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1992 06 07 * Panorama * "Io, giudice e basta" * Luca Rossi

"Io, giudice e basta”, di L. Rossi, Panorama,7 Giugno 1992 *. Queste parole di Falcone vengono pubblicate postume con l’intento di mettere in evidenza l’intreccio di polemiche all’interno dei quali si è trovato a lavorare negli ultimi anni della sua carriera. Il magistrato ripercorre le tappe dello scontro all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura e la "battaglia” con Antonino Meli per il posto all’Ufficio istruzione di Palermo, ricordando gli ostacoli e i torti subiti. Ripropone inoltre la sua visione unitaria della mafia e i collegamenti della criminalità organizzata con la politica sottolineando che non esiste un vertice che dirige la mafia dal di fuori (il cosidetto "terzo livello”) in quanto il mafioso non riconosce su di sè l’autorità di nessuno. Il giornalista descrive i brevi momenti d’incontro con il giudice e ne ricorda soprattutto la stanchezza come uomo e come magistrato. (www.fondazionefalcone.ir)

L’intervista, tratta da "I Disarmati"(Luca Rossi, Mondadori) è della fine degli anni ottanta. E’ passato poco tempo dalla nomina di Meli a Consigliere Istruttore di Palermo (18 gennaio ottantotto) e dalla famosa denuncia di Borsellino sullo sfascio della lotta alla mafia a Palermo ("Lo Stato si è arreso, del pool sono rimaste solo macerie", intervista rilasciata a Lodato e Bolzoni il 19 luglio dello stesso anno).

“Formalmente, non esiste più un pool. Ci sono processi assegnati singolarmente e basta.“

Perché?
Falcone alza le sopracciglia.
“Perché c’è lui.”
Meli.

“D’altra parte, il riflusso era ampiamente previsto. Buscetta mi disse: prima cercheranno di distruggere me, poi lei. Ma non credo che ci sia chissà quale disegno: non credo alla dietrologia. Mi sembra più semplice: c’è una obiettiva difficoltà a comprendere il nuovo. Le mie dimissioni nascevano da questo: se fare quest’attività’ crea disturbo, tanti saluti. E quando si afferma che Borsellino dice sciocchezze, allora diventa anche un dovere morale. Quello che abbiamo fatto assieme non era niente di nuovo: era esattamente ciò che fecero altri in tema di terrorismo. Solo che qui c’era l’immobile clima siciliano. Non è vero che noi abbiamo fatto la differenza: è che nel paese dei ciechi, beati i monocoli. Ed io non sono stato costretto a rientrare nei ranghi, perché non ne ero mai uscito: questa è la realtà. Quando tutto viene sbriciolato e Borsellino viene linciato, mi sono limitato a dire: fare il magistrato non è una investitura divina, ne’ un fatto personale. Se si creano le condizioni per lavorare, se le Istituzioni garantiscono, vado avanti; se no, via.”

“Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare al lotta antimafia. In questo, condivido una critica dei conservatori: l’antimafia è stata più parlata che agita. Per me invece meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un’epopea, non siamo superuomini: e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva, ma più in generale. Questi personaggi, prima si lamentano perché non ho fatto carriera; poi, se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non ti impegni, hai il tempo per criticare: guarda che cazzate fa quello, guarda quello che è passato al PCI, e via dicendo. Basta, questo non è serio. Lo so di essere estremamente impopolare, ma la verità è questa. Sono convinto che ci sia bisogno di una versione più duttile: non è tutto in bianco e nero.
Quando si cominciò a lavorare sui Salvo, Rocco Chinnici voleva bruciare le tappe, e alla fine dei conti io risultavo quello che non voleva mai arrestare, quello che diceva: stiamo attenti, andiamoci adagio, vediamo la rete delle connessioni. Bruciare le tappe, a volte ti fa andare indietro. Io esorto tutti alla prudenza, non si possono affrontare questi problemi se non vi è una società che lo vuole. Ma tutto questo non viene compreso, e purtroppo avviene il contrario: si azzerano i tentativi di andare avanti. Del resto, è già un enorme risultato essere ancora qui, anche se nel contingente non lo si nota. Si è gridato allo scandalo per le assoluzioni del maxi-ter, trascurando i sei ergastoli confermati. Bene. Andate a prendere le sentenze degli anni Settanta, e poi mi dite. Questi erano i padroni di Palermo, e godevano di una sostanziale impunità; si è creata un’inversione di tendenza. E nessuno ci ha potuto accusare di leggerezza, nessuno ha detto: aria fritta, panna montata. Al massimo, si è invocato un certo garantismo. Questi sono risultati. Non si potrà tornare indietro. L’importante è creare una struttura in cui nessuno potrà accusare altri di essere un centro di potere.”

“Un altissimo magistrato, parlando di me, disse a Chinnici: riempilo di processetti, così non rompe. Il discorso del centro di potere è sbagliato nell’impostazione: qualsiasi processo mi si dia, anche uno solo, mi consente di arrivare dovunque. E non perché io sia particolarmente bravo, ma perché le indagini sono così complicate che hai necessariamente bisogno del quadro generale. Io sono arrivato al maxi-processo con l’omicidio di Alfio Ferlito. Faceva parte di un gruppo della mafia catanese in opposizione a Nitto Santapaola, venne ucciso nel giugno ‘82 a Palermo: era la prova evidente che c’erano rapporti tra la mafia catanese e quella palermitana. Ma per inquadrare un omicidio devi inquadrare i collegamenti, e allora diventano importanti le conoscenze. Prima cosa, la zona dell’omicidio: Partanna. Mettiamo sotto controllo i telefoni dei personaggi locali, in particolare Riccobono. Cominciano ad emergere i collegamenti: con Gaspare Mutolo, Domenico Condorelli, Domenico Russo. E soprattutto, viene fuori un traffico di stupefacenti di dimensioni straordinarie, che fa capo alla Thailandia, a Koh Bah Kin. Cominciano ad essere arrestati i corrieri, e uno di loro, Francesco Gasparini, arrestato in Francia, collabora: ci parla dei canali della droga a Palermo. Contemporaneamente, facciamo indagini sul kalashnikov che ha ucciso Ferlito, e che allora era un’arma nuovissima: lo compariamo con altri episodi, l’omicidio di Inzerillo, di Bontade, la presunta rapina alla gioielleria Contino, il tentato omicidio di Contorno, l’omicidio Dalla Chiesa. Dalle perizie emerge che in tutti questi episodi è stato usato lo stesso kalashnikov, e per Ferlito e Dalla Chiesa se ne è aggiunto un secondo. A questo punto è chiaro che tutti i fatti vanno esaminati congiuntamente, sono legati l’uno all’altro, ed è chiaro anche come si crea il processo monstre: ma è l’unica maniera, altrimenti non cavi un ragno dal buco. E’ il fenomeno che è mostruoso e che comporta questi risultati: non sono io l’accentratore. Non l’ho inventata io la mafia. Certo, se vogliamo dire che l’informazione è potere, va bene, il risultato è un centro di potere. Ma chiunque abbia un lavoro specializzato e lo sappia fare bene è un centro di potere. Il bravo chirurgo è un centro di potere, chi spegne i pozzi di petrolio è un centro di potere: più è sofisticato il bagaglio culturale, più diventi centro di potere. La garanzia, per me, è sempre stata il rispetto della Legge: al maxi, non una eccezione di nullità processuale è stata accolta in primo grado. Questa è la garanzia. Ma quale potere? Mi hanno offerto su un piatto d’argento un posto al CSM, e l’ho rifiutato. Questo è il centro di potere?”

Perché lo fa?
Sorride.
“Lasci stare.”

No, davvero, Perché?
Guarda i monitor. C’è l’immagine in bianco e nero del corridoio oltre la porta blindata. Si vede l’angolo di un tavolo, un uomo seduto. L’immagine trema leggermente.Dice: “Non mi piace parlarne.”

Perché?
“Perché, nella migliore delle ipotesi, faccio la figura del retorico coglione. E allora, sono cose mie. Le tengo per me.”

E lei cos’è?
Luccica.
“No“ dice. “Niente giustiziere, niente missionario. E neanche mi sono mai posto il problema del potere. Anzi. Il potere è una gran rottura di scatole.“

Lei ha potere?
“Si, come influenza. Il potere di chi è ritenuto esperto in determinati problemi. Il potere di chi non ha potere.”
Abbassa il tono.
“Vede” dice. “Si rischia sempre di essere retorici.”

Cerchi di non esserlo.
Allarga una mano, la piega in basso; guarda la scrivania. Dice: “Sono i valori della vita. Si vede che i miei non coincidono con quelli della generalità.”

Generalità.

Vale a dire?
“Chiunque è in grado di esprimere qualcosa, deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire. Non si può chiedere Perché. Non si può chiedere ad un alpinista perché lo fa. Lo fa, e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali. Allora avrei risposto: quando si è ricchi.”
Fa una pausa breve.
“Invece, aveva ragione lui.”
“Ayala non ha torto. Sono stato tutt’altro che contento dell’uscita di Borsellino. Mi fanno ridere quando dicono che era una faccenda orchestrata tra me e lui. Anzi. Fu un problema.”

Perché?
Allarga gli occhi, prende un’espressione didattica, di ovvietà.
“Mi ha aumentato la conflittualità dell’ufficio.”
Conflittualità.
Apre la mano.
“Nel momento in cui sollevi un grande problema di sostanza e non curi la forma, ti fottono e nalla forma e nella sostanza. Borsellino, sotto il profilo umano, fece quanto di più generoso si poteva fare, e per questo ho sentito il dovere di stargli accanto. Ma dal punto di vista politico fu un grande errore. Solo la forza dei fatti ha impedito che lo schiacciassero. Nella grande amicizia, c’è una divergenza tra noi riguardo le tattiche. Il CSM non si è mai chiesto: i problemi sollevati da Borsellino ci sono o non ci sono. No. Hanno detto: non devi rivolgerti ai giornali. Attraverso la delegittimazione di Borsellino, volevano delegittimare anche me, trasformando il caso Borsellino-Meli in Meli-Falcone. Dire: ecco qua chi sono i paladini dell’antimafia. A quel punto Borsellino diventa marginale. E’ importante dire se Falcone ha sbagliato tutto, se se ne deve andare. Che è quello che, in teoria, il CSM avrebbe dovuto dire: in Sicilia va tutto bene, e tu Falcone te ne devi andare dalle palle. Per questo feci la lettera di dimissioni; solo esaltando ed elevando il livello dello scontro si poteva fare chiarezza, e questo si è rivelato fondamentale per non essere schiacciati. Altrimenti, saremmo stati costretti all’angolo. Sarebbe venuta fuori un’antimafia d’accatto, Borsellino dice le bugie; e allora no: prendetevela con me. Vi dirò di più: mi sono rotto, me ne voglio andare. L’unica divergenza con Borsellino era sulla tattica: non mi piace andare allo scontro se non sono preparato. Lo dico sempre: che tu abbia ragione non significa niente. Devi avere alcuni che te lo dicono, e che lo sostengono. Se ci scopriamo troppo spesso, ci bruciamo. E’ allucinante ma è così.
La mafia dura da decenni: un motivo ci deve essere. Non si può andare contro i missili con arco e frecce: in queste vicende certe intemperanze si pagano duramente. Con il terrorismo, con il consenso sociale totale, potevi permettertele: con la mafia non è così. Nella società c’è un consenso distorto. Altro che bubbone in un tessuto sociale sano. Il tessuto non è affatto sano. Noi estirperemo Michele Greco; poi arriverà il secondo, poi il terzo, poi il quarto. In un manoscritto sequestrato a Spatola c’è scritto: la mafia non esiste, si chiama omertà. La vera mafia è quella dei giudici, che usano la parola mafia contro i deboli. Questi concetti sono radicati nelle popolazioni del sud. Amicizia, onore: sono valori censurabili? No. E’ un errore considerare queste organizzazioni prive di ideologia. Se fosse così, basterebbero pochi drappelli di poliziotti. Come quando si parla di collaborazione dei pentiti. Ma veramente credete che Buscetta venga fuori come un coniglio dal cappello? Esce perché riconosce lo Stato. Vede che gli può servire. Strumentalizza lo Stato? E allora, una donna violentata che denuncia gli aggressori, cosa fa? Strumentalizza lo Stato? Buscetta ha ottenuto dalle gabbie lo stesso silenzio, lo stesso rispetto, di Michele Greco. Gli è stato riconosciuto che era la strada giusta. Quando Contorno dice a Greco signor Greco, gli fa un insulto gravissimo. Doveva dire “don”, “zu”, usare un termine di rispetto.
Se non si capisce tutto questo, come si può pensare di fare dei passi avanti? La mafia ha un’organizzazione ferrea: si deve basare su dei valori. Non sono i nostri, ma è miopia non vederli. Questo ci si ostina a non capire: sono uomini, non vermiciattoli. Li chiamiamo pecorai, ma sono il precipitato della saggezza siciliana: è gente che ti comanda con gli occhi. Una volta, un collega di Milano, chiese a Buscetta, durante un interrogatorio: ma mi spiega come fate voi mafiosi ad imporvi, a dialogare con tutti. Come con una bella donna, disse Buscetta: ti accorgi subito che ci sta. Prima devi capire questo, poi risolvi i problemi. Io sono tutt’altro che un missionario, ma questa è la realtà. La mafia è il segno di un’identità: per la Sicilia, per la nostra storia. Tutto sommato, il meno peggio che le poteva capitare. Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo, e poi il totale disinteresse dello Stato; immaginiamoci se non ci fosse stata quest’identità. La forte identità di un popolo può produrre questo frutto malato, perché diventa distorsione di valori: in questo senso, non è il tessuto canceroso sul tessuto sano, ma una malattia complessiva. L’amicizia e la famiglia, se diventano vincoli di clan, si trasformano radicalmente, diventano malattia. Ieri sera, un amico mi diceva: qui non si domanda perché una persona fa una determinata cosa, ma: cosa vuole. Il senso della collettività non esiste, c’è solo un sistema complesso ed intrecciato di interessi privati. Del resto, che cos’è la mafiosità se non pretendere come privilegio ciò che ti spetta come diritto?”

“L’organizzazione mafiosa in sé è un’altra cosa, e non tollera rapporti di subalternità a niente. Sopra Michele Greco non c’è nessuno. Quando si dice il terzo livello generalmente si equivoca una frase detta da me: ma intendevo tutt’altra cosa. Avevo distinto i reati mafiosi in tre categorie: al primo livello, i reati d’ordinaria amministrazione, come l’estorsioni ed il contrabbando; al secondo, reati che servono ad assicurare la funzionalità interna dell’organizzazione, come l’omicidio di chi sgarra; al terzo, quelli che assicurano la sopravvivenza dell’organizzazione nel suo complesso, gli omicidi eccellenti. Invece, ci si è riferiti ad un fantomatico terzo livello, intendendo una specie di vertice politico-finanziario della mafia. Non nego che ci siano rapporti con la politica, e possano esistere trame trasversali, ma pretendere che ci sia una sorta di strategia occulta, con un vertice che dirige la mafia dal di fuori, è sbagliato. Il mafioso non si sottopone a nessuno. Quando a Calderone offrono l’iscrizione alla P2, lui si pone il problema: come faccio a giurare fedeltà a due cose diverse. E rifiuta, perché per lui l’unico giuramento che conta è quello alla mafia.
Un uomo politico può essere affiliato a Cosa Nostra, ma solo se ha le qualità dell’uomo d’onore: altrimenti, non conta nulla. Quindi, il problema non è: ma come fa una banda di pecorai a dirigere un impero di miliardi; il problema è che la banda usa e strumentalizza tutti. Chiama tizio e gli dice: fai fruttare i nostri trenta miliardi. E’ una realtà semplice, ed il collegamento che determina fra criminalità organizzata e criminalità dei colletti bianchi è esplosivo: ma è una cosa diversa dal terzo livello. Non essere a contatto con la realtà porta a cantonate pazzesche. Quando si parla di mafia, si tende ad oscillare fra due poli: o la si sminuisce, negandone l’unitarietà, o la si descrive come un’organizzazione onnipotente, che comanda ogni cosa. In entrambi i casi, si impedisce una strategia seria.

“Credo che le cose si facciano con i granelli di sabbia. Mi rifiuto di credere che Cassarà non sia servito a niente. Se i risultati li vogliamo tutti e subito, forse; ma non è così. Viene sempre il momento in cui devi pagare: più la cosa è importante, più il prezzo è elevato. Io lo sto pagando. Quando si dice che il pool non è mai esistito, si dice una cosa vera e falsa. Supposto che io sia Maradona, senza la squadra non ce la avrei mai fatta. Ma allora, se concorro per uno squallido posto di procuratore, si dice che faccio la prima donna. Se dico che me ne voglio andare, allora non ho il senso delle Istituzioni. Se rimango a lavorare con il pool, faccio un centro di potere. Cosa devo fare? Qualsiasi cosa faccio viene immediatamente enfatizzata. Se partecipo ad una riunione con Orlando, divento collaterale ad Orlando, se mi invitano ad un convegno del PCI, apriti cielo. Ritengo di fare un lavoro utile ed arriva qualcuno e dice che non lo devo fare. Allora, cambio. Allora no, ti dicono di rimanere. Dico che voglio fare il calzolaio, e mi dicono di fare cappelli. Va bene, dico, faccio cappelli: allora non ho il senso delle Istituzioni. Ricevo i giornalisti in un momento delicato delle indagini, sorrido; bene, Falcone sorride ironicamente, vuol dire che è in contrasto con Di Pisa.
Mi stanno bene le critiche se mi inducono a pensare: ma questa è solo volontà di bloccare. Tutta la vicenda con Meli è un segno di questo, ed è la dimostrazione più chiara, emblematica, della scollatura tra magistratura e società. Era una vicenda personale e sono intervenuti fattori di opportunità politica, di utilizzo di ambienti esterni, che hanno trovato utile sfruttare la questione personale. Faccio un esempio. Magistratura democratica, che ha tre consiglieri al CSM e quindi è minoranza, ha sempre sostenuto la necessità di criteri rigidi, privilegiando l’anzianità, per limitare lo strapotere delle correnti e l’uso spregiudicato delle clientele. Quindi, quando si è posta la questione Meli-Falcone, ha votato Meli. Si è radicalizzato al massimo: da una parte la professionalità’, dall’altra l’anzianità senza demerito. Si è sfruttata la caratterialità di Meli, ben chiuso nel suo particulare, e il sentimento becero dell’amicizia, pensando: Falcone, scornato per lesa maestà, abbandonerà tutto. In Commissione antimafia Meli mi ha rivolto accuse da manicomio a proposito dei Costanzo di Catania, e il CSM ha detto subito: bene, trasferiamoli tutti e due, così si scannano tra loro e tutto si blocca. Il tentativo era di ridurre tutto ad uno scontro personale, misero. Oppure, come la nomina per l’Alto Commissario. Oltre a Sica, i candidati erano Parisi e Falcone. Me lo dissero amici, Ministri, le fonti più diverse: ma non quelle ufficiali. Non venni informato di essere candidato. Ma si è mai sentito un candidato a cui nessuno dice nulla? Il giorno dopo la nomina di Sica, Gava dice: eh, non si poteva nominare Falcone, sarebbe stato andare contro al CSM. E poi, guarda un po’, con Sica si sceglie Riggio, e allora scopri che Riggio è il primo dei non eletti nelle liste del PSI, stesso sponsor di Sica. E’ chiaro che, in un ottica che non mi scandalizza, si è temuto che io fossi espressione del PCI, e che se si fosse proseguito su questa strada ne sarebbero venute grane al Governo.
Tutto questo ha un grado di corporativismo allucinante, di ignoranza totale della realtà, che porta ad una concezione del magistrato assurda, per il duemila. c’è il rispetto formale di una legge che andava bene per il sistema pluriclasse, in cui la classe al potere, liberale, poteva applicarla, perché le era funzionale. Subito dopo l’unita’ d’Italia, la legge era l’espressione di un lucido disegno, ed il magistrato era espressione di quegli interessi. Oggi è espressione di tensioni diverse,e deve soggiacere ad una serie di compromessi. Ci troviamo con una Magistratura che ha abolito il sistema gerarchico piramidale, ed è stata una nobilissima battaglia, ma l’ha sostituito con il nulla. Adesso abbiamo una Magistratura avvitata su se stessa, un’associazione di mutuo soccorso che è potere, non servizio. E allora, dite quel che volete della Cassazione, di Carnevale, ma non è questo il problema. Dopo Carnevale, ne verrà un altro. Nel momento in cui la Legge è mediazione tra gruppi differenti, esplode il problema, ed il Magistrato è costretto a scegliere: il vecchio è decrepito, ma il nuovo stenta. E allora ecco, basta che crei la situazione e non ci si muove più. Nel mio caso, basta contrappormi un magistrato più anziano; basta che a livello politico venga agitato lo spauracchio comunista. Basta affermare che io sono uno sceriffo, che mi metto il codice sotto i piedi. Non importa che tutto questo non sia affatto vero: il risultato è stato raggiunto ugualmente. I giudici hanno più paura di questo che della mafia. Il CSM può farti un provvedimento disciplinare, può trasferirti; la mafia ammazza solo quelli come me. In quest’ ottica si fomentano le risse, ci si impallina. Il metodo non è diverso da quello mafioso: fomentare le separazioni, operare sempre nell’ombra, non uscire mai con posizioni nette. In questo senso, io sono un corpo estraneo, in un ambiente che mi respinge: non me ne fotte niente, ne’ della mafia ne’ del CSM. Tutti devono sapere che non si possono fidare di me: nessuno mi può dare etichette. Ma beati i paesi che non hanno bisogno di eroi. Voglio dire: dove le strutture non hanno bisogno di corpi estranei. Se si fa un paragone tra l’Fbi e la nostra Polizia, tra una struttura media molto forte ed una che esalta solo le grandi individualità, mi dite quale serve di più?”

Chi ha ucciso il pool? La volontà politica o le inerzie della casta?
“Tutti e due. Le minori responsabilità le ha il potere politico.”