Ferrata, Cavagnis, Cavicchioni, Gennari e Vives y Tuto.

Monsignor Gasparri, segretario della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, è nominato segretario di questa commissione ristretta. Per questo motivo, tutto quello che riguarda l'amministrazione della commissione cardinalizia e del collegio dei consultori viene affidato alla Cancelleria della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari.

Il 25 marzo 1904 il santo padre ratifica la scelta di diciassette consultori, a cui se ne aggiungeranno altri venticinque. Essi appartengono a nazionalità diverse, ma sono in maggior parte italiani. Sempre il 25 marzo 1904, il cardinale segretario di Stato, Raffaele Merry del Val invia la circolare Pergratum mihi a tutti i metropoliti della Chiesa, al fine di sollecitare l'apporto di tutti coloro che abbiano il diritto di prendere parte ai Concilii provinciali, apporto che sii concretizza nell'invio alla S. Sede di suggerimenti su tutte le innovazioni alla disciplina canonistica ritenute indispensabili.

In un'altra circolare i vescovi sono invitati a designare uno o due specialisti di diritto canonico e di teologia che avrebbero avuto il diritto di far parte della commissione dei consultori.

Il pontefice, su ispirazione di monsignor Gasparri, redige, 1'11 aprile 1904, un'istruzione che contiene alcune direttive sul testo del futuro Codice e sul merito dei lavori, direttive che troveranno poi puntuale attuazione.

Il Codice avrebbe dovuto contenere unicamente disposizioni disciplinari e, soltanto se ritenuto opportuno, si sarebbe consentita l'enunciazione di qualche principio di diritto naturale o relativo alla stessa Fede, «quae ad jus naturale vel ad ipsam fidem referrentur», ma le disposizioni dogmatiche avrebbero potuto trovare spazio solo se in stretto rapporto con le istituzioni giuridiche. Le fonti utilizzabili sarebbero state: il Corpus Iuris Canonici, i decreti del Concilio di Trento e del Vaticano I, gli atti delle Congregazioni romane e dei tribunali romani.

I lavori dei cardinali e dei consultori hanno inizio con la prima sessione dei consultori che si tiene a Roma il 13 novembre 1904. Nel 1907 monsignor Pietro Gasparri viene nominato cardinale e questo gli permette di assumere la presidenza della commissione cardinalizia.

Tra il 1912 ed il 1914 il progetto è quasi terminato e, prima di sottoporlo all'approvazione del pontefice, il cardinale Gasparri propone di inviarlo a tutti i vescovi della Chiesa latina. La sua richiesta incontra però l'opposizione di alcuni cardinali che la ritengono un'inutile perdita di tempo; il santo padre decide di seguire il suggerimento del cardinale Gasparri e, a partire dal 1912, si stampano i libri del progetto in volumi che vengono inviati ai vescovi e a tutti coloro che abbiano il diritto di prendere parte ai Concili i generali.

Nel 1912 sono stampati ed inviati i primi due libri, il primo aprile 1913 è stampato il terzo libro, il primo luglio 1913 viene inviato il quarto libro e il 15 novembre 1914, infine, viene inviato anche il quinto libro. Le osservazioni dell'episcopato giungono alla Santa Sede numerose, dimostrando l'utilità dell'idea del cardinale Gasparri.

Nel frattempo, il lavoro dei consultori continua incessantemente e, nel 1916, il Codice sta per essere stampato, ma Benedetto XV, succeduto intanto a Pio X, decide di rinviarne la promulgazione e di rimettere il progetto ai cardinali e ai membri della Curia romana per un ultimo esame.

Uno dei motivi più importanti tra quelli addotti a favore della codificazione del Diritto Canonico è la necessità di porre fine alla confusione legislativa. La molteplicità delle fonti e, soprattutto, la frequente irreperibilità degli atti in cui la normativa era venuta a stratificarsi nei secoli, avevano reso quasi impossibile la conoscenza e la fedele applicazione del diritto.

Non c'è da stupirsi se, in una simile situazione, si auspicasse con fervore un radicale intervento di razionalizzazione. In tale prospettiva, il Codice ha sicuramente contribuito ad una maggiore conoscenza delle leggi ecclesiastiche, ha consentito uno svolgimento più ordinato della vita ecclesiale e ha dato impulso agli studi canonistici.


I principali artefici

Tuttavia, risolvere il processo di codificazione del Diritto Canonico in un mero lavoro di riordino e di semplificazione della materia sarebbe fuorviante. Un quadro completo del processo di codificazione non può prescindere dal ruolo, dai compiti e dall'atteggiamento di quelli che ne furono i principali artefici. Mentre l'episcopato ed i consultori sembrano insistere per una rigida uniformità disciplinare e, talvolta, per una maggiore severità della normativa, il cardinale Gasparri e gli altri membri della commissione cardinalizia assumono un atteggiamento «moderato».

Il termine non è forse tecnicamente appropriato, ma è l'unico capace di esprimere la prudenza, la consapevolezza di dover contemperare interessi diversi e spesso contrastanti, il rifiuto di ogni tentativo volto ad inquadrare rigidamente la poliedricità e la varietà della vita concreta in fattispecie astratte. Se, per certi aspetti, la codificazione canonica subisce il mito dei codici delle moderne società statuali e, in questo senso, affiora una visione della Chiesa intesa come societas iuridice perfecta, è anche vero che non viene dimenticata la specificità della Chiesa, derivante dalla constatazione che i suoi fini si proiettano nell'escatologia.

Nei casi in cui i consultori sembrano accantonare la tendenza dei fini per privilegiare le costruzioni teoriche e le questioni esclusivamente giuridiche, si interviene per ricondurre la disquisizione alle reali situazioni di vita della Chiesa, per verificare la possibilità di applicazione della normativa e per valutarne l'efficacia in relazione ai bisogni pastorali. In quest'ottica si colloca la partecipazione dell'episcopato che, nelle proprie osservazioni e nelle proprie richieste, espone problemi e necessità quotidiane; infatti, la consultazione dell'episcopato ha proprio lo scopo di evitare che la teoria prevalga sulle necessità concrete della vita pastorale.


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APPENDICE AL PARAGRAFO 4 

DEL CAPITOLO IV


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LO STATUTO DELLA PALESTINA


Ricorderete certamente che nel Concistoro segreto del 10 marzo 1919 Noi Ci mostrammo assai preoccupati della piega che prendevano gli avvenimenti, dopo la guerra, in Palestina; terra tanto cara a Noi e ad ogni cuore cristiano, perché consacrata dallo stesso Redentore Divino nella sua vita mortale. Se non che, lungi dal diminuire, quella Nostra apprensione si va purtroppo ogni giorno aggravando.

Infatti se Noi allora lamentammo l'opera nefasta svolta in Palestina dalle sette acattoliche che pur sogliono gloriarsi del nome di cristiane, anche adesso dobbiamo alzare lo stesso lamento nel vedere che esse, provviste, come sono, abbondantemente di mezzi, proseguono la loro opera sempre più attiva, profittando abilmente della immensa miseria in cui quegli abitanti piombarono in seguito alla immane guerra [...]. Cosicché siamo costretti ad assistere con gran pena alla progressiva rovina spirituale di anime a Noi si dilette e per la cui salvezza lavorarono tanti uomini di zelo apostolico, primi fra tutti i figli del Serafico Patriarca d'Assisi.

Inoltre, quando i cristiani, per mezzo delle truppe alleate ritornarono in possesso dei Luoghi Santi, Noi ben di cuore Ci unimmo alla generale esultanza dei buoni; ma quella Nostra letizia non era disgiunta dal timore, espresso nella citata Allocuzione Concistoriale, che cioè in seguito a sì magnifico e lieto avvenimento, gli israeliti venissero a trovarsi in Palestina in una posizione di preponderanza e di privilegio. Se dobbiamo giudicare dallo stato presente, purtroppo ciò che temevamo si è verificato. È noto infatti che la condizione dei cristiani in Palestina non solo non è migliorata, ma è stata anzi peggiorata dai nuovi ordinamenti civili colà stabiliti, i quali mirano - se non nelle intenzioni di chi li ha promossi, certamente però nel fatto - a scacciare la cristianità dalle posizioni che ha finora occupate, per sostituirvi gli ebrei. Né possiamo inoltre non deplorare il lavoro intenso che molti fanno per togliere il carattere sacro ai Luoghi Santi, trasformandoli in ritrovi di piacere con tutte le attrattive della mondanità: il che, se è dappertutto riprovevole, molto più è dove si incontrano ad ogni passo le più auguste memorie della religione.

Ma poiché la condizione della Palestina, non è stata ancora definitivamente regolata, Noi fin d'ora leviamo la Nostra voce, affinché, quando sarà giunto il tempo di darle un assetto stabile, siano assicurati alla Chiesa Cattolica e a tutti i cristiani i diritti inalienabili che essi vi posseggono. Noi non vogliamo certamente che siano menomati i diritti dell'elemento ebraico; intendiamo però che essi non si debbano in alcun modo sovrapporre ai giusti diritti dei cristiani. E a questo scopo esortiamo caldamente tutti i Governi delle Nazioni cristiane, anche non cattoliche, a vigilare ed insistere presso la Società delle Nazioni, che, come si dice, dovrà prendere in esame il regolamento del mandato inglese in Palestina.


Benedetto XV

(Allocuzione al Concistoro del 13-6-1921 )



5. L'EPISTOLA SU DANTE ALIGHIERI


Il 30 aprile 1921 Benedetto XV pubblica l'epistola In praeclara summorum sulla figura di Dante Alighieri, nel sesto centenario della morte. Può apparire curioso ricordarla nel contesto di un'opera che, per evidenti ragioni di spazio, deve limitarsi a rievocare soltanto i principali documenti dei papi, ma essa contiene importanti osservazioni sul pensiero sociale di Dante e, oltretutto, si inseriva allora in una polemica contro coloro che celebravano Dante separandolo dal cristianesimo. Figura troppo grande per essere attaccata, l'Alighieri viene infatti spesso utilizzato dalle diverse ideologie prescindendo dalla sua fede e dalla cultura che ispira le sue opere.


La fede e la cultura di Dante

La Chiesa lo «reclama come suo figlio» - scrive Benedetto XV - e anzi rileva «come sia di somma giustizia l'attribuire in gran parte al Cattolicesimo gli elogi tributati a sì grande nome» e ricorda come Dante «durante tutta la sua vita ha professato in modo esemplare la religione cattolica».

Anche la cultura di Dante è cattolica, tanto che «prese a somma guida Tommaso d'Aquino», al quale «deve tutto». La sua Commedia - ricorda il pontefice - assume come scopo dichiarato «quello di esaltare la giustizia e la provvidenza di Dio» e presenta una serie di dogmi «in perfetta conformità con la fede cattolica»; anche la sua cosmologia, pure legata a elementi mitici dell'antichità, coglie comunque la verità fondamentale, secondo cui «è la volontà di Dio Onnipotente che imprime il moto a tutta la natura e che pone ovunque un riflesso più o meno potente della sua gloria».

Molti e preziosi sono gli insegnamenti contenuti nelle opere di Dante, validi ancora oggi per tutti i fedeli: l'epistola di Benedetto XV ricorda la sua «venerazione più assoluta della Sacra Scrittura» come opera ispirata da Dio, «un rispetto meraviglioso» per la Chiesa cattolica - che Dante chiama «la tenerissima madre» e «la sposa del Crocifisso» - e per il papa, che «proclama giudice infallibile della verità da Dio rivelata» e per i Concili, «ai quali - scrive - nessun fedele dubita che Cristo abbia partecipato». Se è vero che nelle sue opere Dante ha inveito contro ecclesiastici e anche nei riguardi di qualche pontefice del suo tempo, bisogna d'altra parte riconoscere che, in un'epoca in cui «certi membri del clero avevano una condotta poco edificante, queste invettive nascevano dall'amore profondo per la Chiesa». Sempre a questo proposito, il papa ricorda come qualche giudizio ingiusto ed eccessivo può essere perdonato ad un uomo, come Dante, «agitato dai flutti di enormi sfortune» e vittima di profonde ingiustizie. Se Dante si trovò in opposizione, per ragioni politiche, con uomini di Chiesa, l'epistola In praeclara summorum ricorda che l'Alighieri polemizzò «senza allontanarsi da quel rispetto che un buon figlio deve a suo padre, un buon figlio a sua madre, un buon figlio a Cristo, un buon figlio alla Chiesa». Dante poteva dissentire dai papi quanto a scelte umane, ma non si discosta mai dal loro magistero quanto ai princìpi.


Dante e la civiltà cristiana

Se l'opera di Dante non può essere compresa senza il legame con la Fede, così verrebbe travisata se non si tenesse conto che uno dei suoi scopi è «cantare le istituzioni cristiane, di cui egli contemplava con tutta l'anima la bellezza e lo splendore, comprendendole magnificamente e ritenendole sua stessa vita».

Cantore innamorato dell'idea imperiale in una prospettiva culturale rigorosamente cristiana - e non «ghibellina» nel senso di una separazione fra l'autorità temporale e quella spirituale, di stampo laicista -, Dante sostiene appunto che la dignità dell'imperatore viene direttamente da Dio; tuttavia - scrive - «questa verità non deve essere presa in un senso tanto assoluto che il Principe Romano non si sottometta, in questo o in quel punto, al Romano Pontefice; poiché la prosperità mortale della terra è in qualche sorta subordinata alla felicità eterna» (Monarchia, m, 16). «Principio eccellente e pieno di saggezza - commenta Benedetto XV - che, se oggi fosse osservato fedelmente, porterebbe agli Stati i più abbondanti frutti di prosperità».

L'epistola afferma ancora che l'opera di Dante è «una preziosa miniera di dottrina cattolica» non solo per la filosofia e la teologia, ma anche per una «sintesi delle leggi divine sul governo e sull'amministrazione degli Stati». L'essenza di questo insegnamento è che «il primo e più sicuro fondamento delle nazioni» è «il mantenimento dei diritti di Dio» e il rispetto della sua legge.

Benedetto XV ricorda anche come Dante sia «quasi un nostro contemporaneo», perché la funzione sociale della sua letteratura è vicina all'anima cattolica di ogni tempo e anche per l'utilizzazione del fascino della poesia «per guidare il lettore all'amore della verità cristiana», fine che si proponeva.


L'insegnamento di Dante nella scuola

In conclusione della sua epistola, Benedetto XV polemizza con gli autori laicisti dei programmi scolastici, che portano nelle scuole l'insegnamento su Dante ma cercano assurdamente di separarlo dalla fede e dall'amore per la civiltà cristiana: così, da Dante «i giovani non traggono quasi mai l'alimento di vita che il poema invece deve produrre». Occorre invece che gli insegnanti si sforzino di fare di Dante «un maestro di dottrina cristiana per gli studenti» riconoscendo nel poeta «il più eloquente dei predicatori e degli araldi della dottrina cristiana, Più voi l'amerete, più il raggio della verità trasfigurerà profondamente le vostre anime e più resterete servi fedeli e devoti della nostra Fede».


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APPENDICE AL PARAGRAFO 5

DEL CAPITOLO IV


DUE NUOVE REALTÀ: IL PARTITO POPOLARE E L'UNIVERSITÀ CATTOLICA

 

Il 18 gennaio 1919 viene lanciato da Roma l'appello «a tutti gli uomini liberi e forti» con cui nasce il Partito Popolare Italiano, che avrà don Luigi Sturzo come primo segretario politico. Pochi mesi dopo, il 2 aprile, padre Agostino Gemelli convoca un comitato promotore per gettare le basi del primo statuto dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Il Partito Popolare nasce dal complesso e variegato mondo cattolico del dopoguerra ed è caratterizzato da una componente che esce dall'esperienza modernista dei primi venti anni del secolo - come ricorda lo stesso don Murri nell'intervista che abbiamo riportato più sopra - ma anche da cattolici conservatori e da una cosiddetta «ala destra» composta da cattolici intransigenti come Filippo Sassoli de' Bianchi, Stefano Reggio d'Aci, Vincenzo Del Giudice e lo stesso Giovanni Battista Paganuzzi, che contestano l'aconfessionalità del PPI. Ma la critica al partito più conosciuta è quella contenuta nell'opuscolo di padre Gemelli e di Mons. Francesco Olgiati Il programma del Partito Popolare Italiano. Come non è e come dovrebbe essere, che accusa il programma del partito di essere succube dell'ideologia liberale e di annacquare la propria fisionomia cattolica.

Proprio gli autori di questo opuscolo sono i principali artefici del progetto che negli stessi giorni porta anche in Italia alla fondazione di una università cattolica. A lungo desiderata dai cattolici dell'Opera dei Congressi nel clima di opposizione al monopolio educativo detenuto dallo Stato liberale negli ultimi decenni dell'Ottocento, l'Università Cattolica può nascere in seguito alla prima guerra mondiale con il duplice riconoscimento della Santa Sede e dello Stato italiano. Viene infatti inaugurata il 7 dicembre 1921 alla presenza del cardinale Achille Ratti, nominato per l'occasione legato pontificio, del segretario del PPI, don Sturzo, che pronuncia un discorso unitamente al rettore, padre Gemelli, e al sottosegretario alla Pubblica Istruzione, on. Anile, deputato dello stesso PPI.

 


V . PIO XI, UN PAPA NELL'ETA' DEI TOTALITARISMI

(1922-1939)



1. LA VITA, IL PONTIFICATO


Cercò sempre di fare tutto nel miglior modo possibile, dalla mansione più umile a quella più importante, secondo lo spirito che ispirerà queste sue parole, scritte da sommo pontefice: «Le cose straordinarie difficilmente si presentano; la vita di tutti è un tessuto di piccole cose, di cose comuni [...] che possono divenire straordinarie quando siano compiute con la perfezione della virtù cristiana» (discorso del 17 dicembre 1922). Ma a questo papa toccherà il non facile compito di guidare la Chiesa cattolica negli anni difficili che precedono la seconda guerra mondiale.


Achille Ratti, da Desio

Era nato a Desio, nella provincia di Milano, il 31 maggio 1857. Ordinato sacerdote nel 1879, tre anni dopo ritorna da Roma nella diocesi milanese con tre lauree, in diritto canonico, filosofia e teologia. Viene assegnato alla parrocchia di Barni, in Valassina, poi incaricato dell'insegnamento in seminario e quindi, nel 1888, viene nominato Dottore della Biblioteca Ambrosiana della quale, nel 1907, diventa prefetto. Alla Biblioteca Ambrosiana, nel 1890, inizia la pubblicazione degli Acta Ecclesiae mediolanensis, ma nel 1911, per volontà di Pio X, viene chiamato anche alla Biblioteca Vaticana, come vice-prefetto.

Nel 1918 diventa prefetto della Biblioteca Vaticana, ma l'anno seguente un nuovo incarico completamente diverso dai precedenti lo porta lontano da Roma e dall'Italia: viene infatti nominato visitatore apostolico in Polonia e l'anno successivo diventa nunzio della nazione appena ricostruita, in seguito alla prima guerra mondiale.

Nella nazione polacca conoscerà da vicino il problema rappresentato dall'ideologia socialista, appena insediatasi al potere nella vicina Russia, dopo la Rivoluzione d'Ottobre del 1917. Nel 1920 rimarrà, unico fra i diplomatici, nella Varsavia assediata dall'Armata Rossa e negli stessi mesi assisterà al «miracolo della Vistola», cioè alla vittoria delle truppe polacche contro quelle socialiste, avvenuta proprio attorno al fiume polacco dal quale prenderà il nome. Sempre a Varsavia, il 28 ottobre 1919, era stato consacrato vescovo.

Nel 1921 viene sottratto alla vita diplomatica per quella pastorale, in quanto nominato arcivescovo di Milano. Guiderà la diocesi ambrosiana soltanto per cinque mesi, perché il 6 febbraio 1922 viene eletto papa.


Con il passo dello scalatore

Dopo essersi dedicato agli studi e all'attività diplomatica per molti anni, in pochi mesi di vita pastorale diventa la guida dei cattolici del mondo. Avrebbe immediatamente sorpreso tutti impartendo la prima benedizione Urbi et Orbi dalla loggia esterna della basilica di San Pietro, per la prima volta dopo la Breccia di Porta Pia; con questo gesto indica immediatamente la disponibilità della Santa Sede a cercare una forma di convivenza con gli Stati moderni - che si sarebbe poi concretizzata nei numerosi Concordati stipulati durante il pontificato - allo scopo di garantire giuridicamente l'azione dei cattolici nella vita pubblica contemporanea.

Trascorrono molti mesi dall'elezione alla prima enciclica e il fatto, inusuale, non passa inosservato e viene criticato: ma invece di rappresentare una difficoltà, questa attesa prelude a un'attività straordinariamente ricca, come dimostreranno le ventitré encicliche e l'alto numero di documenti e discorsi. Così spiegherà il cardinale Carlo Confalonieri rievocando Pio XI nel trentesimo anniversario della morte: «Non sapevano che lo scalatore (e tale egli era stato, nel senso più genuino della parola) usa procedere con passo lento e misurato, proprio per arrivare più sicuramente alla meta. Se ne accorsero, quando pochi giorni avanti Natale uscì la prima e programmatica Lettera Enciclica Ubi Arcano Dei e assistettero negli anni successivi al massiccio succedersi di opere, avvenimenti e documenti, da "togliere il respiro"» (in Achille Ratti visto da vicino, I quaderni albiatesi de «il Cittadino della domenica», n. 30, 7-12-1988, p. 17).


Le tre encicliche programmatiche

Luigi Crippa - un autore che ha recentemente curato la pubblicazione di alcune fra le principali encicliche di Pio XI (Contro i nuovi idoli, Messaggero, Padova 1983) - ritiene che il programma del pontificato di Pio XI si articoli attorno a tre documenti principali, le encicliche Ubi arcano Dei, Quas primas e Miserentissimus Redemptor.

La prima, del 23 dicembre 1922, inaugura il pontificato, anche se cronologicamente era stata preceduta da una Lettera apostolica ai vescovi italiani, pubblicata il 6 agosto dello stesso anno. Come avviene in tutte le encicliche inaugurali, il papa vi traccia le linee di fondo a cui ispirerà la sua azione e lancia la «parola d'ordine» del pontificato.

L'enciclica Ubi arcano Dei parte dalla constatazione del permanere di una crisi mondiale a quattro anni dalla fine della guerra, crisi internazionale caratterizzata dal fatto che i popoli non hanno ancora ritrovato le vie della pace. Questa crisi si ripercuote anzitutto nella vita interna delle singole nazioni, manifestandosi attraverso il dilagare della lotta di classe, particolarmente in seguito alla vittoria bolscevica in Russia, e la continua lotta fra i partiti, vero cancro che corrode le democrazie rappresentative, i regimi «più esposti al sovvertimento delle fazioni» scrive Pio XI.

Questa crisi sociale, continua l'enciclica, arriva a colpire la famiglia e di conseguenza compie l'ultimo passaggio, giungendo fino all'individuo, preda, scrive il pontefice, di una «irrequietezza morbosa in ogni età e condizione», del «disprezzo dell'ubbidienza» e «dell'intolleranza della fatica», della dimenticanza del pudore e della «ostentazione del lusso», che spesso diventa «insulto aperto dell'altrui miseria».

Il papa mostra così come ogni crisi internazionale si ripercuota sui singoli uomini e ricorda anche le tristi conseguenze della guerra nell'ordine spirituale, come la mancata riapertura di molte chiese utilizzate per usi profani durante il conflitto, la mancata riapertura di seminari, l'eliminazione in molti luoghi della predicazione della parola di Dio e l'impossibilità per molti missionari di ritornare nelle terre di missione dove si trovavano prima che iniziasse il conflitto. Tutti questi mali non possono essere dimenticati, nonostante alcuni aspetti positivi siano emersi nel corso del conflitto, che il papa ricorda per dimostrare come Dio sappia trarre il bene anche dal male.

L'enciclica non si limita a descrivere la crisi ma ne indica le cause e i possibili rimedi. Anzitutto la triplice concupiscenza, che opera non soltanto fra gli individui ma anche fra le nazioni, come dimostrano «lo smoderato nazionalismo» ma soprattutto il rifiuto di Dio, espulso dalla società, dalla famiglia e dalla scuola; quest'ultima è la causa delle cause della crisi che colpisce le nazioni e gli individui, e contro questo male - che l'enciclica Quas primas identifica nel laicismo, «la peste dell'età nostra» - Pio XI indica il rimedio principale nella formula «Pax Christi in regno Christi», che diventerà il programma del pontificato.


La regalità di Gesù

Per realizzare la pace, scrive il pontefice, bisogna instaurare il regno di Cristo, riassumendo così i due propositi principali dei suoi predecessori, Pio X («instaurare omnia in Christo») e Benedetto XV, (porre fine a «l'inutile strage»). Il tema della regalità di Cristo viene sviluppato nell'enciclica Quas primas, dell'11 dicembre 1925, con la quale viene istituita in tutta la Chiesa universale la festa liturgica di Cristo re, da celebrarsi l'ultima domenica del mese di ottobre.

Gesù Cristo - afferma Pio XI - non è re soltanto per diritto di natura, in quanto seconda persona della Santissima Trinità, ma anche per diritto di conquista, avendo come Uomo «conquistato» tale titolo con il sacrificio della sua vita per la redenzione degli uomini e del mondo. Come tale, Gesù Cristo ha in sé la triplice potestà legislativa (cfr. Gv. 14,15 e 15,10), giudiziaria («il Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al figlio», Gv. 5,22) ed esecutiva, poiché tutti coloro che vogliono sfuggire al castigo eterno devono obbedire ai suoi comandi.

Il suo regno «non è di questo mondo» e nel corso della sua vita terrena Gesù ha sempre voluto dissipare l'equivoco che lo voleva come il Messia temporale venuto sulla terra per ripristinare il regno d'Israele e scacciare i romani. Ma - aggiunge Pio XI - «gravemente errerebbe chi togliesse a Cristo-Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che egli ha ricevuto dal padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio». Nello stesso senso, continua il papa, non si deve credere che la regalità di Cristo riguardi soltanto i battezzati, perché essa si estende su tutto il genere umano, come aveva già ricordato Leone XIII nell'enciclica Annum Sacrum del 25 maggio 1899. E, ancora, Pio XI ricorda come questa regalità non riguardi soltanto i singoli ma abbracci anche le nazioni, e in questo senso si appella a tutti i capi perché prestino «pubblica testimonianza di riverenza e di ubbidienza all'impero di Cristo insieme ai loro popoli», perché «è lui solo la fonte della salute privata e pubblica».

Se con la prima enciclica Ubi arcano Dei, Pio XI aveva esaminato la gravità e le cause della crisi dell'umanità, indicandone anche i principali rimedi, con la Quas primas e con l'istituzione della festa liturgica di Cristo re, il papa vuole ribadire che la regalità di Cristo è universale e sociale, e pertanto rappresenta il più efficace ostacolo alla diffusione del laicismo, questo male dell'epoca che porta gli uomini e le nazioni a organizzare la loro vita personale e pubblica come se Dio non esistesse e spesso in opposizione alla sua legge.


La riparazione al Sacro Cuore

Che cosa avrebbero dovuto fare i fedeli per favorire la restaurazione della regalità di Cristo e così opporsi al laicismo diffuso dalle ideologie del tempo? Dal mancato riconoscimento della regalità di Cristo e dalla correlativa offesa, nasce il dovere della riparazione da parte dei cristiani verso Colui che viene dimenticato ed oltraggiato dal mondo. Per questo fine viene promulgata l'enciclica Miserentissimus Redemptor, del 9 maggio 1928, esplicitamente collegata con le apparizioni avvenute a santa Margherita Maria Alacoque, nel 1674, a Paray-le-Monial, che iniziarono la diffusione del culto al Sacro Cuore in tutto il mondo cattolico.

La prima conseguenza della diffusione di questo culto era stata la pratica della consacrazione, mediante la quale singoli, famiglie, associazioni, Stati e infine, nel 1900, per iniziativa di Leone XIII, tutto il genere umano, si erano consacrati al Sacro Cuore di Gesù. Ma l'offerta di sé stessi e delle proprie opere non poteva bastare di fronte agli oltraggi ai quali il Redentore era continuamente sottoposto, e appunto così nasce il proposito della riparazione al Cuore di Gesù, per «risarcire gli oltraggi in qualsiasi modo recatigli», cominciando dai peccati personali.

Il sacrificio di Cristo ha certamente espiato tutto il debito contratto dal peccato dell'uomo con Dio; ma, come ha scritto sant'Agostino, rimanevano da compiersi le sofferenze nel Corpo di Cristo, cioè nella Chiesa. Così il sacrificio del Signore continua a rinnovarsi, anzitutto nella Messa, ma richiede anche la collaborazione riparatrice di tutti i fedeli, tanto più nel mondo moderno «i cui re o governi veramente si sono sollevati e hanno congiurato insieme contro il Signore e contro la sua Chiesa», come ricorda la Miserentissimus Redemptor.

Questa azione riparatrice - afferma Pio XI - non ha soltanto una funzione espiatrice, ma anche consolatoria. Misticamente, cioè misteriosamente, ma realmente, Dio ha voluto essere consolato dalle preghiere, dai sacrifici e dalle opere degli uomini. Quando Gesù si trovava in agonia nell'orto durante la sua Passione, angosciato fino a sudare sangue per i peccati degli uomini, compresi quelli futuri ma previsti, «non è a dubitare - scrive il papa - che qualche conforto non abbia anche fin d'allora provato per la previsione della nostra riparazione».


Un'opera di consolazione

Riparazione, dunque, sia individuale che sociale, ma anche opera di consolazione verso il Cuore di Gesù, imitando l'Angelo che lo conforta durante l'agonia nell'orto dopo aver sudato sangue. Queste sono le indicazioni che il papa affida alla Miserentissimus Redemptor, con la speranza di promuovere la diffusione di questa pratica riparatrice, allo scopo anche ordinando la lettura di un atto di riparazione in tutte le chiese in occasione della festa del Sacro Cuore.

La pace di Cristo attraverso il riconoscimento della sua regalità e per mezzo di opere riparatrici: ecco il programma e lo scopo ultimo del lungo pontificato di papa Ratti.


L'ultimo discorso

Pio XI muore il 10 febbraio 1939 alla vigilia del decennale della Conciliazione; per questa importante ricorrenza aveva convocato a Roma tutti i vescovi italiani, che assistono ai suoi solenni funerali non avendo potuto ascoltare il discorso che aveva preparato per l'anniversario. Quest'ultimo - che darà luogo a molte congetture perché, diranno alcuni storici, ma non era vero, avrebbe contenuto una condanna del regime fascista - verrà pubblicato nella sua parte sostanziale da Giovanni XXIII.


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APPENDICE AL PARAGRAFO 1 

DEL CAPITOLO V


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EVENTI POLITICI DURANTE

I PONTIFICATI DI PIO XI E PIO XII


1921-1926

Avvicinamento fra Russia e Germania che stipulano il Trattato di Rapallo, nel 1922, con il quale viene sancita la clausola della nazione favorita negli scambi commerciali. C'è una clausola segreta che permette alla Germania di addestrare gli ufficiali delle truppe corazzate e i piloti militari in Russia, e a quest'ultima di ottenere l'assistenza di tecnici tedeschi per la produzione bellica.


28-10-1922

Dopo la marcia su Roma delle Camice Nere fasciste, Benito Mussolini viene nominato presidente del Consiglio dal re Vittorio Emanuele III.


1923

Occupazione francese della Ruhr in seguito alla mancata osservanza da parte della Germania di quanto stabilito dal Trattato di pace. Riprendono comunque i negoziati.


1925

Con la mediazione inglese e italiana si giunge al Trattato di Locarno, che stabilisce un periodo di distensione in Europa. La Germania riconosce i confini occidentali e la smilitarizzazione della Renania; viene così ammessa nella Società delle Nazioni.


23/29-10-1929

Crolla la Borsa.valori di New York: crisi economica in quasi tutti i paesi europei. Negli USA la produzione industriale diminuisce dal 1929 al 1932 del 54%. Ne derivano fallimenti, disoccupazione e crack bancari. Con l'elezione di F. D. Roosevelt, nel 1933, comincia il New Deal, che prevede un maggiore intervento dello Stato nella vita economica del paese.


4-1-1933

Hitler è nominato Cancelliere dal presidente Hindenburg; con la «legge sui pieni poteri» del 21.3 il parlamento perde ogni autorità a vantaggio del governo, presieduto da Hitler.


1935

In aprile, alla Conferenza di Stresa, Gran Bretagna, Francia e Italia condannano le violazioni degli obblighi previsti dalla Società delle Nazioni da parte della Germania.


1936

Il 7 marzo Hitler decide l'occupazione della Renania smilitarizzata. Le nazioni occidentali reagiscono solo con proteste formali e comincia così il riarmo ufficiale tedesco.


1936-1938

In URSS avviene la Grande Purga, con l'eliminazione dei vecchi rivoluzionari nel partito e nell'esercito. Oltre ai rivali, socialisti, Stalin fa deportare e assassinare milioni di cittadini.


agosto 1936

Inizia la guerra civile in Spagna.


13.3.1938

«Anschluss»: l'Austria viene incorporata al Reich.


29.9.1938

Patto di Monaco tra Francia, Inghilterra, Germania e Italia, in cui viene decisa la cessione dei Sudeti dalla Cecoslovacchia alla Germania.


15/16-3-1939

Marcia delle truppe tedesche sulla Cecoslovacchia. È proclamato il Protettorato del Reich su Boemia e Moravia.


26-3-1939

Rottura dei negoziati fra Germania e Polonia. Denuncia del patto navale anglo-tedesco, dopo la dichiarazione di garanzia per la Polonia da parte di Francia e Inghilterra (31-3).


22-5-1939

«Patto di Acciaio» fra Germania e Italia, che contempla il reciproco intervento in guerra a sostegno dell'alleato coinvolto in un conflitto.


27-8-1939

Patto di non aggressione fra URSS e Germania, con un protocollo segreto che definisce le reciproche zone d'influenza nell'Europa Orientale.


1-9-1939

Attacco tedesco alla Polonia. Mussolini dichiara la non belligeranza. Dopo una campagna militare di circa un mese, la Polonia diventa un Governatorato generale asservito alla Germania.


3-9-1939

Scaduto l'ultimatum, Inghilterra e Francia dichiarano guerra alla Germania.


17-9-1939

L'URSS invade la Polonia orientale.


28-9-1939

Trattato sovietico-tedesco di amicizia, che lascia mano libera all'URSS in Lituania, Lettonia, Estonia.


30-11-1939

Attacco sovietico alla Finlandia, che provoca l'espulsione dell'URSS dalla Società delle Nazioni.



2. SULL'EDUCAZIONE


Il 31 dicembre 1929, al termine dello stesso anno in cui aveva stipulato la Conciliazione con lo Stato italiano, Pio XI promulga un'enciclica - la Divini illius Magistri - sul tema dell'educazione, esprimendo così l'attenzione della Chiesa verso questo settore tanto importante per la vita delle nazioni.

«Si dedicano tante cure per la vita professionale e si è impreparati nel compito più importante che riguarda l'educazione dei figli». Pio XI rivolge questo monito ai genitori cristiani nell'ambito della Divini illius Magistri, un vero trattato sull'educazione, scritta nella prima stesura in lingua italiana, forse per ricordare al regime fascista che il mondo cattolico non avrebbe abdicato su un terreno così decisivo.


A chi spetta l'educazione?

«L'educazione è opera necessariamente sociale, non solitaria»: tale opera, scrive il papa, secondo il progetto divino appartiene alla famiglia e alla società civile, nell'ambito naturale, e alla Chiesa, società di ordine soprannaturale. A quest'ultima, l'educazione appartiene per l'espressa missione ricevuta da Gesù Cristo «Andate, ammaestrate tutte le genti» (Mt. 28,19) e a causa della maternità spirituale che la contraddistingue, per cui sant'Agostino scriveva che «non avrà Dio per padre chi avrà rifiutato di avere la Chiesa per madre».

Alla famiglia la missione di educare è stata data direttamente dal Creatore e questo diritto è anteriore a qualsiasi intervento della società civile e dello Stato. Quest'ultimo ha certamente il diritto di riservarsi alcuni ambiti educativi - come «l'istituzione e la direzione di scuole preparatorie ad alcuni suoi dicasteri e segnatamente alla milizia» - ma il suo intervento nel campo dell'educazione deve rispettare il principio di sussidiarietà, cioè deve «proteggere e promuovere, non già assorbire, la famiglia e l'individuo, o sostituirsi ad essi».

Pio XI mette in luce anche alcuni aspetti negativi della cultura pedagogica del tempo, soprattutto ispirata al «naturalismo pedagogico», che non tiene conto o addirittura nega l'esistenza e le conseguenze del peccato originale e la necessità di correggere le inclinazioni disordinate del giovane. Il papa mette così in guardia contro i tentativi di sottrarre «l'educazione da ogni dipendenza della legge divina», dalla cosiddetta «educazione sessuale» e dalla «coeducazione», che favorisce la promiscuità e l'uguaglianza livellatrice, dimenticando la diversità e la complementarietà dei sessi secondo il progetto originario di Dio.


L'importanza dell'ambiente

Assolutamente necessaria, affinché si possa educare con speranza di risultati positivi, è la presenza di ambienti adatti e favorevoli, quali dovrebbero essere la famiglia, la Chiesa e la scuola. Quest'ultima, in particolare, è molto importante perché in essa il giovane trascorre gran parte della sua giornata, ricevendone una notevole influenza. In particolare, la Divini illius Magistri condanna la scuola neutra, laicista, che esclude la religione dall'insegnamento, ma ricorda che non è sufficiente inserire l'istruzione religiosa per rendere la scuola conforme ai princìpi cristiani. Su questo punto il papa sembra fare appello alla necessità dell'«unità del sapere» nei programmi scolastici, affinché la religione sia il coronamento di un insegnamento coerente in tutte le materie e allo scopo di superare quelle forme di relativismo grazie alle quali ogni insegnante «dice la sua», con il risultato di disorientare gli studenti.

Perciò, dice il pontefice, bisogna che lo Stato rispetti il diritto anteriore della famiglia ad avere una scuola conforme ai suoi princìpi, anzitutto rinunciando alla scuola che prevede l'insegnamento della religione ma con professori anche non cattolici, e lasciando libertà e sostenendo anche finanziariamente le scuole volute dalla Chiesa e quelle promosse da genitori.

A distanza di oltre sessant'anni e nonostante i Patti Lateranensi, il desiderio di Pio XI di vedere la scuola espressione delle esigenze della famiglia e organizzata in modo conforme ai princìpi naturali e cristiani non si è ancora avverato, almeno in Italia, dove lo Stato continua a penalizzare le scuole non statali costringendo i genitori che le scelgono a pagare rette spesso molto alte e senza alcuno sgravio fiscale, a fronte della virtuale gratuità della scuola di Stato.



3. LA QUADRAGESIMO ANNO NELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA


L'uomo è un essere sociale che secondo il progetto di Dio raggiunge la pienezza della sua umanità attraverso i rapporti con i suoi simili, costituendo con loro alcuni legami che danno vita a società - di diversa perfezione - per mezzo delle quali persegue il suo fine naturale e soprannaturale.

Le regole che caratterizzano la vita di queste società si apprendono osservando la natura dell'uomo nella sua dimensione sociale e riflettendo sull'esperienza storica delle nazioni, oltre che assumendo i dati offerti dalla Rivelazione cristiana, contenuti nelle Scritture ed insegnati dal magistero.

Ecco così, in estrema sintesi, il contenuto della dottrina sociale naturale e cristiana, una teologia morale della società - come scriverà Giovanni Paolo II nell'enciclica Sollicitudo rei socialis - che tiene conto della natura umana, dell'esperienza storica e della Rivelazione, per essere quindi formulata dai diversi documenti papali ed elaborata dagli esperti della materia, ecclesiastici e laici.

La dottrina sociale naturale e cristiana sulla società non nasce dunque nel XIX secolo - come spesso si vuoi far credere, quasi per ridurne l'importanza -, come risposta al liberalismo e al socialismo, non comincia perciò con la Rerum novarum, ma consiste semplicemente nell'attenzione che l'uomo - da cui il termine dottrina naturale - e la Chiesa - da cui il termine cristiana - devono portare al progetto creatore di Dio, alla verità sull'uomo e sui rapporti con i suoi simili e con le cose create. In questo senso i dieci comandamenti sono la più perfetta sintesi di morale sociale, oltre che individuale, che oltretutto ci insegnano come ragione e Rivelazione si incontrino sempre, provenendo entrambe dallo stesso Dio creatore. Infatti il Decalogo è espressione della riflessione razionale dell'uomo su se stesso e sui suoi doveri sociali - quale miglior cittadino si potrebbe immaginare di quello che rispettasse davvero i dieci comandamenti - e insieme Rivelazione di Dio agli uomini, attraverso la consegna delle Tavole della legge dal Signore a Mosé sul monte Sinai.

Ma qualcuno potrebbe obiettare che la Chiesa comincia a parlare di dottrina sociale soltanto nella seconda metà del XIX secolo. È certamente vero, si può rispondere, anzi fino al nostro secolo il termine non compare neppure nei documenti sociali dei pontefici. Ma non si può negare che tutti gli interventi in tema sociale presenti nelle Scritture, nei testi dei Padri e del magistero, lungo il corso dei secoli vanno a costituire quel patrimonio che oggi viene chiamato appunto dottrina sociale della Chiesa.


Dalla Rerum novarum alla Quadragesimo anno

È indubbio però che l'enciclica Rerum novarum di Leone XIII segna una svolta. Gli interventi del magistero, che fino ad allora erano occasionati da avvenimenti, controversie o ricorrenze, con la Rerum novarum cominciano a diventare parti di un corpo di princìpi sempre più organico, costruito per dare indicazioni dottrinali e pratiche ai cattolici e agli «uomini di buona volontà».

La Chiesa si trova costretta, dal venir meno della società cristiana e dal progredire delle ideologie, a spiegare ai fedeli e a tutti gli uomini le ragioni di questa crisi e a fornire le indicazioni anzitutto dottrinali per ricostruire una società conforme ai princìpi cristiani. Il magistero della Chiesa, in ultima analisi, di fronte ad ideologie che pretendono di rifare l'uomo e il mondo secondo un progetto umano, deve confutare queste teorie e ricordare l'esistenza di un fondamentale piano di Dio sull'uomo e sulla società.

La differenza più radicale fra una qualsiasi ideologia e la dottrina cattolica consiste proprio in questo: la Chiesa, al contrario dei vari atteggiamenti ideologici, non «produce» la verità, ma la cerca nella realtà della Creazione, la riconosce e si sforza di insegnarla, incitandone la messa in pratica.


Il diritto-dovere di giudicare

L'enciclica Quadragesimo anno rimane uno dei capisaldi della dottrina sociale della Chiesa.

Promulgata nel 1931, in essa il papa anzitutto commemora, a quaranta anni di distanza, la Rerum novarum, che definisce la «Magna Charta sulla quale deve posare tutta l'attività cristiana del campo sociale» - e quindi ne ricorda i frutti. Fra questi, Pio XI mette in evidenza la nascita di «una vera sociologia cattolica», il parziale accoglimento da parte della legislazione di alcuni Stati di indicazioni contenute nell'enciclica e quindi la nascita di una nuova disciplina giuridica, il diritto del lavoro.

Pio XI prende spunto dalla ricorrenza dell'enciclica di Leone XIII per ricordare che spetta alla Chiesa «il diritto e il dovere di giudicare con suprema autorità intorno a siffatte questioni sociali ed economiche», anche se non per quanto riguarda gli aspetti tecnici, che non hanno diretta attinenza con la morale. In questa prospettiva, il papa usa parole molto dure sia verso il liberalismo, che dimentica l'aspetto sociale della proprietà e tende a un individualismo egoistico, sia verso il socialismo, che mirando all'abolizione della proprietà privata porta a un collettivismo indiscriminato. La condanna di quest'ultima ideologia si riferisce non soltanto al socialismo nella versione comunista, ma anche al socialismo più moderato che, pur rifiutando la violenza e proponendo riforme graduali, a volte somiglianti a quelle della dottrina sociale cristiana, rimane tuttavia legato a una concezione dell'uomo e della società che è in conflitto con quella cristiana.


Capitale e lavoro

Leone XIII aveva fissato il principio secondo cui «non può sussistere capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale», Favorire l'armonia tra i due fattori portanti della vita dell'uomo è uno dei fondamenti della dottrina sociale della Chiesa. A questo fine il pontefice ricorda le ingiuste rivendicazioni del capitale, che per lungo tempo «troppo aggiudicò a se stesso» lasciando «appena all'operaio quel tanto che bastasse a ristorare le forze e a riprodurle» e assumendo i princìpi del liberalismo inglese, in particolare quelli della cosiddetta scuola di Manchester. Altrettanto netta è la condanna delle ingiuste rivendicazioni del lavoro e cioè dell'errore socialista secondo cui, tolto «quel tanto che basti a risarcire e riprodurre il capitale», tutto il resto spetta senz'altro ai lavoratori.

Ancora a questo proposito, il papa ricorda il tema del giusto salario, che andrebbe adeguato alle esigenze dell'operaio e della sua famiglia (per evitare che le madri siano costrette a lavorare fuori casa), allo «stato dell'azienda» (perché «è ingiusto chiedere esagerati salari quando l'azienda non li può sopportare») e alle necessità del bene comune e dello stato generale dell'economia, anche allo scopo di favorire la maggior occupazione possibile.

 

Il principio di sussidiarietà

Uno dei punti più importanti di dottrina sociale contenuti nell'enciclica di Pio XI riguarda l'enunciazione, in termini che resteranno classici, del principio di sussidiarietà, secondo il quale gli individui, le famiglie e le comunità intermedie devono poter fare tutto quello che riescono con le loro forze e lo Stato deve intervenire soltanto dove queste forze non sono sufficienti; oltretutto, ricorda il papa, dall'applicazione di questo principio l'autorità dello Stato uscirà rinforzata e, libera «da quei pesi che non le sono propri», potrà intervenire con direttive generali nell'economia del paese.


Le trasformazioni sociali dopo la Rerum novarum

Il capitalismo «non è di sua natura vizioso», scrive Pio XI; ma lo diventa «quando il capitale vincola a sé gli operai», sfruttando «a suo arbitrio e vantaggio le imprese e quindi l'economia tutta», prescindendo dalla «dignità umana degli operai», dal «carattere sociale dell'economia», dalla «stessa giustizia sociale» e dal «bene comune».

Il papa si sofferma quindi a descrivere il principale mutamento avvenuto nel sistema capitalistico dopo la Rerum novarum, ossia la concentrazione della ricchezza, in seguito al «dilatarsi dell'industrialismo», anzi «l'accumularsi [...] di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell'economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale».

Il pontefice ha parole molto forti contro questa economia «divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele». Essa «è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti», quelli più violenti e con meno scrupoli; questo sistema, continua il papa, produce funeste conseguenze fra le quali, nell'ordine delle relazioni internazionali, le due correnti contrapposte del «nazionalismo o anche imperialismo economico» e dell'«internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene».


La crisi morale della società

Pio XI conclude l'enciclica ricordando due verità di grande rilevanza per tutti i cattolici: l) ogni restaurazione di un ordine sociale più giusto deve essere preceduta dalla riforma personale degli uomini; 2) il danno maggiore prodotto dai guasti dell'attuale sistema economico riguarda la salvezza delle anime. Nella parte conclusiva dell'enciclica, infatti, il pontefice analizza per alcune pagine il disordine del vigente sistema economico, dell'anarchia del mercato, causata anche dall'assenza di interventi dell'autorità statale, delle ingiustizie perpetrate anche dietro il paravento di società anonime: in breve, ricorda come la separazione della scienza economica dalla legge morale abbia lasciato libero freno alle passioni disordinate degli uomini, fino a favorire l'attuale situazione di profondo degrado.

Da questo si può uscire - conclude il pontefice - soltanto attraverso la restaurazione dell'ordine sociale secondo la dottrina evangelica, dove «le cose tutte siano indirizzate a Dio come a primo supremo termine di ogni attività creata», e queste ultime siano utilizzate come semplici mezzi che conducono allo scopo; così si potrà porre fine «alla sordida cupidigia dei soli interessi propri, che è l'obbrobrio e il grande peccato del nostro secolo».



4. DI FRONTE AL SOCIALCOMUNISMO

di Luigi Casalini


Diventato papa nel 1922, a pochi anni dalla Rivoluzione bolscevica del 1917, dopo essere stato nunzio apostolico nella Varsavia del 1920 assediata dall'Armata Rossa, Pio XI ha sempre avuto presenti i problemi dottrinali e pastorali rappresentati dall'ideologia socialcomunista.

La Chiesa non aveva certamente aspettato l'avvento al potere di Vladimir Ilic Lenin per analizzare e giudicare l'ideologia socialista e proprio Pio XI ricorda la condanna pronunciata dal suo predecessore Pio IX nell'enciclica Qui pluribus del 1846, due anni prima della pubblicazione del Manifesto del partito comunista di Karl Marx e di Friedrich Engels. Ma è indubbio che il socialismo, conquistando il potere in Russia, trova una «base operativa» che aumenta di molto le sue possibilità di espansione. La nascita della II Internazionale - la coalizione dei partiti socialisti di tutto il mondo sotto la guida di quello russo - e il conseguente sviluppo organizzativo e propagandistico dei socialisti nelle diverse nazioni europee, costituiscono un problema sempre più urgente al quale la Chiesa non può né vuole sottrarsi. Anche la posizione della Chiesa di fronte al fascismo - e una certa benevolenza dimostrata verso il regime di Benito Mussolini («l'uomo della Provvidenza»), che le causerà molti attacchi e incomprensioni - dipendono in buona percentuale dal problema socialista, in quanto appare oggi evidente come una parte del mondo cattolico abbia considerato positivamente il fascismo soprattutto in una prospettiva anticomunista.

Con l'avvento al potere in Russia, oltretutto, il socialismo dimostra con i fatti che il suo ateismo militante non si sarebbe fermato all'aspetto verbale e propagandistico, ma avrebbe colpito, direttamente e violentemente, la struttura ecclesiastica in alto e in basso, cercando di estirpare la religione nella vita del popolo con l'uso della violenza. Così, l'ideologia socialista pone ai cattolici sia un problema di sopravvivenza fisica - in quanto l'ascesa al potere del socialismo comporta la perdita della libertà per la Chiesa - sia un problema dottrinale, perché si dimostra una concezione del mondo assolutamente alternativa al cristianesimo, e capace di influenzare e mobilitare le componenti più sfruttate nella società liberale: in questo senso Pio XI scriverà che «il grande scandalo del XIX secolo è la perdita della classe operaia». Tutto ciò spinge papa Ratti a scrivere un'enciclica che affronti in modo organico il problema socialista, affinché i fedeli ne conoscano i fondamenti ideologici, ma anche i rimedi e i mezzi per contrastarne l'espansione mondiale.


La Divini Redemptoris

Viene pubblicata il 19 maggio 1937, soltanto cinque giorni dopo la Mit brennender Sorge sul nazionalsocialismo – un’altra forma con cui il socialismo si invera -, allo scopo evidente di evitare l'uso propagandistico della condanna dell'avversario da parte di entrambi i regimi. Anzitutto l'enciclica ricostruisce le caratteristiche dell'ideologia in esame, il suo materialismo evoluzionistico che nega l'esistenza di Dio creatore e che si dovrebbe sviluppare nella storia attraverso la lotta di classe, portando il mondo e gli uomini verso una società sempre più perfetta, che viene a sostituire l'ideale cristiano del Paradiso, immanentizzandolo attraverso la promessa della sua realizzazione sulla terra.

In questo quadro dottrinale, l'uomo è soltanto il momento più elevato dell'evoluzione, che deve continuare a lottare per realizzare se stesso e per realizzare il mondo nuovo promesso dall'utopia marxista. Tali fondamenti ideologici comportano la negazione di ogni diritto naturale della persona, in particolare quelli di professare pubblicamente la religione, di costruire una società diversa da quella socialista, di provvedere all'educazione dei figli e di possedere e usare le proprietà.


Liberalismo e socialismo

Come spiegare una così imponente diffusione del socialismo, si chiede Pio XI? E risponde ricordando anzitutto i guasti prodotti dal liberalismo e dalla sua economia, tesa solo al profitto, che ha favorito la scristianizzazione soprattutto del mondo operaio e quindi la penetrazione socialista. Il pontefice usa molta durezza nei confronti del liberalismo e questo fa capire come la Chiesa, nel condannare il socialismo, non avesse nessuna intenzione di salvaguardare interessi costituiti: addirittura Pio XI ricorda come l'ottusa grettezza e l'egoismo prodotti dall'individualismo liberale abbiano contagiato anche certi imprenditori cattolici, che il papa accusa esplicitamente di non aver concesso agli operai alcuni diritti raccomandati dalla Chiesa e addirittura, in qualche caso, di avere impedito «la lettura della Nostra Enciclica Quadragesimo Anno, nelle loro Chiese patronati». Ma oltre ai guasti prodotti dal liberalismo, l'enciclica attribuisce una straordinaria importanza alla capillare propaganda socialista, «veramente diabolica, quale forse il mondo non ha mai veduto», e inoltre a «una vera congiura del silenzio in una grande parte della stampa mondiale non cattolica», silenzio, sul pericolo socialista, «favorito da varie forze occulte le quali da tempo cercano di distruggere l'ordine sociale cristiano».


Rimedi e mezzi di difesa

Spesso si crede che la Chiesa abbia opposto la dottrina sociale cristiana al socialismo come si contrappone un'ideologia a un'altra. Ma questo è fraintendere l'atteggiamento cattolico, comunque lo si consideri. La Chiesa non ha mai «prodotto» nessuna verità, ma si sforza di cercarla nella realtà delle cose e di trasmettere quanto ha ricevuto dall'alto con la Rivelazione. Così, quando Pio XI indica la pazienza o la carità come rimedi principali all'espansione dell'ideologia socialista, li intende come valori costitutivi dell'essere umano che, quando non vengono incarnati nella quotidianità, lasciano il posto alle ideologie. Ecco che allora l'ironia usata dai marxisti verso la pazienza predicata ai poveri dalla Chiesa, o peggio l'accusa rivolta a questa predicazione di essere un modo per proteggere gli interessi dei ricchi, si rivelano prive di ogni fondamento. Tanto più dopo che le vicende del 1989 in Europa orientale e in URSS hanno dimostrato il fallimento del «socialismo reale», soprattutto nel settore dell'economia dove, dopo la predicazione del paradiso in terra e della guerra ai ricchi, si è prodotta una società infernale e invivibile e tutti i cittadini hanno dovuto cercare di sopravvivere nella miseria.

In questa luce appare ben fondata la dura affermazione dell'enciclica: «Il comunismo è intrinsecamente perverso e non si può ammettere in nessun campo la collaborazione con esso da parte di chiunque voglia salvare la civilizzazione cristiana». Come pure la decisione di Pio XI, per allontanare la minaccia, di porre «[...] la grande azione della Chiesa Cattolica contro il comunismo ateo mondiale sotto l'egida del potente protettore della Chiesa, san Giuseppe».

 

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APPENDICE AL PARAGRAFO 3 

DEL CAPITOLO V

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LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA

(1936-1939)


Per molti storici la guerra civile in Spagna ha rappresentato l'anticipazione della «guerra civile europea», come verrà definita dallo storico tedesco Ernst Nolte la seconda guerra mondiale.

Ma, analizzandone più attentamente origini e decorso, si incontra la presenza decisiva del fattore religioso che, al contrario, sarà assente o secondario nel conflitto mondiale. Dall'instaurazione della Repubblica in Spagna, nel 1931, era infatti iniziata una violenta persecuzione anticattolica che porterà a molte migliaia di vittime fra ecclesiastici, religiosi e laici. Anche questo elemento serve per spiegare l'appoggio della Chiesa alla sollevazione nazionale, che sarà determinante per ottenerle il consenso popolare.

Il primo aprile 1939 il generale Francisco Franco annuncia la fine della guerra civile. Pio XII, diventato papa da nemmeno due mesi, in un telegramma dello stesso giorno al generale spagnolo si rallegra della vittoria, «tanto desiderata dalla Spagna cattolica».



5. DI FRONTE AL FASCISMO E AL NAZIONALSOCIALISMO


Ragioni di spazio ci costringono ad affrontare in un unico capitolo i rapporti fra la Chiesa, il fascismo e il nazionalsocialismo, soprattutto analizzando le encicliche che hanno trattato il problema, rispettivamente la Non abbiamo bisogno, del 29 giugno 1931, e la Mit brennender Sorge, del 14 marzo 1937.

Ma le differenze fra le due ideologie, fra i rispettivi regimi e fra i rapporti di questi ultimi con la Chiesa cattolica sono tali che meriterebbero trattazioni separate. Anzitutto perché le vicende storiche italiane negli anni successivi alla marcia su Roma rimangono condizionate dal permanere del dissidio fra Stato e Chiesa, in seguito all'annessione militare di Roma da parte del regno d'Italia, nel 1870. Un dissidio che sia Mussolini sia Pio XI vogliono senz'altra comporre, seppure per diversi motivi.

Non a caso, un grave contrasto fra il regime e la Chiesa si verificherà proprio all'indomani della firma dei Patti Lateranensi, a causa dell'opposta interpretazione datane dal capo del governo e dal papa, e quindi esploderà nel 1931, a proposito del ruolo che sarebbe dovuto spettare all'Azione Cattolica proprio nell'ambito dei Patti Lateranensi.

Raggiunta la Conciliazione con la Chiesa, il regime cerca di innestare nella società italiana quella «svolta totalitaria» descritta da Renzo De Felice nei suoi studi su Mussolini e sul fascismo.


La «svolta totalitaria»

La «svolta totalitaria» avrebbe dovuto cominciare dalla scuola, al fine di porre le basi dell'Italia fascista del futuro. In questo tentativo, il regime incontra la presenza e la resistenza della Chiesa, che appunto rappresenta - accanto alla Monarchia, ma con una ramificazione sociale che quest'ultima evidentemente non possedeva - il principale ostacolo al disegno totalitario. Mussolini si rende conto proprio in questi anni che la Chiesa non avrebbe mai appoggiato incondizionatamente il regime e inoltre assiste preoccupato al crescere dei militanti del ramo giovanile dell'Azione Cattolica, dai 121.763 del 1928 ai 145.028 del 1930.

Così, nel febbraio del 1931, sulla stampa fascista cominciano i primi attacchi contro l'Azione Cattolica, ai quali risponde personalmente il papa con un discorso del 19 aprile, ricordando l'insostituibilità dell'associazione laicale. Si arriva al 20 maggio, quando con un decreto il capo del governo ordina ai prefetti di sciogliere e vietare le associazioni giovanili che non facciano capo al partito e all'Opera Nazionale Balilla. L'ordine viene eseguito, ma un mese dopo, il 29 giugno 1931, Pio XI pubblica l'enciclica Non abbiamo bisogno.

Il documento merita di essere ricordato perché rappresenta la posizione ufficiale della Chiesa di fronte al fascismo e perché esprime considerazioni di carattere dottrinale che rimangono valide nel tempo, a differenza dell'attività politico-diplomatica, strettamente legata agli avvenimenti contingenti.

Infatti, l'enciclica non si limita a ricostruire i fatti culminati nello scioglimento delle associazioni giovanili e neppure a ribattere all'accusa di parte fascista secondo la quale l'Azione Cattolica continuerebbe a occuparsi di politica attraverso la presenza, nelle sue fila, di esponenti dell'ex-Partito Popolare Italiano. La parte più rilevante dell'enciclica, o almeno quella meno contingente, ribadisce che il diritto delle famiglie e della Chiesa a educare la gioventù non può essere assolutamente menomato dallo Stato, riallacciandosi così a quanto già scritto nell'enciclica Divini illius Magistri.


Fascismo, socialismo e massoneria

Il papa sembra poi volersi «insinuare» all'interno stesso del regime fascista - che non condanna «come tale»  per denunciare quelle sue componenti ideologiche che vorrebbero ridurre l'azione della Chiesa «alle pratiche esterne di religione (Messa e Sacramenti)» in nome di una concezione totalitaria dello Stato.

È significativo, in questo senso, come l'enciclica denunci l'incoerenza dell'atteggiamento del regime fascista verso il socialismo e la massoneria, che dopo essere stati messi fuori legge vengono, dal regime stesso, «così largamente riammessi, come tutti vedono e deplorano, e fatti tanto più forti e pericolosi e nocivi, quanto più dissimulati e insieme favoriti dalla nuova divisa».

La denuncia di Pio XI è molto diversa dall'antifascismo di stampo liberaldemocratico o socialcomunista: essa condanna nel fascismo la disponibilità verso le ideologie rivoluzionarie e le rispettive forze politiche, anticipando così un'analisi e un giudizio sul fascismo come «fascio» di componenti ideologiche profondamente diverse e contrastanti fra loro.

Inoltre, l'enciclica lascia intravedere, seppure a grandi linee, il costante atteggiamento tenuto dalla Chiesa nei confronti del regime fascista: cercare di favorirne una trasformazione nella direzione dei princìpi della dottrina sociale cristiana - enunciati in particolare proprio nel 1931 nell'enciclica Quadragesimo anno - oppure preparare la successione cattolica al regime, se e quando quest'ultimo fosse caduto, attraverso il mantenimento e il potenziamento di una presenza organica nella società soprattutto per mezzo dell'Azione Cattolica.

Quest'ultima ipotesi si realizzerà dopo la sconfitta militare dell'Italia nella Seconda Guerra Mondiale e in seguito alla caduta del regime. Ma, durante gli anni Trenta, Stato e Chiesa manterranno comunque un rapporto di collaborazione, seppure caratterizzato da profonde tensioni, alternate a periodi di convergenza, come in occasione della guerra d'Etiopia, nel 1935, e dell'intervento italiano nella guerra civile spagnola, nel 1936.


La Chiesa e il nazionalsocialismo

Renzo De Felice ha scritto che «... in sostanza fra fascismo italiano e nazismo le differenze sono enormi», anche se si può trovare un minimo denominatore che li unisce (Intervista sul fascismo, Laterza, Bari 1974, p. 24).

Accomunati dalla sconfitta militare e spesso superficialmente considerati come denominazioni differenti della stessa ideologia, in verità nazionalsocialismo e fascismo sono stati molto diversi sia come ideologia che come regime.


«Con ardente ansia»

Per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa cattolica, bisogna anzitutto tenere conto che la maggioranza dei tedeschi era di confessione protestante e protestante era la cultura nazionale, dominante da ormai quattrocento anni. Tuttavia, anche con il Terzo Reich la Chiesa cattolica stipula un Concordato, il 20 luglio 1933, pochi mesi dopo la nomina di Adolf Hitler a cancelliere da parte del presidente della Repubblica Paul Ludwig Hindenburg.

Il concordato, firmato agli albori del regime nazionalsocialista, viene ricordato da Pio XI nella sua enciclica Mit brennender Sorge (Con ardente ansia), dedicata alla situazione della Chiesa sotto il Terzo Reich, scritta il 14 marzo 1937. È l'anno in cui il regime di Hitler, abbandonata ogni moderazione, comincia a istituire i campi di concentramento e a mettere in atto le misure sia contro gli ebrei, sia contro i fedeli delle diverse Chiese.


Le suggestioni nazionalsocialiste

L'enciclica comincia infatti rievocando il motivo per il quale, «non senza sforzo», la Chiesa aveva accettato di stipulare il Concordato: «tutelare la libertà della missione specifica della Chiesa in Germania». Il documento ricorda poi come le risposte al Concordato da parte del regime siano state le macchinazioni e la lotta fino al tentativo di annientare la Chiesa stessa. Passa quindi ad esaminare quella «religione nazionale» o «cristianesimo tedesco» che costituisce uno degli elementi più insidiosi del nazionalsocialismo, perché, dietro al pretesto di offrire ai tedeschi un'unica religione, di fatto mina i fondamenti della fede nella vera religione.

Così l'enciclica passa in rassegna i principali errori di questo tentativo, contrapponendo le verità cattoliche su Dio, Gesù Cristo, la Chiesa e il primato di Pietro, agli errori diffusi dall'ideologia nazionalsocialista, mettendo anche in guardia i fedeli dal tentativo di quest'ultima di strumentalizzare alcuni principi della religione cristiana, svuotandoli del loro significato originario per applicarli ad ambiti profani. Accenna per esempio all'adulterazione del termine «rivelazione», che per un cristiano è la Parola di Dio rivolta agli uomini, e che dall'ideologia nazionalsocialista viene invece utilizzato per giustificare «suggestioni provenienti dal sangue e dalla razza» o «le irradiazioni della storia di un popolo». Ma l'enciclica ricorda anche la necessità di riconoscere il diritto naturale - che è ben più di «ciò che è utile alla nazione» - e il legame che dovrebbe sempre esistere fra la politica e la morale.

Il documento mette così in guardia i fedeli cattolici da un aspetto dell'ideologia nazionalsocialista, accuratamente descritto da George Mosse nelle sue opere, ossia la trasposizione di liturgia e linguaggio cristiani al servizio di un'ideologia politica, allo scopo di «nazionalizzare le masse» e ottenerne il necessario consenso.


Il «leone di Munster»

Il tono del documento è molto fermo sulle questioni di principio, ma sempre disponibile a un accordo con l'autorità pubblica, con la quale auspica il ristabilimento di una vera pace. Un famoso cardinale tedesco, Clemens August von Galen, che verrà chiamato il «leone di Munster» per la fierezza opposta alla prevaricazione nazionalsocialista, userà lo stesso tono durante gli anni di convivenza con il regime, duro e risentito sui principi, ma mai sovversivo nei confronti dell'autorità costituita.



6. GLI «ESERCIZI SPIRITUALI»


Nel primo anno di pontificato, con la costituzione apostolica Summorum Pontificum del 25 luglio 1922, Pio XI proclama sant'Ignazio di Loyola «Patrono celeste di tutti gli Esercizi spirituali».

La lunga storia del piccolo libro, nel quale il fondatore della Compagnia di Gesù racchiude e propone una via di santificazione attraverso l'imitazione di Cristo, è la storia di tutte quelle generazioni di cristiani che hanno sperimentato questa proposta, dalla sua prima approvazione, avvenuta il 311uglio 1548 per iniziativa di papa Paolo III, fino ai nostri giorni. Pio XI è stato uno di questi cristiani e nel corso della vita ha potuto ripetutamente utilizzare quanto offerto da sant'Ignazio nel suo «libro degli Esercizi».

Anche questo motivo, forse, spiega come il papa abbia voluto ritornare sul tema con l'enciclica Mens nostra, del 20 dicembre 1929, dedicata all'importanza e all'utilità di promuovere gli esercizi spirituali. Questi ultimi, infatti, nell'enciclica non vengono considerati soltanto come uno dei mezzi da sempre praticati nella vita della Chiesa perché le anime si mantengano costantemente unite al Signore, ma sono anche esplicitamente presentati come antidoto alla «grande malattia dell'età moderna», cioè «la mancanza di riflessione, quell'effusione continua e veramente febbrile alle cose esterne, quell'immoderata appetenza delle ricchezze e dei piaceri», che impediscono all'uomo la «considerazione delle verità eterne, delle leggi divine, di Dio».


I «primi» esercizi

Fra le tante encicliche di Pio XI, dunque, anche questa merita di essere ricordata, perché permette di individuare uno dei modi previsti dal papa per raggiungere, nel mondo moderno, «la pace di Cristo nel regno di Cristo», che non si può ottenere se prima non viene conquistata dalle anime dei singoli uomini. E «gli Esercizi spirituali» - scrive il pontefice - «sarebbero già una grande cosa se soltanto servissero alle anime per appartarsi dalle assillanti incombenze della vita di tutti i giorni», per «ritirarsi» a riflettere sui «problemi più vitali», quali l'origine e il fine della vita. Del resto, la Chiesa ha sempre praticato questa modalità educativa delle facoltà umane, fino dai primordi, quando gli Apostoli si ritirarono nel Cenacolo per dieci giorni, sotto «lo sguardo e nella materna assistenza di Maria», in attesa dello Spirito Santo: questo avvenimento, descritto negli Atti degli Apostoli, viene esplicitamente considerato da Pio XI come la prima esperienza di «Esercizi spirituali praticati nella Chiesa».

Da quel giorno la pratica degli esercizi spirituali è diventata «familiare agli antichi cristiani», come scrivevano san Francesco di Sales (Trattato dell'amor di Dio, libro 12, cap. 8), e san Gerolamo, il dottore della Sacra Scrittura, che così si rivolgeva a una nobile donna romana: «Scegliti un luogo adatto e lontano dallo strepito della famiglia, in cui tu possa ricoverarti come in un porto. Quivi lo studio della divina Scrittura sia così intenso, così frequente il ritorno alla preghiera, tanto assidua la considerazione delle cose future che tu abbia da compensare con questo riposo tutte le occupazioni degli altri tempi. Né diciamo questo quasi volessimo distoglierti dai tuoi: anzi con ciò intendiamo che ivi tu impari e mediti quale poi tu debba mostrarti verso dei tuoi».


Quattro secoli di frutti spirituali

Ma gli esercizi di sant'Ignazio sono qualcosa di più di un vitalizzante ritiro, di una occasione di meditazione lontano dalle ansie della vita ordinaria; essi offrono un metodo per imparare a pregare, a meditare e a contemplare i misteri della vita eterna e della vita di Cristo, utilizzando tutte le facoltà dell'uomo, cioè l'intelligenza, la volontà e la sensibilità, affinché sia tutto l'uomo a rendere gloria al suo Creatore e Signore. E questo metodo - spiega Pio XI - è quello che «ha riscosso le piene e ripetute approvazioni di questa Sede Apostolica», oltre ad aver «raccolto incalcolabili frutti di santità attraverso ormai quattro secoli».

Questi esercizi, infine, non provengono da una per quanto nobile iniziativa umana, ma - come aveva ricordato lo stesso Pio XI nell'epistola apostolica scritta il 3 dicembre 1922, in occasione del terzo centenario della canonizzazione di sant'Ignazio di Loyola e di san Francesco Saverio - arrivarono a Ignazio «nella grotta di Manresa», nella nativa Spagna, all'inizio della sua nuova vita dopo la conversione, dove «ammaestrato dalla stessa Madre di Dio nell'arte di combattere le battaglie del Signore, ricevette come dalle mani di Lei quel perfetto codice di leggi» che sono appunto gli esercizi spirituali.


 

7. I PATTI LATERANENSI


Arturo Carlo Jemolo, uno dei maggiori esponenti della storiografia cattolico-liberale, ha scritto che «quello di Pio XI fu il pontificato più grigio degli ultimi cento anni» (Chiesa e Stato in Italia dalla unificazione a Giovanni XXIII, Einaudi, Torino 1973, p. 265).

L'accordo con il regime fascista per la soluzione della Questione Romana è una delle principali cause dei giudizi di questo tipo, molto duri contro il pontificato di papa Ratti. Due sono sostanzialmente i motivi che hanno spinto gli storici antifascisti a condannare i Patti Lateranensi: innanzitutto l'evidente vantaggio ricavato con la Conciliazione da Benito Mussolini, il primo uomo politico dopo il 1870 capace di trovare il modo per ricomporre la frattura fra lo Stato e la Chiesa, incrementando così il proprio prestigio personale e quello del fascismo presso la popolazione italiana, che era ancora in maggioranza cattolica; in secondo luogo, l'attenuarsi del carattere laicista dello Stato unitario uscito dalla Rivoluzione nazionale, proprio in seguito al Concordato, che restituisce alla religione cattolica un ruolo pubblico nella nazione.

Ogni concordato, infatti, rappresenta una via di mezzo fra il principio cattolico dell'unità d'intenti, pur nella diversità delle mansioni, che deve regolare il rapporto fra l'autorità spirituale e quella politica, e il principio liberale che sostiene invece la completa separazione fra Stato e Chiesa. Ora, indubbiamente, il Concordato del 1929 veniva a sanare, almeno parzialmente, una situazione di radicale separazione, esistente dalla proclamazione del regno d'Italia nel 1860 e soprattutto dalla Breccia di Porta Pia, nel 1870. Questo fatto, naturalmente, provocherà il polemico giudizio dei liberali, anche se il tipo di collaborazione fra Stato e Chiesa durante il regime fascista sarà sempre di tipo concorrenziale, con un alternarsi di periodi di collaborazione a gravi tensioni e vere e proprie crisi, come quelle del 1931 e del 1938. Queste ultime sono entrambe causate dal problema dell'Azione Cattolica, l'unica associazione organizzata e popolare esistente in Italia oltre a quelle fasciste, e soprattutto dalla volontà di influire sull'educazione dei giovani, a cui né lo Stato fascista, né la Chiesa cattolica volevano rinunciare.


La preparazione dell' accordo

Le trattative per la soluzione della Questione Romana cominciano nell'agosto del 1921, quando per la prima volta s'incontrano il consigliere di Stato Domenico Barone e l'avvocato Francesco Pacelli, che rappresenterà la Santa Sede. Nonostante che entrambe le parti vogliano effettivamente raggiungere gli accordi, la trattativa non sarà mai facile. Mussolini, in particolare, deve superare l'opposizione a qualsiasi accordo con i cattolici da parte sia del fascismo rivoluzionario - quello rappresentato in particolare da Roberto Farinacci - che da parte del fascismo di origine liberale rappresentato dal filosofo Giovanni Gentile, che peraltro riconoscerà pubblicamente l'utilità della Conciliazione a cose fatte. Il capo del governo ha di fronte anche l'opposizione di re Vittorio Emanuele III, sostanzialmente ostile al cattolicesimo e timoroso che lo Stato possa perdere prestigio da un accordo con i cattolici, in quanto costretto a riconoscere in qualche modo i torti commessi verso la Chiesa dopo il 1870. Ma Mussolini riesce a superare queste resistenze, mantenendo come unica condizione preliminare per le trattative la soluzione definitiva della questione territoriale, cioè la rinuncia da parte della Santa Sede di ogni rivendicazione ulteriore nei confronti dello Stato italiano.

Da parte della Chiesa l'attenzione è molto più spostata verso il Concordato, che è la parte che regola i rapporti fra lo Stato e la Chiesa, mentre le altre componenti dei Patti erano il Trattato, che riguardava la soluzione degli aspetti territoriali, e una Convenzione finanziaria. Per questo, il papa vorrà sempre legare l'accettazione definitiva della soluzione territoriale all'attuazione e al rispetto del Concordato. La sua preoccupazione è essenzialmente rivolta a garantire la libertà d'azione della Chiesa nel campo educativo ed assistenziale, insieme alla speranza che il regime possa cambiare, fino al punto di trasformarsi in futuro nella base politica di uno Stato cattolico. Proprio a questo fine la Santa Sede non aveva reagito a suo tempo davanti allo scioglimento del Partito Popolare Italiano, anzi, non aveva posto ostacoli all'esilio dall'Italia del suo fondatore, don Luigi Sturzo.

Ma questa illusione finisce già pochi mesi dopo la firma dei Patti - avvenuta l' 11 febbraio 1929 - quando il capo del governo fornisce l'interpretazione fascista della Conciliazione con il discorso pronunciato il 13 maggio alla Camera dei Deputati. «Lo Stato fascista - afferma Mussolini - è cattolico, ma è fascista; anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista». Il fondatore del fascismo vuole il controllo totale della vita politica e vuole che la Chiesa sia garante dell'accettazione della struttura del regime da parte dei cattolici. Ecco perché aveva concentrato la sua azione politica contro il Partito Popolare - che poteva rappresentare un'alternativa politica al fascismo - operando affinché la Gerarchia lo abbandonasse, in cambio di larghe concessioni, come poi effettivamente è avvenuto. Ma Pio XI risponde al discorso di Mussolini in termini altrettanto duri, soprattutto ribadendo il concetto che il Concordato e il Trattato sono inscindibili: «simul stabunt, simul cadent», scriverà su L'Osservatore Romano del 6 giugno.


La convivenza «forzata»

Anche questa volta le due parti trovano un compromesso che permette la continuazione della convivenza, entrambe consapevoli di non avere un'alternativa praticabile in quel momento storico. E mentre la Chiesa vede sfumare la speranza di una restaurazione cattolica dello Stato e allontanarsi la prospettiva della regalità sociale di Cristo, evocata nell'enciclica Quas Primas, lo Stato fascista è costretto a rinunciare alla sua pretesa totalitaria, proprio per la presenza di un mondo cattolico organizzato: ma può peraltro consolidare la sua popolarità grazie al consenso - diffidente ma reale - offerto dai cattolici, soprattutto dopo la Conciliazione.


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APPENDICE AL PARAGRAFO 6 

DEL CAPITOLO V


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«BOTTA E RISPOSTA»

FRA MUSSOLINI E PIO XI DOPO LA CONCILIAZIONE


Sono passati pochi mesi dalla firma dei Patti Lateranensi e già scoppia la polemica fra cattolici e fascisti, originata, dopo il 29 aprile 1929, dai disegni di legge esecutivi del Trattato e del Concordato, che vengono giudicati da molti cattolici come caratterizzati da un'impostazione liberale e massonica.

È Benito Mussolini a innestare la polemica, con il discorso alla Camera dei deputati in occasione della discussione parlamentare sui Patti (13 maggio). Gli risponderà il papa il giorno successivo, parlando a un gruppo di alunni del collegio dei gesuiti di Mondragone, rievocando nell'occasione il principio di sussidiarietà come fondamento dei rapporti fra lo Stato, le famiglie e la Chiesa.

La polemica salirà di tono nelle successive settimane, fin quasi a pregiudicare lo scambio delle ratifiche, previsto per il 7 giugno. Ma questa solenne cerimonia avverrà, nonostante le difficoltà e, a suggellare il raggiunto accordo, Pio XI esce il 25 luglio sulla piazza san Pietro: è la prima volta, per un pontefice, dal 1870.


Mussolini:

«Un altro regime che non sia il nostro, un regime demoliberale, un regime di quelli che noi disprezziamo, può ritenere utile rinunziare all'educazione delle giovani generazioni. Noi no.

«In questo campo siamo intrattabili. Nostro deve essere l'insegnamento. Questi fanciulli debbono essere educati nella nostra fede religiosa, ma noi abbiamo bisogno di integrare questa educazione, abbiamo bisogno di dare a questi giovani il senso della virilità, della potenza, della conquista [...]
«Lo Stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità: è cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto esclusivamente, essenzialmente fascista. Il cattolicismo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica e metafisica, di cambiarci le carte in tavola. [...]

«Si è notato [...] che taluni elementi cattolici, specialmente fra quelli che non hanno tagliato tutti l ponti con le ideologie del Partito Popolare, stavano intentando dei processi al Risorgimento. Si leggevano appelli di questo genere: moltiplichiamo le file, stringiamo i ranghi, serriamo le schiere, ecc. ecc. Naturalmente, di fronte a questo frasario, si è tratti a domandarsi: ma che cosa succede? E curioso che in tre mesi io ho sequestrato più giornali cattolici che nei sette anni precedenti! Era questo forse l'unico modo per ricondurli nell'intonazione giusta!...»


Pio XI:

«Lo Stato certamente non può, non deve disinteressarsi dell'educazione dei cittadini, ma soltanto per porgere aiuto in tutto quello che l'individuo e la famiglia non potrebbero dare da sé. Lo Stato non è fatto per assorbire, per inghiottire, per annichilire l'individuo e la famiglia; sarebbe un assurdo, sarebbe contro natura, giacché la famiglia è prima della società e dello Stato... In un certo modo si può dire che esso è chiamato a completare l'opera della famiglia e della Chiesa. [...] Su questo punto Noi non vogliamo dire di essere intrattabili, anche perché l'intrattabilità non è una virtù, ma soltanto intransigenti; come potremmo non essere intransigenti se ci domandassero quanto fa due più due».VI . PIO XII, UN PAPA TRA GUERRA TOTALE E GUERRA «FREDDA» 

(1939-1958)


1. La vita, il pontificato


La vita del futuro Pio XII, dalla nascita all'ascesa al papato, si presenta quanto mai lineare e priva - almeno sul piano personale - di eventi fuori dal comune e di scosse: dà l'impressione di una quieta e tenace preparazione a una meta, nella Chiesa e nel mondo, comunque di alta responsabilità. Essa mostra straordinarie somiglianze con l'iter personale e con il cursus honorum di Leone XIII: una famiglia della piccola nobiltà laziale con tradizionale vocazione a servire la Chiesa di Roma, la profonda educazione religiosa e civica ricevuta in tale ambito, un inizio precoce di carriera ecclesiastica, una vocazione nata e coltivata nella calma e nel quasi ovvio ma ponderato assecondamento, il lavoro con responsabilità sempre maggiori nella diplomazia pontificia, l'episcopato, la carica di camerlengo e da ultimo il pontificato.


Eugenio Pacelli, da Roma

Eugenio Pacelli nasce a Roma, nel palazzo di famiglia sito nell'attuale via degli Orsini, il 2 marzo 1876. I Pacelli, originari di Acquapendente nel Viterbese, erano approdati a Roma all'inizio dell'Ottocento: il nonno del futuro Pio XII, Marcantonio, era stato chiamato a Roma dal cardinal Caterini per completare i suoi studi di diritto in vista di un incarico nella magistratura ecclesiastica. Marcantonio Pacelli inizia ben presto una rapida carriera nell'amministrazione pontificia durante la quale avrà modo ripetutamente, attraverso le drammatiche peripezie subite dalla Santa Sede nel corso del secolo, dalla Repubblica Romana del 1849 fino alla conquista sabauda del 1870, di dimostrare la sua assoluta e intransigente fedeltà a papa Pio IX. La Breccia di Porta Pia lo trova a ricoprire la carica di sostituto del ministro dell'interno del papa. Rifiutatosi di servire il nuovo regno, dopo il 1870 è esponente di spicco del ceto dirigente cittadino che collabora strettamente con la Curia ed è tra i fondatori, prima del 1870, e tra i dirigenti, poi, de L'Osservatore Romano.

Anche il padre di Eugenio, Filippo Pacelli, cattolico fervente e terziario francescano, è avvocato ecclesiastico e impegnato politicamente nella nuova Italia, ricoprendo a più riprese la carica di consigliere - due volte quella di assessore - al Comune di Roma. Il suo parallelo impegno di apostolato lo porta a collaborare alla catechesi delle classi popolari della capitale, a pubblicare a proprie spese e a diffondere migliaia di copie delle Massime Eterne di sant'Alfonso de' Liguori, nonché a organizzare opere caritative e a difenderne di già esistenti dalla rapacità dello Stato liberale. Filippo si sposa nel 1871 con Virginia Graziosi e diventa padre di quattro figli, due maschi e due femmine, il penultimo dei quali è Eugenio; l'altro figlio maschio, Francesco, seguirà le orme del padre nell'avvocatura ecclesiastica e ricoprirà incarichi di grande responsabilità per conto della Santa Sede, collaborando anche alla realizzazione dei Patti Lateranensi del 1929; nel corso dello stesso anno, Francesco riceverà il titolo di marchese da Pio XI, titolo recepito nel 1941 anche dalla corona italiana.

Da quanto detto, l'immagine di un Pio XII aristocraticamente distante dal mondo - immagine spesso artatamente diffusa per contrapporre il suo stile pontificale a quello del suo successore, presuntamente «più democratico» - esce sensibilmente ridimensionata. Se qualcosa di aristocratico vi è indubitabilmente nel suo stile e nel suo portamento, ci sembra dovuto principalmente ad una sua reale aristocrazia spirituale e alla consapevolezza dell'altezza del ministero ricoperto.


In un liceo «laico»

Compiuti gli studi elementari, Eugenio Pacelli viene iscritto all'età di nove anni al liceo-ginnasio Ennio Quirino Visconti di Roma, un istituto statale dall'orientamento, visti i tempi di «bollente» Questione Romana, decisamente laicistico. Tale scelta suona apparentemente in contrasto con le tendenze dell'epoca - un'epoca che è stata detta delle «due Italie» - in ambito cattolico. Ma si può leggere forse come un tentativo ardito, da parte dei genitori, di familiarizzare fin da subito il loro terzogenito con il mondo, le idee e le persone con le quali si sarebbe trovato a vivere. Egli crescerà così in questo ambiente a contatto con i rampolli della nuova classe dirigente romana - e spesso italiana -, come Vittorio Emanuele Orlando, futuro presidente del Consiglio.

Un suo compagno di classe di allora così ce lo descrive molti anni dopo: «[...] Una volontà ferrea, una austera integrità di costumi e di carattere: gentilissimo con tutti, socievole, anche se un po' riservato. Era alto, per la sua età, magro, con gli occhiali. Studiosissimo, fornito di un 'intelligenza vivida e equilibrata, ci sorprendeva per la sua prontezza in greco e in latino [...]. Amava tutti i compagni e ne serbò sempre vivo e grato il ricordo» (Lucio D'ORAZI, Pio XII. Eugenio Pacelli. Attualità di un Papa inattuale, Conti, Bologna 1984, p. 48). In questi anni di studi, a causa della sua costituzione esile, incontra a più riprese problemi di salute che gli impongono pause nella frequenza scolastica, ma che egli si sforza di vincere con decisione attraverso ripetuti esercizi fisici, soprattutto durante le vacanze estive.

La vocazione sacerdotale, maturata da tempo, viene manifestata alla famiglia nell'estate del 1894 - l'anno della licenza liceale - dopo un breve ritiro spirituale presso la chiesa romana di sant'Agnese fuori le Mura, durante il quale ha meditato con la guida degli Esercizi Spirituali di sant'Ignazio. Nell'ottobre dello stesso anno entra come seminarista nel Collegio Capranica di Roma e si iscrive all'università Gregoriana retta dai gesuiti. L'intenso impegno negli studi gli provoca nuovamente difficoltà fisiche: un principio di esaurimento nervoso lo obbliga infatti a continuare il seminario come esterno. Superata la crisi, si iscrive a teologia presso lo Studio di sant'Apollinare, nonché - anche qui in contrasto con le abitudini del tempo - a filosofia, presso l'università statale di Roma, sebbene per la durata di un solo anno accademico, il 1895-96.

Nel 1899, ancora preparato da un ritiro spirituale ignaziano presso i padri sulpiziani, viene ordinato sacerdote (2 aprile) e celebra la prima messa il giorno successivo - lunedì dell'Angelo, all'altare della Madonna Salus Populi Romani - nella basilica di Santa Maria Maggiore. Da sacerdote, continua ancora gli studi iscrivendosi, secondo la tradizione di famiglia, a giurisprudenza. I suoi primi passi nel ministero sono a sussidio del clero cittadino, nella liturgia, nella catechesi, nell'assistenza spirituale alle comunità religiose: egli non si assume però impegni tanto gravosi da poterlo distogliere dallo studio.


Un «minutante»

Durante il secondo anno di legge, per intervento del cardinale Vannutelli, inizia l'apprendistato come «minutante»nella diplomazia vaticana presso la Segreteria di Stato. Laureatosi nel 1904 in utroque iure, Eugenio Pacelli si appassiona talmente e si dedica così intensamente al suo lavoro in seno alla segreteria - retta dal cardinale Raffaele Merry del Val, prima, e, dal 1907 in poi, dal cardinale Pietro Gasparri, da «bruciare» in pochi anni le tappe della carriera diplomatica vaticana: sottosegretario della Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari nel 1911, pro-segretario l'anno seguente, segretario nel 1914, nunzio apostolico nel 1917. In coincidenza con quest'ultima nomina, Benedetto XV eleva alla dignità episcopale il giovane prelato romano (era prelato fin dal 1905) ordinandolo arcivescovo titolare di Sardi, in partibus infidelium, il 13 maggio 1917.

Nell'ambiente diplomatico vaticano monsignor Pacelli si era già segnalato precedentemente, oltre che per l'indefessa devozione al suo lavoro, anche per i risultati conseguiti, come nel caso del Concordato tra la Santa Sede e il regno serbo del giugno 1914, a pochi giorni dallo scoppio del primo conflitto mondiale.


Nunzio in Germania

Inviato come nunzio pontificio in Baviera, ricoprirà durante il lungo e sanguinoso scontro tra le potenze europee una posizione privilegiata - quella all'interno del più forte degli imperi Centrali - che gli offrirà l'opportunità per influire sulle sorti della guerra. Il futuro Pio XII si prodiga con tutte le sue forze per far sì che la divisa di pacificatore che legherà in seguito al suo pontificato trovi sempre più spessore e giustificazione. Fin dall'indomani della sua nomina a Monaco, il giovane nunzio si prodiga presso il re di Baviera Luigi, prima, e, poi, presso il Kaiser Guglielmo II a Berlino, per chiarire e cercare di dimostrare l'insufficienza delle controversie politiche che avevano scatenato il conflitto, per supplicare il ritorno alla negoziazione e per sottolineare - nel 1917 se ne intravedevano già gli esiti probabili - come la continuazione della guerra avrebbe portato alla sconfitta di tutti i belligeranti, tanto dei vincitori come dei vinti. Nell'indirizzo a Re Luigi per la presentazione delle credenziali, monsignor Pacelli così si esprime: «Forse mai, come in quest'ora tanto grave, si è sentito profondamente il bisogno di ricostruire l'umana società sulla solida base della giustizia cristiana, né mai, come in quest'ora colma di responsabilità, è apparso chiaro che una pace giusta e duratura può unicamente poggiare sulle solide basi del diritto cristiano» (L. D'ORAZI, op. cit., p. 88). È a lui, inoltre, che tocca il compito di trasmettere al governo germanico la nota di Benedetto XV ai paesi belligeranti, contenente il celebre appello a far cessare quella che il papa definiva 1'«inutile strage».

Tutti i tentativi di pacificazione, sia quelli operati dalla diplomazia vaticana che quelli emersi talora anche dal seno dei paesi belligeranti - gli ultimi erano stati quelli promossi da Carlo d'Asburgo, imperatore d'Austria, del quale verrà introdotta la causa di beatificazione - non hanno però seguito e il conflitto consuma il suo corso di distruzioni e di lutti fino in fondo, così che il giovane ambasciatore della Santa Sede in Germania si trova ben presto ad affrontare a fianco del popolo bavarese il tumultuoso dopoguerra, lo sconforto provocato dall'ingiustizia di Versailles, i tentativi insurrezionali bolscevizzanti del 1918 e la conseguente repressione operata dai «corpi franchi», la travagliata stagione della Repubblica di Weimar e l'ascesa impetuosa e violenta del nazionalsocialismo. Nominato nunzio apostolico presso la nuova repubblica, monsignor Pacelli si trasferisce a Berlino, nel 1925, dove opera per la stipulazione di due nuovi Concordati: quello con la Baviera e quello con la Prussia.

La stagione tedesca del futuro pontefice - che conserverà sempre un affetto particolare per il popolo, la lingua, la musica e la cultura tedesche - ha termine nel 1929, allorché Pio XI lo richiama a Roma e, dopo averlo rivestito della dignità cardinalizia (16 dicembre), lo nomina titolare della Segreteria di Stato (7 febbraio 1930).


Da segretario di Stato a successore di Pietro

I nove anni nei quali il cardinal Pacelli ricopre tale carica sono anni di una intensissima attività di relazione con i governi di tutto il mondo, che imporrà al futuro papa una mobilità, straordinaria per i tempi, che lo farà ricorrere anche a mezzi di trasporto inusitati allora, soprattutto per un dignitario pontificio, come l'aeroplano, sì da meritare l'appellativo di «cardinale volante». Nel 1934 è legato di Pio XI al Congresso Eucaristico di Buenos Aires; l'anno successivo è invece a Lourdes per la chiusura dell'Anno Santo straordinario, mentre nel 1936 effettua un lungo viaggio negli Stati Uniti, - in forma privata - dove ha modo di visitare un gran numero di comunità e di istituzioni cattoliche, avendo pure l'opportunità di incontrare a colloquio il presidente Franklin Delano Roosevelt; l'anno seguente è a Lisieux per la beatificazione di Santa Teresa del Bambin Gesù; infine, nel 1938, si reca in Ungheria come rappresentante del papa al Congresso Eucaristico internazionale. Ed ecco che, proprio mentre si addensano via via più nere le nubi di un altro immane conflitto tra le nazioni europee, il 10 febbraio 1939 muore Pio XI. Il cardinale Eugenio Pacelli, come camerlengo della Curia pontificia (dal 1935) - con una sorte, anche in questo frangente, simile a quella di Leone XIII - ha il compito di celebrarne le esequie e di disporne la successione. Sarà lui a uscire eletto papa, dopo soli tre scrutini, dal conclave-lampo che riunisce in Vaticano sessantadue cardinali dall'1 a12 marzo 1939.

 

Nella bufera della guerra

Si apriva così un pontificato quasi ventennale, svoltosi sotto l'incalzare della guerra - «calda» prima, «fredda» poi - e sotto il segno di una volontà di pace, incessantemente agognata e perseguita, come segno tangibile della presenza di Cristo nel mondo e all'interno delle nazioni. Esso aveva termine quando Pio XII, il Pastor angelicus, l'ultimo papa romano, chiudeva gli occhi all'alba del 9 ottobre 1958.

Le tendenze storiche e gli eventi del mondo e della Chiesa che segnano il pontificato di Pio XII e che ci aiutano a interpretarlo si possono distinguere approssimativamente in tre periodi. La prima metà degli anni Quaranta è il periodo infuocato della seconda guerra mondiale, che termina con la scomparsa del regime fascista in Italia e nazionalsocialista in Germania e con l'avanzata sovietica in Europa. Il secondo coincide con il dopoguerra, fino all'inizio degli anni Cinquanta e vede lo sforzo di ricostruzione dei singoli paesi, come pure di un ordine internazionale più giusto e più durevolmente pacifico. Gli anni Cinquanta, infine, sono gli anni della guerra «fredda» e della contrapposizione dei blocchi, nonché dell'emergere del cosiddetto Terzo Mondo.


La Chiesa e il mondo

In generale, si può osservare che quest'epoca, con il determinante catalizzatore e acceleratore costituito dalla guerra mondiale, è marcata da un accentuarsi del processo di distacco del mondo dal cristianesimo, parallelo e conseguente all'affermarsi della cosiddetta modernità. In questo periodo, fenomeni deteriori propri fino a quel tempo di élites sociali (la nobiltà, l'alta borghesia, il mondo intellettuale) finiscono per coinvolgere masse sempre più ampie di popolazione, come già aveva denunciato Benedetto XV al termine della prima guerra mondiale, fino a diventare, nel corso del decennio successivo, fenomeni sociali dominanti: la secolarizzazione, la diffusione di ideologie politiche ugualitaristiche, un materialismo crescente e un ateismo pratico che preludono al «consumismo», un febbrile attivismo, l'incipiente influenza dei media (allora limitati ai rotocalchi) sui costumi popolari, sono tutte realtà con le quali la Chiesa si deve necessariamente confrontare.


Le ideologie

Sul piano geo-politico è questa l'epoca detta della finis Europae, cioè il tramonto del Vecchio Continente come centro della politica mondiale. Mentre le potenze europee tradizionali perdono sempre più peso politico-strategico, dopo la fine del conflitto si assiste all'emergere e all'affermarsi delle due superpotenze continentali, quella statunitense e quella sovietica, che a loro volta divengono egemoni e leader di blocchi di nazioni, di ideologie e di apparati militari sovranazionali contrapposti. Le ideologie dei due blocchi, il democratismo capitalistico di matrice americana all'Ovest, il socialismo «reale» all'Est, si affermano anche all'interno dei paesi europei, sia colmando il vuoto lasciato dalle ideologie fallite e travolte dalla guerra, sia imposte dalla influenza dei mass-media e dai meccanismi di mercato: due culture entrambe, in sostanza, estranee alla cultura europea profonda (non certo a quella di minoranze ideologizzate), che è permeata ancora di cristianesimo, di religiosità naturale, di sano senso comune, di tradizioni plurisecolari. E queste culture, impregnate di ideologie - talora soltanto subite - recenti, astratte, grezze, naturalistica l'una, grettamente materialistica ed evoluzionistica l'altra, influenzano le masse (quelle masse che, come vedremo, Pio XII considererà uno dei peggiori prodotti del secolo), erodendone l'ambito di vita tradizionale e causando profonde trasformazioni nei costumi, nei rapporti sociali, familiari, professionali, e nelle credenze.

In un altro ambito, l'ascesa dei popoli delle ex-colonie europee, il cosiddetto Terzo Mondo, pone all'evangelizzazione missionaria nuovi problemi. Viene a mancare alle missioni cattoliche e alle comunità cristiane l'ombrello protettivo delle potenze europee, e così esse si trovano in breve volgere di anni alla mercé di instabili governi indigeni, nei quali rinasce il tribalismo, ed esposte al proselitismo sempre più aggressivo dell'Islam, delle chiese protestanti e delle sette religiose.


Per i fratelli perseguitati

La Chiesa, durante il pontificato di Pio XII, alle prese con questi giganteschi mutamenti di scenario e con nuovi, complessi, soggetti politici e culturali, sembra quasi arroccarsi in una posizione di difesa e di irrigidimento delle sue strutture e della sua disciplina. Pare quasi voler prendere tempo per capire la natura dei rapidi cambiamenti in atto, rafforzando nel frattempo la centralità della Sede di Pietro e mantenendo pressoché immutato il modo di portare al mondo il deposito della fede. Occorrerà, per operare tale discernimento, un concilio ecumenico, anni dopo, dal 1962 al 1965. Sarà infatti il Vaticano II che riconsidererà tutto il problema del rapporto tra Chiesa e mondo. Esso elaborerà nuovi metodi di apostolato e di esercizio del magistero, che vedranno il successore di Pietro incamminarsi per le vie del mondo e riprendere, pellegrino come san Paolo, l'annuncio del Vangelo a tutti i popoli.

L'atteggiamento sospeso e difensivo che abbiamo descritto non impedisce però che il pontificato di Pio XII sia caratterizzato da iniziative originali, alcune delle quali, come vedremo, saranno riprese dal Concilio Vaticano II. Sotto il profilo del magistero è questo un pontificato ricco di fermenti, mentre sotto quello «politico» Pio XII non assisterà muto alla nascita e alle vicende della «Chiesa del silenzio», ma lancerà la Chiesa occidentale in una autentica crociata di preghiera e di aiuti ai fratelli oppressi. Così pure non ometterà di insegnare autorevolmente alle nazioni occidentali «libere» i princìpi della vera libertà e di indicare il pericolo derivante dall'abuso della libertà stessa. Così pure, infine, applicando rettamente la virtù della prudenza politica e in conseguenza, forse, anche della sua preferenza per la spiritualità antagonistica ignaziana, non si chiude in uno sterile «terzaforzismo» nei fatti - pur essendo il cattolicesimo per essenza un' altra forza tra liberalismo e socialismo - ma, pur con tutti i distinguo del caso, sceglie di schierarsi con l'Occidente egemonizzato dagli Stati Uniti contro Mosca, con i partiti democratici-cristiani europei - (in mancanza, peraltro a lui non imputabile, di altre élites partitico-politiche cattoliche) contro quelli socialcomunisti, con la teologia scolastica contro una ancor poco chiara nouvelle theologie che appariva come una riedizione del modernismo.

Pio XII è lucidamente consapevole che la nuova res publica christiana, strumento di pacifico ordine nella giustizia, che sarà il sogno di tutta la sua vita, non sarebbe realizzabile se non per gradi, come riconquista quotidiana, partendo da ciò che di cristiano e naturale ancora persiste.

Scrive Giorgio Campanini: «Dietro i trasparenti inviti di Pio XII a optare per la civiltà occidentale, pur nella consapevolezza dei suoi limiti, soprattutto nella sua versione protestante e capitalistica, stava pur sempre una preoccupazione religiosa. Le scelte temporali proposte ai cattolici apparivano come la logica conseguenza della sollecitazione rivolta ai credenti, ma non solo ad essi, a riscoprire la profonda connessione tra civiltà europea e valori evangelici. La stessa presenza politica dei cattolici avrebbe dovuto essere finalizzata, nell'ottica di Pio XII, alla realizzazione di una nuova civiltà cristiana che prendesse il posto di quella medievale definitivamente conclusa» (in AA.VV., I papi del ventesimo secolo, cit., p. 171).


Un bilancio

Il pontificato di Pio XII non va assolutamente letto con le lenti spesso deformanti della Chiesa “post-conciliare” o in confronto e contrapposizione con figure di pontefici successivi, né, d'altro canto, va rivisitato in chiave nostalgica, come emblema di una Chiesa pre-conciliare mitizzata, tutta luci e niente ombre, come a taluni pseudo-tradizionalisti piace sperare. Esso va invece interpretato dal suo interno, calandosi nei panni e con le categorie di pensiero di coloro, in primo luogo del papa stesso, che si sono trovati a viverlo da protagonisti o da semplici fedeli. «Rigido conservatore, accorto diplomatico, personaggio idolatrato dalle masse cattoliche... È difficile racchiudere questo papa in una definizione, soprattutto se troppo interna al linguaggio politologico [...]. Indubbiamente autoritario, anche secondo lo stile dell'esercizio del potere d'una stagione storica, Pio XII non è un dittatore: su di lui e sul suo governo si riflettono i problemi e le condizioni del cattolicesimo contemporaneo, le spinte al mutamento, l'ansia di modernizzazione. Per certi aspetti, la sua biografia diviene, nei limiti d'una esistenza umana, anche lo specchio della realtà e delle contraddizioni del cattolicesimo della metà del secolo» (AA.VV., Pio XII, a cura di A. Riccardi, Bari 1984, p. VIII).

 

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APPENDICE AL PARAGRAFO 1 

DEL CAPITOLO VI

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IL PATTO HITLER-STALIN

L'accordo russo-tedesco fu un evento determinante per l'esplosione del conflitto.


Il 23 agosto 1939 la politica estera sovietica - così come la strategia del movimento socialista internazionale - subiva un repentino e radicale rivolgimento, allorché i ministri degli Esteri del Terzo Reich, Ribbentrop, e dell'URSS, Molotov, firmavano a Mosca un patto di reciproca non aggressione. Il trattato, oltre a ciò, definiva anche le zone di espansione e di influenza delle due potenze e apriva, di fatto, la strada alla successiva ennesima spartizione della nazione polacca, come pure alla conquista sovietica della Finlandia, che viene sovietizzata al termine di una eroica e impari guerra di resistenza condotta dalle truppe finlandesi comandate dal maresciallo Mannerheim, e all'incorporazione nel medesimo anno 1940 delle Repubbliche baltiche (Lituania, Estonia e Lettonia) nell'URSS. Il patto, infine, lasciava mano libera ad Hitler per una eventuale guerra contro le potenze occidentali. Il patto sarà operativo fino al dicembre 1940, quando Hitler deciderà l'aggressione militare contro l'URSS, decisa dopo il mancato coinvolgimento di quest'ultima nell'accordo tripartito fra Germania, Italia e Giappone. Durante i sedici mesi di operatività, il patto fra Hitler e Stalin vedrà una completa collaborazione fra i due Stati in ogni campo, fino al punto che, nel febbraio del 1940, il governo sovietico consegnerà alla Germania 570 antifascisti tedeschi e austriaci emigrati in URSS.

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L'articolo 1 del patto stabilisce che Germania e URSS si impegnano ad astenersi da ogni aggressione dell'una parte contro l'altra. L'articolo 2 contempla la neutralità dell'altro Stato nel caso che una delle parti sia fatta «oggetto di azioni belliche». L'articolo 3 prevede l'obbligo di consultazione reciproca in caso di «divergenze o conflitti», anche nel caso di questioni che riguardino «comuni interessi di entrambi gli Stati». L'articolo 4 proibisce espressamente la partecipazione a «qualsiasi raggruppamento di potenze [...] che si indirizzi direttamente o indirettamente contro uno dei contraenti» del patto. L'articolo 5 tratta della regolamentazione delle divergenze e istituisce un collegio arbitrale. L'articolo 6 estende a dieci anni la durata del patto, il 7 dichiara il patto in vigore «immediatamente dopo la firma».

Il trattato contiene inoltre in appendice alcuni protocolli aggiuntivi, destinati a restar segreti in quanto definiscono esplicitamente «la delimitazione delle sfere d'interesse delle parti contraenti nell'Europa orientale».



2. LA SECONDA GUERRA MONDIALE, IL NAZIONALSOCIALISMO E GLI EBREI


Già poche settimane dopo la sua elezione al soglio di Pietro, Pio XII deve confrontarsi con la nuova situazione che viene creandosi in Europa: nello stesso mese della sua incoronazione, nel marzo 1939, la Germania nazionalsocialista iniziava la sua espansione militare invadendo la Cecoslovacchia. Il papa - come abbiamo visto - conosceva bene la nazione tedesca, la sua cultura, il suo «spirito»; come pure aveva avuto modo di osservare da vicino, quale nunzio apostolico, la nascita e l'affermarsi del movimento nazionalsocialista. Egli era, anzi, uno dei maggiori conoscitori anche della dottrina hitleriana avendo partecipato alla stesura dell'enciclica Mit brennender Sorge, con la quale papa Pio XI aveva condannato nel marzo di due anni prima il «neopaganesimo» del partito al governo del Terzo Reich.

Egli, inoltre, quando era segretario di Stato, aveva continuato a mantenere stretti legami con i presuli tedeschi che subivano alla testa delle loro diocesi l'offensiva del regime nei riguardi del cristianesimo e del clero, contro il quale particolarmente si accanivano le calunnie dei fogli governativi. È interessante a questo proposito rievocare con quanta veemenza aveva reagito sul piano diplomatico ad accuse di corruzione morale dei religiosi cattolici tedeschi messe in circolazione dal ministro della propaganda, Joseph Goebbels, ritorcendo senza mezzi termini l'accusa sui circoli e sulle formazioni nazionalsocialiste. Le figure di eroici pastori come quelle dei cardinali Michael Faulhaber o Clemens August von Galen, autentiche anime della resistenza dei cattolici contro le prevaricazioni del naturalismo-militante del partito nazionalsocialista, vedranno costantemente al loro fianco il vescovo di Roma.


L'ultimo appello

Nella imminenza del conflitto, il 24 agosto 1939, questi rivolge un appello, ormai celebre, ai governi dei paesi che stanno per scendere in campo. Al cancelliere tedesco, del quale conosce bene l'animus, si ritiene egli abbia in particolare diretto il passo più volte citato: «È con la forza della ragione, non con quella delle armi, che la Giustizia si fa strada. E gli imperi non fondati sulla Giustizia non sono benedetti da Dio. La politica emancipata dalla morale tradisce quelli stessi che così la vogliono. Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra».

Pio XII, che ha vissuto direttamente l'esperienza del primo conflitto mondiale, come allora tenterà tutto quanto in suo potere, quale vicario di Cristo e capo di Stato, per impedire il nuovo, apocalittico dramma. Quando esso, poi, purtroppo, avrà tragicamente inizio per la cecità dell'orgoglio di alcuni uomini, il papa si adopererà per evitarne l'allargamento a nuovi paesi (come nel caso dell'Italia, allorché si spinge fino a violare il plurisecolare protocollo vaticano, recandosi di persona a far visita ai reali d'Italia nella ex-residenza dei papi, al Quirinale, nel dicembre 1939), per mitigarne gli effetti, per abbreviarne il corso, per sollevare le sofferenze dei combattenti, dei prigionieri, della popolazione civile duramente coinvolta nel conflitto (è famosa la sua uscita dal Vaticano per recarsi tra la popolazione romana colpita dai bombardamenti nel luglio del 1943). È anche universalmente noto l'atteggiamento da lui tenuto nella difesa della sua città, della sua diocesi, del popolo di Roma, della capitale della cristianità, dalle bombe alleate e dalla rabbia nazionalsocialista, così da meritare l'appellativo di defensor Civitatis. È interessante notare, ancora, l'equanimità con la quale si caratterizza la sua condotta nei vari svolgimenti del conflitto. Ad esempio di ciò, quando le armate tedesche, italiane, ungheresi, rumene attaccano l'Unione Sovietica nell'estate del 1941, Pio XII delude profondamente le aspettative della propaganda nazionalsocialista evitando di associare la sua persona e la Chiesa alla cosiddetta crociata antibolscevica, dimostrando di non giudicare con maggior benevolenza il regime hitleriano - e le sue imitazioni est-europee - di quello staliniano.


Al termine del conflitto

Quando poi le sorti della guerra volgono a favore del blocco anglo-sovieticoamericano e gli vengono rese note (da parte dell'ambasciatore speciale del presidente statunitense Franklin Delano Roosvelt in visita a Roma nel settembre 1942) le clausole del piano alleato contro le potenze dell' Asse (resa incondizionata, bombardamenti anche terroristici, ecc.), Pio XII si prodiga per farle attenuare. Negli anni successivi, quando ormai le armate alleate stringono sempre più da presso il Reich, il papa non si trattiene dal criticare l'eccessiva lentezza con la quale si svolge l'avanzata degli eserciti delle potenze occidentali verso il Reno, in quanto essa rischiava di allargare l'area controllata dalle truppe sovietiche al termine del conflitto. Nell'imminenza, infine, della sconfitta tedesca, prevedendo lucidamente lo scenario postbellico con il dilatato peso della potenza sovietica nel mondo, si spinge a sollecitare la democrazia statunitense a svolgere responsabilmente il ruolo di baluardo del mondo libero e a «neutralizzare le tentazioni al ritorno all'isolazionismo dopo la fine della guerra, particolarmente forti nell'amministrazione Roosevelt» (DANlLO VENERUSO, Gli inutili appelli di Hitler, in AA.VV., I papi del Ventesimo secolo, op. cit., p. 160).

 

Pio XII e gli ebrei

Una menzione a parte merita la questione del rapporto tra Pio XII e la persecuzione degli ebrei ad opera del nazionalsocialismo.

Nel corso degli anni Sessanta veniva diffusa - principalmente dal dramma del tedesco Rolf Hochhuth, Il Vicario, da uno storico ebreo, Gunther Lewy, e dallo storico ecclesiastico di orientamento laicista, l'italiano Carlo Falconi - la tesi secondo cui Pio XII sarebbe colpevole di avere taciuto davanti ai crimini commessi dai nazionalsocialisti contro gli ebrei, soprattutto con la organizzazione dei campi di concentramento negli anni della guerra.

La gravità delle accuse, nonché la clamorosa campagna orchestrata dalla stampa laicista contro la memoria del pontefice, suscitano immediatamente reazioni in campo cattolico, tra le prime quella di monsignor Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano, che nel 1963, pochi giorni prima della sua elezione a pontefice, scrive una lettera di protesta al settimanale cattolico inglese The Tablet, sostenendo la tesi - che è poi quella più veritiera - della impossibilità di conversione del nazionalsocialismo e del maggior danno che sarebbe derivato ai perseguitati ebrei da una denuncia clamorosa da parte del papa.


Accuse e smentite

La smentita - già peraltro venuta da ricerche storiche condotte all'indomani dell'inizio del «caso» - definitiva delle calunnie contro Pio XII veniva dalla comparsa tra il 1965 e il 1981 degli undici volumi degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano), a cura degli storici gesuiti Pierre Blet, Angelo Martini e Burkhart Schneider.. In essi sono contenute le prese di posizione ufficiali della Santa Sede, nonché, particolarmente nel decimo volume, una raccolta di testimonianze di gratitudine nei confronti di Pio XII provenienti da singoli esponenti e dirigenti di comunità e associazioni ebraiche di tutti i paesi d'Europa. Da questi documenti emerge in qual modo il Vaticano, così come le comunità cristiane delle varie nazioni, si sia prodigato ovunque per aiutare (basti pensare al contributo in oro offerto dalla Santa Sede nel 1943, agli esordi delle angherie delle «SS» contro la comunità israelitica romana) e per strappare al lager tanti fratelli in Abramo. Pio XII non fa mai nulla per nascondere la sua avversione per il tiranno germanico (fino al punto da vedere di buon occhio, se non di agevolare, tentativi per deporlo o da fare sapere tramite diplomatici presso la Santa Sede, ai governi belga e olandese, dell'imminenza dell'aggressione militare nel 1940). Tanto che il Fuhrer, allorché viene a conoscenza del costante interessamento di Pio XII per la sorte degli ebrei, giunge a far elaborare un piano per il suo rapimento e la sua deportazione in Germania (sul tipo di quello che poi verrà attuato nei confronti di Benito Mussolini). Se Pio XII sceglie la via dell'aiuto e non quella della condanna clamorosa, lo fa avendo ben presente la natura del nazionalsocialismo. E, occorre dire, mantiene lo stesso contegno anche davanti alla persecuzione di altre nazionalità e comunità, non ultimi i cattolici, come ricordano le vicende esemplari di Massimiliano Maria Kolbe, futuro santo, di Tito Brandsma, futuro beato e di suor Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein, anch'essa beatificata, e di innumerevoli altri.



3. LA «CHIESA DEL SILENZIO»


Terminata la seconda guerra mondiale, una nuova grande calamità si abbatte sulle nazioni cristiane dell'Est europeo e minaccia quelle occidentali: il socialismo sovietico. Dall'immenso impero euroasiatico degli zar, alla testa del quale si è installato fin dall'ottobre del 1917, il socialismo ateo, dilaga e penetra fino nel cuore dell'Europa. In sincronia con la conquista militare, la tragedia dell'ateismo militante di Stato e la persecuzione delle Chiese e comunità cristiane, come pure di ogni manifestazione religiosa pubblica, si profilano e si attuano non più solo nell'Ucraina, nella Russia e nelle altre terre soggette all'impero sovietico, ma coinvolgono anche altri popoli di tradizioni cristiane e di libertà ancora più antiche. In breve volgere di tempo, tra il 1945 e il 1948, in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Germania orientale, Jugoslavia, Albania, Lituania, Lettonia, Estonia salgono al potere governi egemonizzati dai partiti socialisti.

Anche fuori dall'Europa, negli anni seguenti, il socialismo ateo mette a segno nuove conquiste: nel 1949 cade l'immensa Cina, l'anno successivo una parte della Corea, nel 1954 il Vietnam settentrionale.

Ovunque, fin da subito, in ossequio al principio leninista secondo cui occorre combattere la religione non con le teorie astratte ma distruggendone le radici nella società, i regimi socialisti iniziano a perseguitare le comunità religiose e i singoli credenti, spesso in nazioni che avevano fino a poco tempo prima comunque subito la persecuzione di stampo massonico e, subito dopo, quella nazionalsocialista.


La persecuzione

Durante le persecuzioni - che nei regimi socialisti assumono carattere non episodico, bensì strutturale ed endemico - vengono disciolti movimenti laicali e partiti di ispirazione cristiana, vengono soppresse confraternite talora antichissime, vengono requisiti istituti e opere di carità, vengono chiusi o drasticamente ridimensionati i seminari di ogni ordine, viene cancellata la presenza degli ordini religiosi attivi tra le popolazioni, perseguitati i sacerdoti e la gerarchia. Lo scopo è quello di ridurre la Chiesa «all'osso», alla sola presenza degli ordinari e di qualche sparuto sacerdote, facendola a poco a poco estinguere per mancanza di nuova linfa. Lo scopo è, ancora, il suo assoggettamento a uno stretto controllo statale, ottenuto attraverso l'intimidazione personale del clero o la sua corruzione morale, talvolta dando vita a gerarchie fittizie e infiltrando agenti socialisti all'interno di ogni ambiente religioso superstite. Parallelamente viene dispiegata ovunque un'azione di ateizzazione di massa che si serve anche della più crassa propaganda antireligiosa di matrice massonica ottocentesca, della deformazione o diffamazione della figura del sacerdote e del religioso.

Le forme più aspre della persecuzione ateistica sono riservate al cattolicesimo che, per antichità, diffusione nel mondo e centralizzazione, viene visto dal socialismo come un pericolo maggiore delle altre confessioni.


Decenni di violenza

Sono questi, per i cristiani nei paesi socialisti, decenni di violenza, di sofferenza, di tentazione. Anni nei quali la Chiesa cattolica si configura, in quanto gravemente impedita nella sua missione, non più come Chiesa dell'annuncio bensì come Chiesa «con le braccia legate, con le labbra chiuse, la "Chiesa del silenzio'», così come il pontefice si esprime nel radiomessaggio della vigilia di Natale del 1951. In ciascun paese le comunità cristiane, però, resistono con eroismo, talvolta fino al martirio cruento, contro l'ondata antireligiosa, Una spietata persecuzione che - tra l'altro, e in modo da costituire un autentico monstrum nella storia - va ad assommarsi alle altre tragiche conseguenze del socialismo reale: la miseria, lo sfruttamento, la disperazione, la corruzione, la divisione.

Mentre questa resistenza dei credenti contribuisce ad accrescere la popolazione delle prigioni e dei campi di lavoro forzato, il mondo libero abbandona - tranne lodevoli eccezioni di iniziati. ve a carattere propagandistico e caritativo - alla loro sorte i fratelli nella fede, gli anticomunisti, i popoli privati della libertà, anche quando essi talora insorgono con la forza della disperazione, come l'Ungheria nel 1956.

 Ma a costoro non mancherà mai il sostegno, il conforto, l'illuminazione, la preghiera del Santo Padre, che sempre, «opportune et importune», leverà la sua voce di pastore e di vicario di

 

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Cristo a loro favore. Lungo tutti gli anni del pontificato, Pio XII non tralascia alcun mezzo, dalla preghiera personale a quella pubblica - talvolta composta appositamente da lui stesso e proposta alla Chiesa universale -, dai messaggi radiodiffusi ad Est ai sussidi materiali alle chiese, dall'accoglienza dei profughi e dei fuggiaschi alle armi della diplomazia, per alleviare le sofferenze di quella parte del corpo mistico di Cristo.


Tenerezza e intransigenza


 Particolarmente veemente e appassionata si fa la parola del papa allorché vengono attaccati i capi delle Chiese dell'Est, come nel caso della persecuzione contro il primate di Ungheria, cardinale Joszef Mindszenty, contro i presuli jugoslavi monsignor Aloys Stepinac e monsignor Josef Beran, contro, infine, l'arcivescovo di Varsavia Stefan Wyszynski. I pronunciamenti del pontefice si esplicano in primo luogo e nei casi più gravi o complessi con le encicliche, tra le quali ricordiamo, nel corso dell'anno santo 1950, la Anni sacri e la Summi maeroris; altre tre, dedicate alla Cina, la Evangelii praecones del giugno 1951, la Cupimus imprimis del gennaio 1952 e la Ad Sinarum gentes dell'ottobre 1954. Ricordiamo ancora le tre encicliche con le quali in brevissimo lasso di tempo sosterrà l'insurrezione ungherese del 1956 e ne condannerà la repressione: Luctuosissimi eventus del 28 ottobre, la Laetamur admodum del primo novembre e la Datis nuperrime del 5 novembre.

 Oltre a ciò vanno ricordate le allocuzioni pronunciate in varie occasioni, come le udienze diplomatiche o i pellegrinaggi, i radiomessaggi al mondo intero o a singole nazioni. Scrive monsignor Alberto Giovannetti in Pio XII parla alla Chiesta del silenzio (Ancora, Milano 1958, p. 13): «I caratteri distintivi dell'appello che Pio XII rivolge al mondo quando parla della persecuzione sono un amore di predilezione per le vittime ed un'inesauribile fermezza nel denunciare i delitti dei persecutori. Questa tenerezza e questa intransigenza ripetono entrambe la loro origine dall'amore segreto e dalla sollecitudine per la Chiesa di Cristo».


Appelli appassionati


 In questo contesto rimane memorabile come documento il suo intervento appassionato in occasione del processo di monsignor Joszef Midszenty, tenutosi a Budapest nel 1949, cui il papa testimonierà la sua solidarietà indefettibile ad ogni occasione pubblica, tra il gennaio e il febbraio di quell'anno, in particolare nel discorso ai fedeli della città di Roma, pronunciato il 20 di febbraio.



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APPENDICE AL PARAGRAFO 2 

DEL CAPITOLO VI


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LA PERSECUZIONE IN UCRAINA: 

IL CARDINALE SLIPYJ

 

 Il 7 settembre 1984 chiudeva a Roma la sua lunga e travagliata esistenza il cardinale Josyf Slipyj, arcivescovo maggiore di Leopoli degli ucraini. Nato il 17 febbraio 1892 a Zazdrist, nell'Ucraina Occidentale, a venticinque anni, il 30 settembre 1917, è ordinato sacerdote a Lviv. Rettore nel 1925 del seminario di Lviv, nel settembre del 1939 viene nominato esarca dell'Ucraina Orientale e nel novembre del 1944 diventa metropolita.

 L'11 aprile 1945 è arrestato dai sovietici e nel 1946 subisce una prima condanna a otto anni di lavori forzati. Nel 1953 viene condannato per la seconda volta a cinque anni di Siberia e nel 1958 subisce la terza condanna a quattro anni di lavori forzati. 1128 marzo 1960 viene nominato cardinale in pectore da Giovanni XXIII, e nel 1962, a settant'anni, patisce la quarta condanna: la deportazione a vita in Mordovia. Inaspettatamente liberato il 26 gennaio 1963, viene espulso dall'URSS e giunge a Roma il 9 febbraio. L'11 ottobre dello stesso anno interviene in Concilio per chiedere l'erezione del patriarcato ucraino, rendendo così pubblica la controversia che costituì il più profondo tormento di tutto il suo lungo esilio.

 L'8 dicembre 1963 fonda a Roma l'università cattolica ucraina. Il 25 gennaio 1965 viene pubblicato cardinale da Paolo VI. Nel 1971, in occasione del Sinodo dei Vescovi, denuncia la persecuzione della Chiesa sotto il regime socialista; nel 1976 lancia un appello all'ONU in favore dei perseguitati e nel 1977 testimonia, a Roma, davanti al Tribunale Sakharov. Nel 1980 presiede, sempre a Roma, il sinodo dei vescovi ucraini.


Riportiamo stralci del suo testamento (da Quaderni di 'Cristianità', anno I, n. 2, estate 1985, pp. 26-44).

* * *

Ho dovuto subire l'arresto di notte, i tribunali segreti e interminabili interrogatori. Sono stato spiato e sono stato sottoposto a maltrattamenti e a umiliazioni morali e fisiche, alla tortura e alla fame forzata. Fui, di fronte agli investigatori e ai giudici malvagi, un prigioniero indifeso e «testimone silenzioso della Chiesa», che stanco ed esausto fisicamente e psicologicamente, testimoniava a favore della sua Chiesa, anch'essa silenziosa e condannata a morire... E il prigioniero-galeotto poté vedere che alla fine anche lui era condannato a morire una volta che il suo cammino avesse raggiunto «gli estremi confini della terra»! .

Come prigioniero per l'amore di Cristo trovai forza durante la mia via crucis quando ebbi la percezione che il mio gregge spirituale, il mio popolo natale ucraino, tutti i vescovi, i sacerdoti e i fedeli, sia padri che madri, i bambini, i giovani zelanti e gli anziani indifesi, camminavano accanto a me per lo stesso sentiero. Non ero solo!

Ricevetti una resistenza sovrumana e una forza misteriosa dalle parole di Cristo incise dentro la mia anima: «Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque accorti come i serpenti e semplici come le colombe. [...]

Oggi ringrazio Dio nostro Signore per avermi concesso la grazia di diventare testimone di Cristo e di professare la Sua fede, come Egli comanda! Ringrazio Dio nostro Signore con tutto il mio cuore ché con il Suo aiuto non ho disonorato né la mia terra, né il buon nome della mia Chiesa natale né me stesso, il suo umile servo e Pastore...

E così oggi, «seduto sulla slitta, avendo meditato nella mia anima e avendo lodato Dio, che mi ha guidato fino a questo giorno... seduto sulla slitta sulla strada verso l'eternità, recito una preghiera con voce stanca» (dalle istruzioni ai bambini, del Gran Principe di Rus' Volodymyr Monomakh).



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LA PERSECUZIONE IN UNGHERIA: IL CARDINALE MINDSZENTY


Jozsef Mindszenty nasce il 29 marzo 1892 a Mindszent. Seminarista a Szombathely, viene ordinato sacerdote il 12 giugno 1915. Parroco in una piccola cittadina, viene arrestato a più riprese dai governi socialisti insurrezionali ungheresi del primo dopoguerra. Nel 1944 Pio XII lo nomina vescovo di Veszprém, dove si prodiga quanto possibile per risparmiare alla popolazione le sofferenze della guerra totale e riesce anche a salvare numerosi ebrei.

Subito dopo deve difendere ancora il suo popolo, questa volta contro gli orrori dell'invasione dell'Armata Rossa, Viene arrestato dagli occupanti e torna libero nel marzo del 1945 per andare a ricoprire la sede primaziale di Esztergom. Il 26 dicembre 1948 è nuovamente arrestato e sottoposto a gravi torture fisiche e morali. Contro di lui viene imbastito un processo-farsa cui il regime assegna un ruolo vessillare. Dopo solo tre giorni, sufficienti per mostrare a tutto il mondo l'immagine del cardinale inquisito, questi viene condannato a morte. La condanna verrà poi commutata nel carcere a vita. Jozsef Mindszenty sarà liberato otto anni più tardi dagli insorti anticomunisti di Budapest, ma dopo soli quattro giorni dovrà rifugiarsi all'interno dell'ambasciata statunitense per sfuggire alla repressione sovietica. Qui resterà fino al settembre 1971, allorché Paolo VI riuscirà ad ottenerne la liberazione e lo chiamerà a Roma. Mindszenty accetta a malincuore di abbandonare la patria. Nel 1973 la diocesi di Esztergom viene dichiarata sede vacante. Muore il 6 maggio 1975 a Vienna.

* * *


Riportiamo un brano del diario di prigionia del cardinale, tratto dalle sue Memorie, 5a ed., Rusconi, Milano 1975, p. 277.


IN PRIGIONE


In prigione non esistono solo cose brutte. C'è anche del buono. La prigione salvaguarda da certi pericoli e da certe tentazioni. Nel caso mio mi ha evitato di dover prestar giuramento e di dover concludere un accordo con i carnefici del mio popolo, che avevano calpestato la Chiesa. Quando si è chiusi da soli in una cella non si possono più commettere peccati con la lingua. La sorveglianza dei sensi diventa molto più facile e si è assai più protetti contro la triplice concupiscenza. Il detenuto può ancora esser superbo nel baratro in cui è precipitato? Mai come allora sono vere le parole che dicono: «I dì dell'uomo son come l'erba...: se su vi passa il vento, più non è» (Sal. 103, 15-16). Il tempo passato in prigione è propizio per l'esame di coscienza, il pentimento, l'introspezione e per elevare l'anima a Dio, in altre parole è un tempo di salvezza (Rom. 13, 11). Abbiamo difetti di cui nel trambusto della vita non avremmo mai preso coscienza. Quanti buoni propositi si fanno in quelle condizioni, che cominciano con le parole: «Mio Dio, se un giorno ritornerò libero... ». Anch'io ne ho fatti e ho promesso: «Mi dedicherò ai carcerati; andrò in Terra Santa».

L'offerta del sacrificio della santa messa, quando ebbi il permesso di celebrarla, divenne il punto centrale della giornata. Vi impiegavo dalle due ore e mezzo alle tre ore e mezzo. Meditavo, pregavo per i bisogni della Chiesa ungherese e per la patria. Nelle mie preghiere includevo sempre il Papa, i cardinali, i vescovi, i sacerdoti, i malati, mia madre, mia sorella, i miei seminaristi che vivevano in mezzo alle tentazioni e alle tribolazioni, e poi i nemici, le guardie, i carcerati, la patria, i profughi, le madri e i padri, la gioventù, la vita delle famiglie ungheresi.

San Filippo Neri impiegava molto tempo nella celebrazione della messa e per questo preferiva celebrarla da solo. Chi celebra il santo sacrificio da solo si prende il tempo necessario e lo fa con maggiore coscienza.

Così pure custodivo il Santissimo, lo nascondevo con cura particolare nella cella e mi prostravo spesso in adorazione, specie durante le lunghe notti. In quelle ore il breviario diventava per me una vera fonte di gioia. Lo recitavo con calma, pur sentendone nello stesso tempo fame e sete, come il cervo che aspira alla fonte. Invece della solita ora e un quarto la sua recita mi occupava tutti i giorni dalle due ore e mezzo alle tre ore. Per molto tempo esso è stato la mia Bibbia, la mia dogmatica, la mia mistica, il mio direttore spirituale. L'esistenza del carcerato aiuta anche a capire bene molti salmi.


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LA PERSECUZIONE IN CROAZIA: IL CARDINALE STEPINAC


Nato a Krasic, in Croazia, 1'8 maggio 1898, Alojzije Stepinac rappresenta il simbolo della resistenza croata di fronte al regime socialista instaurato in Jugoslavia dal maresciallo Tito dopo la seconda guerra mondiale. Arcivescovo di Zagabria dal 1934, viene arrestato il 18 settembre 1946 e il 30 dello stesso mese comincia il processo che sancirà la sua condanna a 16 anni di lavori forzati e a 5 anni di privazione dei diritti civili. Resterà nella prigione di Lepoglava 1.864 giorni, prima di essere confinato nel suo paese nativo. Qui morirà, il 10 febbraio 1960, dopo 2.647 giorni di confino. Nel frattempo, era stato eletto cardinale da Pio XII, il 29 novembre 1952.


Riportiamo stralci della sua dichiarazione resa davanti al tribunale al termine del processo che lo condannerà (in NEKI ISTRANIN, Stepinac, un innocente condannato, L.I.E.F., Vicenza 1982, pp. 318.326).


«A tutte le accuse che mi sono state mosse, rispondo che la mia coscienza è tranquilla, anche se il pubblico presente ne vorrà ridere.

[...] «Centinaia di volte fu ripetuto in quest'aula 'incriminato Stepinac'. Ma nessuno è tanto ingenuo da non capire che dietro questo 'incriminato Stepinac' siede, sul banco degli imputati, l'arcivescovo di Zagabria, il metropolita della Croazia, il rappresentante della Chiesa Cattolica in Jugoslavia.

[...] «Nei libri di scuola si afferma, contro tutte le prove storiche, che Gesù Cristo non è mai esistito. Sappiatelo bene! Gesù Cristo è Dio! Io sono pronto a morire per lui, e a scuola si insegna che non è mai esistito. E, se qualche professore osasse affermare il contrario, potrebbe stare sicuro di venire eliminato dalla scuola. Io le dico, signor procuratore, che questa non è libertà della Chiesa, ma che si cerca di sradicarla nel più breve tempo possibile.

«Ebbene, Cristo è il fondamento del Cristianesimo. Voi vi preoccupate degli ortodossi. Bene, ma io vi chiedo come ve la immaginate la ortodossia senza Cristo. E’ un assurdo! Come vi immaginate una Chiesa cristiana senza Cristo? Siete nell'assurdo! [...] I libri di scuola, in mano ai nostri bambini, dicono che la Madonna era una donna di mala vita! Ma sapete che per noi cattolici e per gli ortodossi lei è la persona più santa che sia esistita?

[...] «Per quanto, poi, riguarda il mio caso personale, io non ho bisogno di misericordia, perché la mia coscienza è tranquilla».



4. IL MAGISTERO SOCIALE


Vi è una frase, pronunciata da Pio XII a tre anni circa dalla sua ascesa al soglio di Pietro (nel radiomessaggio di Pentecoste al mondo del 10 giugno 1941), che ci dà la chiave per capire, da un lato, il senso profondo della dottrina sociale cristiana, dall'altro lo stile che il pontefice darà al suo magistero.


La dottrina sociale e l'azione missionaria della Chiesa

«Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s'insinua anche il bene o il male nelle anime [...]» Secondo questa espressione, la dottrina, dunque, va intesa non in senso meramente tecnico ma come estensione dell'apostolato individuale alla sfera pubblica; oggetto, quindi, rimesso per la sua maggiore o minore attuazione allo zelo missionario di tutti i cristiani e alla sollecitudine pastorale della Gerarchia e, in ultima analisi, del papa. In questa concezione, che riallaccia la dottrina sociale alla missionarietà della Chiesa, e nell'ardore straordinario con il quale papa Pacelli compie la sua missione universale, va ritrovato il tratto essenziale del suo magistero sociale: la grande abbondanza di interventi e la loro articolazione, fino a raggiungere un grado di dettaglio, sia di tematiche affrontate che di soggetti destinatari, mai visto prima. Infatti, mentre i suoi predecessori, particolarmente Leone XIII e Pio XI, emettono documenti di grande momento, innovativi nei concetti, sistematici, Pio XII ama di più i discorsi di richiamo, di appello, di applicazione a casi e situazioni concreti di tali insegnamenti e, soprattutto, ama rivolgersi a pubblici diversissimi. Si può dire che non vi è ceto o funzione sociale, alto o basso, cui egli non si rivolga approfittando anche dei nuovi mezzi di diffusione della parola, come la radio: dai medici alle ostetriche, dai patrizi romani agli operai, dai militanti cattolici ai giuristi, ai diplomatici, ai contadini, ai popoli. A tutti e a ciascuno egli traccia la strada perché con il loro contributo, nell'ambito proprio di ciascuno, l'ordine cristiano all'interno delle società e tra di esse, ordine che è fondamento della pace, possa essere restaurato o instaurato.


I problemi sul tappeto

Quali sono i punti sui quali il pontefice insiste particolarmente?

È possibile dire che egli avverta lucidamente i mutamenti e la crisi della società occidentale nel cuore del ventesimo secolo, tanto a livello di microstrutture, quanto a livello di istituzioni statuali e sovranazionali. Egli si sforza pertanto di sostenere la famiglia, cellula-base della società, alla quale dedica notevole spazio fin dalla sua prima enciclica Summi pontificatus del 20 ottobre 1939; di affrontare la condizione della donna - è il primo pontefice a comprendere l'importanza della rivoluzione sociale in atto con il diffondersi del lavoro femminile a livello di massa -; di risolvere i problemi posti dall'etica sanitaria.

Ulteriore preoccupazione del pontefice è quella di orientare cristianamente la ricostruzione dell'ordine internazionale all'indomani del secondo conflitto mondiale. Merita particolare cenno, a questo proposito, il discorso Trés sensible ai congressisti del Movimento Universale per una Confederazione Mondiale, del 6 aprile 1951, nel quale descrive i fondamenti di un assetto nazionale e sovranazionale cristianamente ispirato. Ancora, sempre in tema, il discorso Ci riesce al V Congresso Nazionale dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani, del 6 dicembre 1953, sul problema della tolleranza del male nell'ordine sociale.


Le «élites» della società

Urgente, in questa prospettiva di ricostruzione nello scenario post-bellico che vede il tramonto dell'Europa (dal papa consapevolmente previsto e dolorosamente vissuto) e l'emergere prepotente sulla scena internazionale delle superpotenze statunitense e sovietica, nonché delle ideologie di democrazia universale e socialismo da esse incarnate, è la ricostituzione o la rigenerazione di élites sociali cristiane. A quest'ultimo proposito, il pontefice si adopera a fornire principi e direttive, particolarmente nelle sue ripetute allocuzioni al patriziato romano (si tratta di dodici interventi con cadenza annuale pronunciati in occasione di udienze tra il 1941 e il 1952). Si rivolge ai nobili romani con un intento che li trascende - ma non li esclude - e ne fa i destinatari immediati di un discorso che si indirizza in realtà a tutti gli ambienti nei quali siano presenti potenzialmente o realmente - anche se allo stato residuale - élites cristiane.


Popolo e «massa»

In omaggio alla concezione organica della società (così felicemente espressa da Pio XII stesso nella memorabile distinzione tra «popolo» e «massa»: «Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono [...]», nel radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1944) il papa propone alle élites cristiane il grandioso compito di assumere la responsabilità di organizzare o influenzare beneficamente gli altri gruppi sociali, anche all'interno del quadro istituzionale della democrazia moderna; di guidarne e stimolarne lo sviluppo fino alla pienezza, con attenzione particolare agli strati poveri della società; di custodirne i costumi e le tradizioni, creando ambienti, istituti e centri di produzione e diffusione di sana cultura e, dando con il proprio esempio di vita austera e disinteressatamente posta al servizio della nazione - secondo il modello classico dell'autorità cristiana -, il «tono» a tutta la società e allo Stato, creando così quella «democrazia delle élites» che papa Pacelli preconizza e della quale vede un valido referente storico nella Confederazione svizzera.


Il diritto naturale

La filosofia politica soggiacente a tale sforzo di magistero e che è costantemente - talvolta esplicitamente - richiamata, è quella ispirata alla dottrina del diritto naturale cristiano (fino dalla sua enciclica programmatica Summi pontificatus afferma: «[le norme] devono piuttosto appoggiarsi sull'inconcusso fondamento, sulla roccia incrollabile del diritto naturale e della divina rivelazione») che fa derivare la giustizia e il diritto dalla struttura antropologica dell'uomo e dalla sua conformazione al disegno eterno di Dio, Creatore della realtà, ivi compresa la persona e la società umane, diritto di suo indipendente dalla volontà positiva di chi esercita il potere. Pio XII, di formazione e mentalità eminentemente giuridiche, riprende e utilizza nel suo magistero le categorie in materia di diritto naturale elaborate dal pensiero cattolico, da san Tommaso d'Aquino ai teorici spagnoli del XVII secolo, Federico Suarez e Francisco de Vitoria. Un'altra stagione del diritto naturale si ebbe di nuovo nell'Ottocento, con la scuola gesuita dei padri Matteo Liberatore e Luigi Taparelli d'Azeglio, che continua nel Novecento con la neoscolastica e con figure come quelle di Francesco Olgiati, Antonio Messineo e Giorgio Del Vecchio.


La pace: «tranquillità dell'ordine»

Se è vero che, secondo l'espressione agostiniana, la pace altro non è che la tranquillità dell'ordine, cioè il frutto dell'ordine, si può dire che la produzione magisteriale di Pio XII, in quanto descrive e propugna le condizioni e le forme dell'ordine individuale, familiare e sociale, non possa essere separata da quell'obiettivo costante di pacificazione che costituisce l'abito, il leitmotiv, dell'azione di papa Pacelli, fino ad essere recepito nella frase di Isaia apposta al proprio stemma pontificale «Opus justitiae pax».



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APPENDICE AL PARAGRAFO 2 

DEL CAPITOLO VI

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NATURA E LIMITI DELLE TASSE


Nessun dubbio sussiste sul dovere di ciascun cittadino a sopportare una parte del gravame delle spese pubbliche. Ma lo Stato, dal canto suo, in quanto incaricato di proteggere e di promuovere il bene comune dei cittadini, ha l'obbligo di non distribuire tra questi che gli oneri necessari e proporzionatamente alle loro risorse. L'imposta non può quindi divenire mai per i pubblici poteri un mezzo comodo per colmare l'ammanco cagionato da un'amministrazione imprevidente, per favorire un'industria o una branca di commercio a svantaggio di un'altra egualmente utile. Lo Stato dovrà astenersi da qualsiasi spreco del denaro pubblico; esso dovrà prevenire gli abusi e le ingiustizie da parte dei suoi funzionari, nonché l'evasione di coloro che vengono legittimamente colpiti. Gli Stati moderni sono propensi oggi a moltiplicare i loro interventi e ad assicurare un numero crescente di servizi; essi esercitano un controllo più stretto sull'economia; intervengono maggiormente nella protezione dei lavoratori; inoltre i loro bisogni aumentano nella misura in cui diventano più ampie le loro amministrazioni. Spesso le imposte troppo onerose opprimono l'iniziativa privata, frenano lo sviluppo dell'industria e del commercio, scoraggiano le buone volontà [...].

Si può dire, in breve, che le dimensioni considerevoli degli Stati moderni esigano una sistemazione accurata della legislazione fiscale, ancora aggravata, su più di un punto, da un empirismo discutibile. [...] La saggezza dei governanti e l'efficacia di un'amministrazione zelante ed integra, deve dimostrare chiaramente che il sacrificio imposto corrisponde ad un servizio reale e genera i suoi frutti.

(PIO XII, Allocuzione al Congresso dell'Associazione fiscale internazionale, del 2-10-1956).



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L'ARMONIA DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE


Sensibilissimi al vostro gesto deferente. Noi vi diamo, signori Membri del Congresso del Movimento universale per una Confederazione mondiale, il Nostro cordiale benvenuto. Il Nostro vivo interesse per la causa della pace in una umanità così duramente travagliata vi è ben noto. Ne abbiamo dato frequenti testimonianze. La conservazione o il ristabilimento della pace è sempre stato ed è sempre più l'oggetto della Nostra sollecitudine costante. E se troppo spesso i risultati sono stati lontani dal rispondere ai Nostri sforzi e ai Nostri atti, l'insuccesso non Ci scoraggerà mai, fino a che la pace non regnerà nel mondo. Fedele allo spirito di Cristo, la Chiesa vi tende e vi lavora con tutte le sue forze: essa lo fa con i suoi precetti e con le sue esortazioni, con l'azione incessante, con incessanti preghiere [...].

Inoltre essa sa, ed è suo dovere, discernere tra i veri e i falsi amici della pace. Essa la vuole, e perciò si adopera a promuovere tutto ciò che, negli schemi dell'ordine divino, naturale e soprannaturale, contribuisce ad assicurare la pace. Il vostro Movimento, signori, si dedica a realizzare una organizzazione politica efficace del mondo. Niente è più conforme alla dottrina tradizionale della Chiesa, più conforme al suo insegnamento circa la guerra legittima o illegittima, soprattutto nelle congiunture presenti. Bisogna giungere dunque ad una organizzazione di tal genere, non fosse che per farla finita con una corsa agli armamenti in cui, da decine di anni, i popoli si rovinano e si esauriscono in pura perdita.

Voi siete d'opinione che, per essere efficace, l'organizzazione politica mondiale debba avere forma federalistica. Se con ciò intendete che essa deve essere esente dall'ingranaggio di un unitarismo meccanico, siete anche in questo d'accordo con i principii della vita sociale e politica fermamente enunciati e sostenuti dalla Chiesa. In realtà nessuna organizzazione del mondo sarebbe vitale se non si armonizzasse con l'insieme delle relazioni naturali, con l'ordine normale e organico che regge i rapporti particolari degli uomini e dei diversi popoli. Senza di che qualunque ne fosse la struttura le sarebbe impossibile sostenersi e durare [...].

Dappertutto oggi la vita delle nazioni è disintegrata dal culto cieco del valore numerico. Il cittadino è elettore. Ma, come tale, egli non è in realtà che una delle unità, il cui totale costituisce una maggioranza o una minoranza che uno spostamento di qualche voto, anche di uno solo, basterà a capovolgere. Di fronte ai partiti, egli conta soltanto per il suo valore elettorale, per l'apporto che il suo voto dà: del suo posto e del suo ufficio nella famiglia e nella professione non si tratta [...].

Fino a che l'organizzazione politica universale non sarà stata consolidata su questa indispensabile base si corre il rischio di inocularle i germi mortali dell'unitarismo meccanico. [...]

In realtà è impossibile risolvere il problema dell'organizzazione politica mondiale senza accettare di allontanarsi talvolta dalle vie battute, senza fare appello all'esperienza della storia, ad una sana filosofia sociale e anche a un certo intuito dell'immaginazione creatrice.


PIO XII, Stralci dal discorso Très sensible, pubblicato in Cristianità, anno VII, n. 45, gennaio 1979.


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5. IL MAGISTERO SCIENTIFICO


Intellettuale di razza egli stesso, Pio XII lungo tutto l'arco del suo pontificato non tralascia mai di rivolgersi agli esponenti degli ambienti colti della società.

Il contenuto del suo magistero mira, da un lato, a riaffermare la possibilità di un'armonica integrazione della fede con le scienze umane (il Dio che rivela non può infatti trovarsi in contraddizione con l'Autore del creato), le quali, a partire dal razionalismo settecentesco, attraverso il positivismo e lo scientismo dell'Ottocento, fino a giungere al tecnocratismo del nostro tempo, si è tentato di integrare a visioni del mondo contrapposte a quella religiosa o, anche, semplicemente teistica. Dall'altro lato, fa parte del suo disegno orientare la formazione di tali élites intellettuali sotto due aspetti: perché esse esercitano una influenza notevole sulle altre élites sociali e sulla società nel suo insieme e perché l'attività stessa di ricerca intellettuale pone agli stessi studiosi problemi e pericoli di chiusura orgogliosa o di naturalismo - se non di materialismo - dai quali il pontefice intende salvaguardarli.


I caratteri

Gli interventi di carattere scientifico di Pio XII sono generalmente indirizzati ad ambienti elevati e qualificati del corpo sociale e, di conseguenza, le considerazioni che vengono fatte nel loro ambito godono di una particolare autorevolezza ai fini dottrinali. Il punto di partenza del pontefice nel trattare i vari temi scientifici è quello dei tesori di dottrina che la Chiesa possiede, la Rivelazione e il diritto naturale in primo luogo, nonché, elemento non trascurabile, la propria plurisecolare esperienza di umanità, tanto individuale quanto collettiva.

Nel magistero di Pio XII possiamo dapprima identificare un gruppo di discorsi e testi diretti al ceto intellettuale nella sua generalità e potenzialità: sono quelli che egli rivolge agli universitari e ai laureati cattolici, come pure ai loro docenti. Il papa chiama tutti loro, più volte, a combattere la battaglia per la riconquista culturale del mondo contemporaneo, a farsi cioè anche nel nostro secolo «araldi della verità cattolica» (cfr. l'allocuzione Nei tesori, sui doveri dell'intelligenza cattolica, agli studenti universitari e ai laureati italiani di Azione Cattolica, del 20 aprile 1941) e «nuovi apostoli del Vangelo in seno alla società dei dotti e dei sapienti moderni» (ibid.). Egli fa appello anche alla coerenza tra il perfezionamento intellettuale e quello morale e spirituale, a nutrire la propria intellettualità con l'istruzione e la pratica religiose, a lottare abbandonando la superbia e adottando invece l'umiltà e la carità, nella consapevolezza della «grave responsabilità» che incombe sui dotti nei confronti degli altri membri della società, «specialmente i più umili» (come si esprime nel discorso Nel darvi ai laureati italiani di Azione Cattolica, del 24 maggio 1953).


Il modello di scienziato

Da parte del papa non può mancare neppure la proposizione di un modello di uomo di scienza cattolico, che egli ritrova nel filosofo, scienziato e teologo tedesco medievale sant’Alberto Magno, il quale viene dichiarato («colla pienezza della Nostra Apostolica potestà»), in un breve apostolico del 16 dicembre 1941, «celeste Patrono presso Dio degli studiosi delle Scienze Naturali».

I discorsi di argomento più specificamente scientifico sono invece rivolti per lo più alla Pontificia Accademia delle Scienze con cadenza annuale in occasione delle inaugurazioni degli anni accademici. Altri sono invece costituiti dai messaggi di saluto che il pontefice indirizza a vati convegni scientifici, specialmente medici. Il papa, in tutte queste occasioni, non cessa di ricordare i retti presupposti filosofici, sia teoretici che cosmologici e psicologici, di ogni ricerca scientifica, la quale, applicandosi al mondo delle cose, non può disancorarsi dalla visione creazionistica e giusnaturalistica, come quella cattolica, pena il non comprendere più oppure il concentrarsi sul particolare dimenticando l'universale.

Nessuna disciplina viene tralasciata: neppure la ricerca filosofica, definita «la più nobile e alta disciplina umana» nel discorso al Congresso Internazionale di Filosofia di Roma, del 20 novembre 1946.


Ostacoli da superare

Nell'occuparsi dei diversi argomenti, Pio XII non può non incontrarsi con i problemi più gravi e pressanti di allora, problemi sia interni alle discipline ecclesiastiche come a quelle profane, spesso interessando entrambi gli ambiti. Egli cerca di illuminarli tutti e di elaborare per ciascuno una soluzione in accordo con il cristianesimo. Talvolta la sua parola è ascoltata e accettata, ma altre volte, purtroppo, anche se autorevolmente reiterata, non vale a provocare il consenso degli intelletti e a smuovere le volontà, così che al pontefice non resta altra via, almeno per il gregge a lui affidato dalla Provvidenza, se non quella di una motivata condanna: l'integrità della verità e della fede è più importante per la Chiesa che non la libertà di opinione dei ricercatori.

Un esempio tipico di questi ultimi pronunciamenti è l'enciclica Humani generis del 12 agosto 1950. Il papa effettua in questa sede una sorta di accurato e accorato bilancio della cultura del suo tempo e palesa alcuni degli errori più pericolosi, per i credenti, allora in circolazione. Uno di questi è l'evoluzionismo materialistico, assunto allora come autentico dogma in campo non solo scientifico ma anche, coniugandosi con la concezione monistica della realtà (questa sarebbe costituita da un'unica sostanza), da diverse scuole filosofiche, offrendo altresì un sostegno formidabile al materialismo dialettico marxista. Anche un certo esistenzialismo - collocato a lato dell'idealismo, dell'immanentismo, del pragmatismo, di un certo pseudo-storicismo - incorre nella censura del pontefice, «perché ripudiate le essenze immutabili delle cose, si preoccupa solo dell'esistenza dei singoli individui». Un'altra dottrina che dalle scienze naturali deborda in campo teologico (questa volta) è il cosiddetto poligenismo (secondo cui il genere umano non avrebbe avuto origine da un'unica coppia originaria ma da più esseri cui andrebbe ricondotto, come nome collettivo, l'Adamo biblico). Essa viene giudicata pericolosa in quanto mette in discussione il peccato di origine.


La questione dei teologi

In campo teologico, diverse tendenze del momento divengono oggetto di messa in guardia da parte della Humani generis. Ad esempio, l'abbandono dell'apparato concettuale della filosofia scolastico-tomistica nella interpretazione del dogma; la lotta contro l'apologetica tradizionale in nome del cosiddetto «irenismo»; la latente sostituzione delle conclusioni della ricerca teologica al magistero. Particolarmente veemente è la reazione di Pio XII in relazione al problema della filosofia tomistica: egli non esita ad affermare che «questi amatori delle novità facilmente passano dal disprezzo della teologia scolastica allo spregio verso lo stesso Magistero della Chiesa (...) Questo Magistero viene da costoro fatto apparire come un impedimento al progresso e un ostacolo per la scienza; (...) il divin Redentore non ha affidato questo deposito (della fede), per l'autentica interpretazione, né ai singoli fedeli né agli stessi teologi, ma solo al Magistero della Chiesa». Sono questi i termini di un dibattito - quello del rapporto teologia/magistero - che dura tuttora e i successivi pronunciamenti, in consonanza con Pio XII, ripetuti più volte dai pontefici, non sembrano a tutt'oggi avere avuto esito. Vi sono stati in anni recenti «casi» clamorosi, come la vicenda del teologo svizzero Hans Kung, le polemiche contro l'enciclica di Paolo VI Humanae vitae, la «teologia della liberazione». Un documento volto a ripercorere organicamente i termini del dibattito e, augurabilmente, a porvi fine, è la Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, emesso il 24 maggio 1990 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.

Altri punti teologici toccati nell'importante documento di Pio XII: i dubbi sulla natura degli angeli, la rimozione o riduzione del concetto di peccato originale e di peccato attuale, il tentativo di svuotare di realtà la consacrazione eucaristica sostituendo il termine «transustanziazione» con altri più vaghi.

Come non individuare in tutti questi fermenti erronei, condannati dal pontefice - e rinnovati ancora in seguito, forse in maniera grave come non mai nella storia della Chiesa - antichi errori, già più volte manifestatisi e culminati in quella «sintesi di tutte le eresie», cioè il modernismo teologico, affrontato e contestato con tanta fermezza da Pio X?

 

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APPENDICE AL PARAGRAFO 5 

DEL CAPITOLO VI

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ARMONIA TRA FEDE E SCIENZA


«(...) Ma anche nella vostra personale presenza in questo stesso luogo, nel magnifico omaggio di 350 opere di scienziati e letterati, Noi vediamo la conferma - onorevole per voi e, per Noi intimamente consolante - del molteplice e indissolubile accordo della vostra sollecitudine per l'umano sapere e per il progresso scientifico con il profondo rispetto per la verità divina, di cui l'insegnamento, la difesa, la conservazione, l'interpretazione è affidata alla Chiesa di Cristo.

Gli è che, fra i risultati certi delle investigazioni scientifiche e i dati essenziali della fede, non vi è e non vi può essere alcuna opposizione irriducibile. Circa le eventuali divergenze bisognerà attribuirle agli errori a cui sono facilmente soggetti i giudizi umani, ma non mai possono riferirsi ad un contrasto oggettivo e inconciliabile tra la scienza e la fede.

No, signori: i diritti della ragione e il progresso del sapere non hanno alcuna minaccia da temere da parte della fede. Il loro nemico non è certo Dio; lo sono invece tutti coloro che, in un modo o nell'altro, hanno rinnegato o messo da parte Dio per porre al suo posto un idolo. E chi oserebbe negare che il nostro tempo scivola pericolosamente sulla china che lo porta al culto di false divinità, il cui servizio è incompatibile con la libertà morale e la dignità dello scienziato?»


PIO XII, Dal discorso di Pio XII ai professori e studenti universitari di Francia (10 aprile 1950) in: PIO XII, Discorsi agli intellettuali (1939-1954), Ed. Studium, Roma, p. 144.

 

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6. LE ENCICLICHE DOGMATICHE


Tra i documenti che Pio XII dedica specificamente alla Chiesa spiccano tre encicliche: la Mystici corporis, avente per tema la teologia della Chiesa, la Divino afflante spiritu, sulla Sacra Scrittura e, infine, la Mediator Dei, sulla liturgia.

Tutte e tre vengono promulgate in breve arco di tempo: le prime due nel 1943, la terza nel 1947.


Il «Corpo mistico»

Nell'enciclica sulla Chiesa, datata 29 giugno 1943, festa dei santi Pietro e Paolo, il papa introduce, per la prima volta a livello di magistero ecclesiale, il concetto e il termine di «Corpo mistico di Cristo». Esso veniva ad affiancarsi alle definizioni tradizionali - o diventate consuete - di «sposa di Cristo», «madre dei viventi», «ovile di Cristo», «dimora del Dio vivente», «tempio santo», «città» o «regno di Dio».

Con la nuova definizione e la dottrina ad essa connessa, Pio XII si richiama direttamente alla teologia paolina e intende sottolineare il carattere di compagine organica che contraddistingue la Chiesa. Essa è, secondo questo insegnamento, una realtà unica, con articolazione analoga - ma non identica - a quella di un corpo, una realtà cioè indivisa, visibile, gerarchicamente compaginata, dotata di organi vitali (i sacramenti), che si compone di membri individuabili (i battezzati, che sono legati a Cristo e tra loro stessi con la stessa forza delle membra con il corpo). Cristo è colui che ha dato vita a tale corpo e che lo sostiene e lo conserva. La sua natura è però «mistica», cioè misteriosa, in quanto in essa opera lo Spirito di Dio, come linfa vitale, con le sue grazie, i suoi carismi, i suoi frutti, che sono tanto ineffabili quanto invisibili.

La Chiesa non è, per altro aspetto, né una Chiesa nascosta, intangibile, riducibile al soffio dello Spirito, una «Chiesa pneumatica», né, altresì, una pura istituzione umana (una Chiesa «giuridica»), bensì, come nel Verbo incarnato convivono due nature, la divina e la umana, così nella Chiesa coesistono i due aspetti di realtà spirituale e di istituzione terrena che ha un suo assetto anche giuridicamente statuito.

La seconda parte della Mystici Corporis è dedicata a descrivere come si realizza questa unione dei battezzati in Cristo e tra essi stessi; mentre la terza contiene un'esortazione pastorale nella quale vengono confutate, tra l'altro, tendenze ascetiche che vengono raccolte sotto il titolo di «falso misticismo» e di «falso quietismo». Essa termina con un caloroso appello ai fedeli affinché il loro amore per la Chiesa abbia come modello quello di Cristo medesimo.

Questa dottrina del Corpo Mistico avrà grande influsso nella teologia degli anni successivi, anche su quella spirituale e sull'apologetica, e verrà recepito in integro, a fianco del nuovo concetto di «popolo di Dio», nella costituzione Lumen gentium sulla Chiesa del Concilio Vaticano II.

L'enciclica Divino afflante Spiritu del 30 settembre 1943 viene promulgata allo scopo di ricordare e celebrare il cinquantenario dell'enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII, che viene definita «la Magna Charta degli studi biblici»,

Pio XII non si propone di aggiungere alcunché all'insegnamento scritturale del predecessore, ma soltanto di richiamarne e riaffermarne i termini e lo spirito, intendendo al più presentare alcune modalità di svolgimento degli studi biblici più adeguate ai mutati tempi.


L'«anima» delle Scritture

La divina ispirazione della Bibbia, insegnava Leone XIII, non doveva né venir messa in discussione, né ristretta ai soli insegnamenti riguardanti la fede e la morale, ma andava considerata inerente all'intero testo dei libri approvati dalla Chiesa e ad essi soli. Eventuali errori di natura storica o scientifica rilevabili in alcuni testi non erano propriamente da ritenere tali, in quanto l'agiografo non era necessariamente esperto di questioni di «cose fisiche» o, comunque, ne riferiva con le categorie comuni proprie dello stadio di progresso scientifico del suo tempo. Né peraltro tali nozioni erronee sono da considerare parte essenziale della rivelazione divina, anzi sono «cose [che] nulla importano per la salute eterna», ché questa è, in ultima analisi, l'«anima» della Sacra Scrittura.

Dopo aver ricordato con quanta fedeltà i suoi predecessori Pio X e Pio XI si erano fatti eco dell'insegnamento leoniano, Pio XII espone i nuovi criteri metodologici da usare nella ricerca. Necessità di salde basi filologiche, quindi linguistiche, corretta e serrata critica testuale, uso delle versioni greca ed ebraica della Scrittura a fianco della Volgata (la traduzione in latino, opera di san Girolamo, è adottata come ufficiale dalla Chiesa), retto uso dei «sensi» (letterale, allegorico, ecc.) del testo, utilizzo delle esegesi dei Padri, maggiore impiego dei risultati delle discipline storiche, archeologiche e culturali, ne sono i cardini. L'enciclica si chiude rammentando lo stretto legame che unisce l'esegesi scritturale con l'annuncio e il commento biblico popolare e, quindi, con la fede e la pietà del popolo di Dio, che dalla parola di Dio trae nutrimento per la sua salvezza.


Maggior carattere innovativo ha invece l'ultimo dei tre documenti in esame, la Mediator Dei del 20 novembre 1947. Si tratta di un documento di ampio respiro (è stato edito con la numerazione di ben 183 paragrafi), una sorta di breve trattato, con il quale il sommo pontefice intende riprendere, rinnovare e rinvigorire il senso teologico della liturgia cattolica. Era un tema assai sentito in quegli anni in quanto molti avvertivano una certa fissità nelle forme liturgiche, nonché la presenza in esse di numerosi sedimenti devozionali posteriori alla riforma tridentina che rischiavano di far perdere il significato genuino degli atti di culto. È senz'altro noto, poi, come non molti anni dopo, con il Concilio Vaticano II, la Chiesa latina inaugurerà un'ampia anche se spesso malintesa e, quindi, deformata, azione di riforma della lex orandi.

L'esigenza di un rinnovamento liturgico, di una maggiore conoscenza delle sue fonti storiche, nonché di una maggiore compenetrazione tra liturgia e pastorale e liturgia e vita della comunità, era già emersa durante l'intenso periodo: di restaurazione delle comunità benedettine in Francia, dopo la Rivoluzione, soprattutto ad opera della gigantesca figura di fondatore, liturgista e divulgatore di don Prosper Guéranger. La corrente di studi da questi iniziata era culminata nei primi anni del Novecento con la costituzione del cosiddetto «movimento liturgico».

«Il Nostro dovere c'impone - afferma Pio XII nell'introduzione - di seguire con attenzione questo “rinnovamento” nella maniera nella quale è da alcuni concepito, e di curare diligentemente che le iniziative non diventino né eccessive né difettose».


Liturgia e preghiera

Nella prima parte egli dà una definizione della liturgia che suona così: «la sacra liturgia è (...) il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all'Eterno Padre: è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra».

Nell'ambito delle diverse forme di culto, ruolo centrale riveste il culto eucaristico, cui Pio XII dedica la seconda parte del documento. La sua fonte è il sacrificio rinnovato del Signore nella messa e si esplica ancora nella comunione eucaristica e nell'adorazione delle sacre specie. La novità - che sarà poi parte saliente dell'insegnamento dei padri del Vaticano II - è l'accento che il papa pone sulla liceità e sull'efficacia della partecipazione dei fedeli al sacrificio della messa in unione con il sacerdote.

Altre due forme liturgiche prese in considerazione e giudicate come da rivalutare sono per Pio XII l'ufficio divino e l'anno liturgico. Soprattutto la preghiera «ufficiale» del Corpo mistico, basata sui Salmi, riprenderà impulso e diffusione anche tra i laici dopo l'ultimo concilio. Il secondo (la meditazione sui misteri della vita di Cristo in sincronia con la liturgia nei vari «tempi» dell'anno) ha conosciuto, pare, meno fortuna. Forse perché imperniato sulla persona storica del Redentore e sui santi e quindi male sonante per le orecchie di «quegli scrittori moderni, i quali - come afferma la Mediator Dei -, ingannati da una pretesa più alta disciplina mistica, osano affermare che non ci si deve concentrare sul Cristo storico, ma sul Cristo "pneumatico e glorificato"». (n. 137)


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APPENDICE AL PARAGRAFO 6 

DEL CAPITOLO VI

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EVENTI POLITICI DURANTE IL PONTIFICATO DI PIO XII 

(prima parte)


12-3-1940

Dopo tre mesi di strenua resistenza, la Finlandia soccombe all'URSS.


10-5-1940

Occupazione tedesca di Belgio, Lussemburgo e Olanda. Offensiva contro la Francia, che capitolerà il 22-6.


10-6-1940

Dichiarazione di guerra dell'Italia alla Francia e all'Inghilterra.


3/6-8-1940

Annessione sovietica di Estonia. Lettonia e Lituania.


27-9-1940

Patto tripartito fra Germania, Italia e Giappone.


22-6-1940

La Germania invade l'URSS.


7/8-12-1941

Attacco giapponese a Pearl Harbour. Gli USA entrano in guerra contro il Giappone.

11-12-1941

Dichiarazione di guerra di Germania e Italia contro gli Stati Uniti.


25-7-1943

Mussolini viene arrestato per ordine del re Vittorio Emanuele III dopo un voto contrario del Gran Consiglio del fascismo. Dopo trattative segrete con gli alleati e il successivo armistizio (3-9), il governo Badoglio e la famiglia reale si rifugiano a Brindisi sotto il controllo dell'esercito americano: nasce il regno del sud.


12-9-1943

Mussolini, liberato dalle “SS”. costituisce la Repubblica Sociale Italiana (1-12) che governerà l'Italia del nord per 19 mesi, combattendo soprattutto contro i gruppi partigiani.


28-11/1-12-1943

Conferenza di Teheran tra Roosevelt, Churchill e Stalin.


9/18-10-1944

Colloqui di Mosca fra Roosevelt, Eden e Stalin. Si definiscono le rispettive sfere d'influenza delle potenze alleate nei Balcani.


1/11-2-1945

Alla Conferenza di Yalta, Churchill, Roosevelt e Stalin decidono, fra l'altro, il futuro della Germania (divisione in due zone di occupazione).


25-4-1945

Mussolini viene catturato da partigiani a Dongo e fucilato.


30-4-1945

Suicidio di Hitler a Berlino.


17-7/2.8.1945

Conferenza di Potsdam sulla sistemazione del mondo nel dopoguerra.


7/8-5-1945

Resa delle forze armate tedesche.


6-8-1945

Lancio da parte degli USA delle prime bombe atomiche: su Hiroshima (100.000 morti e 100.000 feriti) e, tre giorni dopo, su Nagasaki.

2-9-1945

Capitolazione del Giappone.

Fine della guerra che, secondo un bilancio approssimativo, è costata 55 milioni di morti, di cui il 55% civili.


24-10-1945

Entra in vigore la Carta delle Nazioni Unite firmata da 51 Stati dopo la fondazione dell'ONU (26-6-1945).


Europa orientale. Si estende l'influenza sovietica, che nel 1945 si annette la Prussia nord-orientale, l'Ucraina carpatica e i territori orientali polacchi, e, nel 1947, dopo i trattati di Pace di Parigi, ottiene la Carelia dalla Finlandia e la Bessarabia dalla Romania.


 


 

7. L'ETICA SANITARIA

di Piera Villa Sanguinetti


Pio XII nel suo multiforme magistero ha affrontato in maniera ampia i problemi di etica sanitaria, sottolineando in modo deciso l'interdipendenza dell'anima e del corpo che sono i due aspetti, le due componenti di una sola realtà: l'uomo. Il papa richiama continuamente questa unità agli operatori sanitari, ricordando l'altissima dignità della loro missione che li vede «collaboratori di Dio nella difesa e nello sviluppo della Sua creazione» (Discorso ai Congressisti delle Società Nazionali di Gastro-Enterologia, del 26 aprile 1952). Originale è l'approccio che il pontefice ha con il problema: egli si mette sullo stesso piano tecnico-scientifico dei suoi interlocutori, adottando sempre una terminologia moderna e aggiornata, dando la preminenza ad una esatta impostazione dei problemi di fondo. Questo «tecnicismo» non va però a discapito del suo obbiettivo di «reductio ad unum» delle scienze e delle tecnologie mediche. Quasi profetiche, considerando il tempo ormai non più vicinissimo, sono le sue prese di posizione su tematiche oggi ampiamente dibattute, quali la fecondazione artificiale ed i princìpi di deontologia che definiscono i limiti nella ricerca e nella sperimentazione, i confini degli interventi di «rianimazione», o l'inquadramento morale delle questioni di genetica e di psicologia.

 

I tre princìpi di base

Ci sembra importante evidenziare le tre idee basilari che fondano l'etica sanitaria secondo Pio XII. Esse sono le seguenti.

a) «La morale medica deve poggiare sopra l'essere e la natura. E ciò perché essa deve corrispondere all'essenza della natura umana e alle sue leggi (...). Tutte le norme morali, anche quelle della medicina, procedono necessariamente da principi ontologici [...]» (all'Associazione Medica Mondiale, 30 settembre 1954).

b) «La morale medica deve essere conforme alla ragione, alla finalità ed orientarsi a seconda dei valori» (ibid.) L'operatore medico sanitario, secondo tale principio, non può essere superficiale, bensì deve avere una coscienza attiva, chiedendosi ad ogni intervento quale è la sua giustificazione, a che cosa mira e quali mezzi lecitamente può usare.

c) «La morale medica deve essere radicata nel trascendente» (ibid.) L'ordine morale ha, infatti, un carattere assoluto che supera sia l'incostanza del comportamento umano, sia la mutevolezza del costume sociale, e di conseguenza anche la morale medico-sanitaria ha un fondamento ed obbedisce ad una regola che sono trascendenti.


Avendo presenti queste premesse, il medico cattolico, come pure l'operatore sanitario, secondo l'insegnamento del papa, interverranno sul malato ricordando sempre la totalità e l'unicità della persona, fatta ad immagine e somiglianza di Dio, recante l'impronta di Dio nell'anima e perciò degna del massimo rispetto.

Tra le tematiche cui abbiamo accennato, vogliamo soffermarci su tre temi, oggi al centro dell'attenzione.


La fecondazione artificiale

La fecondazione artificiale, sia al di fuori che all'interno del matrimonio, in generale, se riferita all'uomo, non può essere considerata dal punto di vista medico-biologico soltanto, escludendo quello etico. Al di fuori del matrimonio, è immorale perché la legge naturale stessa, oltre a quella divina positiva, stabilisce che la procreazione avvenga all'interno di un contesto certo e stabile, cioè all'interno di una famiglia frutto di un matrimonio. Nell'ambito del matrimonio stesso, se prodotta attraverso l'elemento attivo di un terzo, è immorale perché solo gli sposi hanno il diritto reciproco sul loro corpo. Oltre a ciò, siccome al genitore compete anche la conservazione della vita del figlio e soprattutto la sua educazione, ciò non può avvenire (o, quanto meno, è esposto a grave rischio) se tra lo sposo legittimo ed il bambino non esiste alcun vincolo di origine.


La genetica

Agli studiosi di genetica il pontefice, dopo aver minuziosamente ripercorso le tappe del progresso della loro scienza ed essersene rallegrato, ricorda invece che: «[...] La sola genetica nulla può dire sull'unirsi che fa un'anima spirituale, nell'unità di una natura umana, a un substrato organico dotato di un'autonomia relativa. La psicologia e la metafisica, od ontologia, devono dire la loro parola non per opporsi alla genetica, ma per procedere in accordo con essa, riprendendo ma anche sostanzialmente completando i suoi dati [...]. Non è lecito dedurre tutto lo psichismo [...] dall'anima rationalis come forma corporis, sostenendo che la materia prima amorfa riceve ogni sua determinazione dall'anima spirituale creata direttamente da Dio, e nulla dai geni racchiusi nel nucleo cellulare» (Discorso ai partecipanti al Primo Congresso Internazionale di Genetica medica, del 7 settembre 1953).


La farmacia

Non ci si può esimere, infine, dal ricordare, anche brevemente, gli insegnamenti ai farmacisti, cui ricorda la necessità della retta coscienza, «perché oltre il suo aspetto tecnico, l'effetto buono o cattivo dei rimedi riveste un aspetto morale, al quale lo sbandamento ed il disordine attuali delle coscienze conferiscono presentemente una gravità mai avuta in passato» (Lettera He recibido della Segreteria di Stato al III Congresso Internazionale dei farmacisti cattolici, del settembre 1954).



8. IL MAGISTERO SPIRITUALE

Il magistero di carattere spirituale di Pio XII - anche se tutto il magistero della Chiesa ha in verità una lata intentio di natura spirituale, in quanto finalizzato anch'esso alla salvezza dell'uomo - trova la sua origine, da un lato, dalla profonda vita interiore di Eugenio Pacelli e, dall'altro, dalle diverse necessità di sostegno spirituale e di impetrazione dell'aiuto del Fondatore, che la Chiesa, popolo di Dio, presenta nei vari momenti storici.


Pio XII e la Vergine

Tra i vari temi toccati dal magistero spirituale di Pio XII vogliamo ricordarne due: la devozione a Maria e quella al Sacro Cuore di Gesù.

Riguardo al primo, si rileva che per tutta la sua vita il papa coltiva una devozione - privata come pubblica - altissima e teologicamente fondata alla Madre di Dio. Ella è vista, in particolare, come Madre della Chiesa ed è, quindi, sentita straordinariamente vicina a lui, vicario di Cristo e pastore supremo della Chiesa. Di lei il papa mette specialmente in risalto la figura di mediatrice di tutte le grazie, liberamente eletta dal Figlio come termine medio fra se stesso e l'umanità redenta, e, di conseguenza, la indica come colei nelle cui mani sta la sorte, non solo delle singole anime, ma anche dei popoli, delle nazioni, degli Stati. Maria è inoltre ininterrottamente invocata e additata da Pio XII come modello di santità  femminile, in particolare - ai singoli, alla Gerarchia, ai diversi stati di vita, ai reggitori di popoli.

Apostolo, custode e animatore fervente delle varie forme di devozione a Maria - soprattutto quelle popolari - da quella di Lourdes a quella di Fatima e a quella del Carmelo, egli si sforza costantemente di meglio fondare dottrinalmente e di purificare tali correnti spirituali.


Alla Regina del cielo

A Maria, Pio XII dedica memorabili encicliche. Una delle più belle e fondamentali è Ad coeli Reginam del 1954, nella quale rintraccia il profilo teologico e rilancia la dottrina della Regalità della Vergine, della quale istituisce nel contempo la festa, al termine del mese di maggio. Tre anni prima, nel 1951, con l'enciclica Ingruentium malorum, aveva richiamato il popolo cristiano alla necessità della preghiera mariana, proponendo in particolare il ricorso a Maria mediante il Rosario, che viene proposto come il rimedio più appropriato, per la sua natura di preghiera contemplativa, alla dispersività del mondo moderno. Nel 1953, poi, con l'enciclica Fulgens corona, indice l'anno Mariano, in occasione del centenario, esplicitamente richiamato, della proclamazione del dogma della Immacolata Concezione da parte di Pio IX. Per l'occasione il papa compone una preghiera, rivolta alla Madonna e segno del suo amore straordinario per lei.

È anche noto che si deve a Pio XII la definizione dogmatica - l'ultima tra l'altro, finora - dell'Assunzione in cielo in corpo e anima della Vergine, definizione proclamata a Roma e rivolta alla Chiesa universale il 10 novembre 1950 nel corso dell' Anno Santo con la costituzione apostolica Munificentissimus Deus e preparata fino dal maggio 1946 con l'enciclica consultiva Deiparae Virginis Mariae.


Le apparizioni di Fatima

Una menzione a parte merita il legame tra Pio XII e la Madonna di Fatima. Egli viene ordinato vescovo proprio nel giorno della prima apparizione di Maria ai tre pastorelli portoghesi, il 13 maggio 1917, e sembra quasi che tale coincidenza segni per sempre la vita e il ministero del futuro pontefice. Coltiva infatti una devozione viva e speciale al Cuore Immacolato di Maria, la cui imitazione sovente ripropone ai contemporanei, come si può rilevare dalla sua lettera al vescovo di Autun (in Francia) Ex officiosis litteris del 15 gennaio 1948. Si fa inoltre esplicitamente strumento delle richieste rivolte da Maria a Fatima allo scopo di allontanare il castigo di Dio dal mondo peccatore, allorché consacra nel 1942, in pieno conflitto mondiale, il mondo al Cuore della Vergine con il radiomessaggio ai pellegrini di Fatima Benedicite Deum caeli. Dieci anni più tardi, il 7 luglio 1952, ottempererà ancora più fedelmente ai desideri di Maria consacrando «tutti i popoli della Russia» al suo Cuore Immacolato.

Una seconda volta ancora, nel 1946, ritorna sul tema di Fatima indirizzando ai vescovi e al popolo portoghesi il radiomessaggio Bendito seja o Senhor in occasione della incoronazione della statua di Maria ad opera del legato pontificio, cardinale Aloisi Masella, il 28 aprile 1946, nel quale sottolinea il ruolo regale universale della Madre di Dio.

Ancora, in tema di mariologia, vanno menzionate le esortazioni ai pellegrinaggi verso i luoghi delle apparizioni mariane, in particolare Lourdes; la promozione della consacrazione delle nazioni a Maria nel Vecchio come nel Nuovo Mondo; la composizione di preghiere di rara bellezza, quali quella contenuta nel radiomessaggio Quando, lasciate alla gioventù cattolica italiana dell'8 dicembre 1953, che inizia con le parole «O Vergine bella come la luna (...)», quella a Maria Assunta (10 novembre 1950), quella alla Madonna di Lourdes del 1957, quella, infine, «O piena di grazia (...)», recitata il 26 maggio 1957, preghiera della e per la donna cristiana.

Pio XII stesso, sul finire del proprio pontificato, nell'enciclica Meminisse iuvat, del 14 luglio 1958, traccerà un sintetico bilancio della sua opera per la confermazione e la propagazione del culto mariano nel mondo.


Il culto del Sacro Cuore

Al culto del Sacro Cuore di Gesù, Pio XII dedica invece un documento importantissimo dal punto di vista teologico e pastorale, l'enciclica Haurietis aquas. Essa si riallaccia a due altri solenni documenti di predecessori: l'enciclica Annum sacrum di Leone XIII (1899) e la Miserentissimus Redemptor di Pio XI (1928). Di essi l'enciclica pacelliana costituisce un approfondimento e uno sviluppo: ciò vale in particolare per il secondo documento, il cui motivo centrale - la riparazione ai dolori inferti al Cuore di Gesù per i peccati degli uomini, anche sociali, da parte di schiere elette dei fedeli - viene riproposto pressantemente dal papa, che ne avverte acutissima la necessità, tanto più urgente quanto più la degradazione morale nel mondo si va diffondendo.


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APPENDICE AL PARAGRAFO 7 

DEL CAPITOLO VI

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EVENTI POLITICI DURANTE IL PONTIFICATO DI PIO XII

(seconda parte)



12-6-1946

In Italia dopo il referendum viene proclamata la Repubblica.


1946

Inizia in Indocina la guerra tra le forze socialiste del Viet-Minh e le truppe francesi.


maggio 1947

In Italia viene costituito il quarto governo De Gasperi: per la prima volta dal 1944, il PCI non ne fa parte.


1947

Gli Stati Uniti d'America lanciano il «Piano Marshall» (per la Ricostruzione Europea).


18-4-1948

Elezioni generali in Italia: sconfitta socialista e inizio dell'egemonia politica democratico-cristiana.


1948

Il leader del socialismo jugoslavo, Josip Broz «Tito», rompe con Mosca.

Blocco sovietico di Berlino: ponte aereo per rifornire la città assediata.


maggio 1948

Guerra tra la Lega Araba e gli ebrei palestinesi: si conclude con un armistizio. Poco dopo nasce lo Stato nazionale ebraico.


1-10-1949

Viene proclamata la Repubblica Popolare Cinese.


1950

Scoppia la guerra di Corea.


1951

In Cecoslovacchia purghe nel partito socialista.


5-3-1953

Muore Stalin; emerge Nikita Krusciov che dà segni del «disgelo».


17-6-1953

A Berlino est la popolazione insorge contro la SED (il partito socialista). Violenta repressione russa.


1954

In Indocina sconfitta dei francesi a Dien Bien Phu; nascono Laos, Cambogia e i due Vietnam.


1954

Lo sfaldamento dell'impero coloniale francese in nord Africa: indipendenza di Tunisia e Marocco. In Algeria esplode la guerriglia tra il Fronte di Liberazione Nazionale e il governo francese.


1956

Nel giugno scoppiano rivolte popolari in Polonia, soprattutto a Poznan.


ottobre 1956 

L'Ungheria insorge.


1956

L'Egitto nazionalizza il Canale di Suez. Israele attacca l'Egitto per conquistarsi uno sbocco sul Mar Rosso (il porto di Eilat). Intervengono la Francia e l'Inghilterra.

Sotto le pressioni dell'ONU e americane gli anglo-francesi devono ritirarsi. Le potenze europee realizzano quanto siano mutati i rapporti strategici dopo la guerra mondiale.


1956

Al XX congresso del PCUS Krusciov denuncia i crimini di Stalin. Si apre la «destalinizzazione» all'interno dell'URSS e dei paesi satelliti.


1957

Inizia la «seconda guerra d'Indocina»: una virulenta guerriglia sul territorio del Vietnam del Sud prelude all'intervento nord-vietnamita socialista a fianco del Vietcong e degli Stati Uniti a fianco dei governativi.


1957

Con il lancio del satellite artificiale sovietico Sputnik si apre l'era dell'esplorazione dello spazio.


1958

Nasce in Francia la Quinta Repubblica che l'anno dopo eleggerà alla sua testa il generale Charles De Gaulle.




CONCLUSIONE


Pio XII muore nel 1958, a pochi anni dalla convocazione del Concilio Vaticano II, che segnerà una svolta nella vita della Chiesa e nei rapporti di questa con il mondo.

Al di là dei limiti cronologici recepiti nel titolo di questo dossier (I papi del nostro secolo) abbiamo voluto ricostruire l'identikit del periodo storico che termina con il Vaticano II e, per questo, abbiamo dovuto risalire fino all'evento che lo apre, cioè la Breccia di Porta Pia, che segna l'inizio  almeno emblematicamente - di quel processo di irrigidimento reciproco fra Chiesa e mondo che l'ultimo Concilio sembrerà attenuare. Abbiamo dovuto, a tale fine, operare una digressione nell'Ottocento trattando del pontificato di Pio IX e della prima parte di quello di Leone XIII.

Come riassumere le grandi linee storiche di questa epoca?


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1870-1960: sono novant'anni segnati dalla progressiva conquista liberale del governo degli Stati e da una conseguente e generalizzata legislazione tendenzialmente laicistica, dalla secolarizzazione del pensiero e della vita, dall'avvento delle ideologie (socialcomunista, fascista, nazionalsocialista) che contendono al liberalismo la guida delle società occidentali fino al punto da scatenare una guerra «calda», prima, e una guerra «fredda», poi. Ad esse seguirà - come vedremo in un successivo dossier - l'esplosione a livello culturale dei fermenti liberali e marxisti in quella che verrà chiamata la Rivoluzione culturale del Sessantotto.


*****

Alla fine degli anni Cinquanta la Chiesa si trova in una situazione apparentemente senza uscita, dal punto di vista temporale, nel suo rapporto con il mondo. Tanto nel mondo libero, infatti, quanto nel mondo dominato dal blocco sovietico, il processo di distacco dei popoli dal cristianesimo procede e si acuisce, sotto la spinta di forze apparentemente divergenti ma in realtà cospiranti, come il materialismo pratico che si diffonde ad Ovest (anche in reazione al tragico conflitto mondiale) e il materialismo ateistico militante che opprime i popoli dell'Est. Nelle altre aree del mondo, mentre l'Islam conosce i primi fermenti di risveglio culturale e politico, l'evangelizzazione missionaria inizia a conoscere notevoli difficoltà di penetrazione.

Alla Chiesa si pone dunque con urgenza il problema di come fare fronte a questa condizione storica. Certamente, come sempre e come ripetono tutti i pontefici in un modo assolutamente non convenzionale, la prima riforma inizia dagli uomini, dal loro maggior tendere alla santità assumendo l'insegnamento evangelico in tutta la sua radicalità. Questo non elimina, però, la necessità di adeguare la pastorale ai bisogni dei tempi.


*****

È da qui che nasce l'intenzione originaria che porterà alla convocazione di un nuovo Concilio generale durante il pontificato di Giovanni XXIII.

Davanti a questa intenzione e alla sua attuazione nel Concilio, si delineano peraltro almeno tre atteggiamenti fondamentali: quello di coloro che vogliono semplicemente continuare a proporre l'insegnamento della Chiesa, nell'attesa che il mondo receda dalle sue posizioni; quello di alcuni che, riprendendo il tentativo modernista, cercheranno, soprattutto durante e dopo il Concilio, di cambiare anche il contenuto del messaggio cattolico sotto il pretesto dell'aggiornamento pastorale, e, infine, quello dei cattolici che andranno incontro agli uomini del proprio tempo, rinunciando ad ogni pur legittimo privilegio conseguito dalla Chiesa in tempi più cristiani, ma senza mutare uno “jota” della dottrina di sempre.

Sarà quest'ultima la posizione che, dopo gli anni di confusione e di illusione del post-Concilio, troverà corpo nel magistero di Giovanni Paolo II, che rivolgerà alle nazioni di più antica tradizione cristiana l'appello pressante ed appassionato a intraprendere una «nuova evangelizzazione» (del vecchio mondo) e a riscoprire il ruolo essenzialmente missionario del cattolico, in particolare del laico.

Ma per tutto questo, rimandiamo il lettore al secondo dossier su I papi del nostro secolo: da Giovanni XXIII a Giovanni Paolo II.



INDICE


Premessa


I. IL SACRO NELL'ETÀ MODERNA 

Sacralità e Rivoluzione 

Il pontificato di Pio IX 


II. LEONE XIII, IL PAPA DELLA RINASCITA CULTURALE (1878-1903) 

La vita, il pontificato 

Cultura cattolica e cultura laicista

Le ideologie del secolo 

Le società segrete

Sulla famiglia 

Lo Stato e il principio d'autorità

La questione sociale 


III. PIO X, UN PAPA CHE VERRÀ PROCLAMATO SANTO (1903-1914) 

La vita, il pontificato 

La crisi modernista 

L'insegnamento delle «cose divine» 

La «riforma eucaristica» 

Pio X e il movimento cattolico in Italia 

Il segretario di Stato, cardinale Merry del Val

Lo scontro con la Repubblica francese

La morte e la canonizzazione 


IV. BENEDETTO XV, UN PAPA NELLA TRAGEDIA DELLA «GRANDE GUERRA» (1914-1922)

La vita, il pontificato 

I cattolici e il primo conflitto mondiale 

Sulla Sacra Scrittura

Il codice di Diritto Canonico 

L'epistola su Dante Alighieri 


V. PIO XI, UN PAPA NELL'ETÀ DEI TOTALITARISMI (1922-1939)

La vita, il pontificato

Sull'educazione 

La «Quadragesimo anno» nella dottrina sociale della Chiesa 

Di fronte al socialcomunismo

Di fronte al fascismo e al nazionalsocialismo

Gli «esercizi spirituali» 

I Patti Lateranensi 


VI. PIO XII, UN PAPA TRA GUERRA TOTALE E GUERRA «FREDDA» (1939-1958)

La vita, il pontificato

La seconda guerra mondiale

il nazionalsocialismo e gli ebrei 

La «Chiesa del silenzio» 

Il magistero sociale

Il magistero scientifico

Le encicliche dogmatiche

L'etica sanitaria 

Il magistero spirituale 

Conclusione


 

FINITO DI STAMPARE NEL FEBBRAIO 1991