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1993 10 21 * La Repubblica * E’in Svizzera il tesoro di Calvi * Daniele Mastrogiacomo

ROMA - Il tesoro è lì, nascosto nel cuore di Ginevra. Seimila miliardi di lire che nessuno reclama ancora. Dopo 13 anni, il giudice Mario Almerighi ha individuato il forziere che potrebbe aprire un nuovo spiraglio sui misteri che avvolgono la morte di Roberto Calvi. Quei soldi, legati a cinque diverse istituzioni, portano dritti al presidente del vecchio Banco Ambrosiano e agli ultimi, tragici giorni che scandirono la sua esistenza. Il bottino sarebbe depositato in una cassetta di sicurezza della Banque de Paris et des Pays bas la cui sede si trova in place de Holland 2. La ricerca è stata affannosa e la caccia non è conclusa: adesso si tratta di vedere se quel forziere potrà mai essere aperto. Di chi sono quei miliardi? E perché sono legati al “banchiere di Dio”? C’è un supertestimone che lo sa. E’lui il custode del tesoro, l’uomo al quale cinque misteriosi personaggi hanno delegato il delicato compito di investirli. Si chiama Alberto Jaimes Berti, 55 anni, avvocato, costruttore, finanziere venezuelano, da molto tempo uomo di fiducia dei traffici economici-finanziari della Chiesa di Caracas. I magistrati romani lo hanno rintracciato a Londra alcune settimane fa. E lui si è presentato spontaneamente in Italia per raccontare una storia che potrebbe far riscrivere la fine di Calvi. Pur ritenuto attendibile, Berti, dopo le prime ammissioni ha cominciato a fare marcia indietro e il suo racconto, da chiaro e lineare, si è riempito di zone d’ombra. Ombre che i magistrati considerano delle vere e proprie reticenze. Il sospetto è che menta o ometta di dire per paura e per coprire chi si nasconde dietro l’investimento del secolo. Così, da supertestimone, il finanziere venezuelano si è trovato nel ruolo di imputato. Arrestato, poi messo agli arresti domiciliari, quindi, proprio ieri, nuovamente spedito a Regina Coeli per pericolo di fuga e inquinamento delle prove. Il finanziere venezuelano, all’inizio, sarebbe stato molto vago sia sul luogo dove è custodito il tesoro, sia sulle cinque istituzioni che nel 1980 gli avevano affidato l’operazione d’investimento. I magistrati hanno insistito. Per undici ore. E poi per altre nove. Lui ha negato, poi ammesso e ancora negato. Alla fine ha ricominciato a precisare alcune circostanze. Ha indicato il luogo dove era nascosto il tesoro, ma ha chiesto in cambio delle precise garanzie. Con la mediazione del suo avvocato, Ferdinando Catanzaro, ha chiesto di essere lasciato libero per poter andare direttamente lui nella banca. Alla presenza di un notaio avrebbe aperto la cassetta di sicurezza, fotocopiato il particolare mezzo titolo conservato come ricevuta dei soldi versati dai legittimi proprietari, lo avrebbe autenticato e quindi consegnato ai giudici come prova della sua attendibilità. Ma i magistrati avrebbero rifiutato la proposta, suggerendo invece che fosse sua moglie ad andare in Svizzera. Chiavi in mano avrebbe aperto il forziere e consegnato il tutto ai funzionari della Dia che la avrebbero accompagnata. Niente da fare. Berti non ha accettato la controproposta, facendo capire che quelle marche sono la sua assicurazione sulla vita. Ha aggiunto che il suo ruolo è quello di custode e che è costretto a mantenere un impegno delicato e appunto vitale. Sul resto ha fornito delle indicazioni sempre per deduzione. Chi si era presentato, a nome dei cinque misteriosi personaggi, era José Maria Riuz-Mateos, anche lui finanziere, protagonista di un clamoroso scandalo finanziario in Spagna che lo aveva visto alleato e poi avversario dell’Opus Dei. Riuz-Mateos non ha detto per conto di chi operava. Gli avrebbe precisato che era un’operazione che stava a cuore al Vaticano. Ma visto che Ruiz era legato agli ambienti ecclesiastici, secondo Berti, era plausibile che i cinque, le cinque entità, provenissero dagli stessi ambienti. Il giudice Almerighi gli avrebbe chiesto di essere più preciso e lui avrebbe cominciato a fare l’elenco dei probabili investitori: “Uno potrebbe essere lo Ior, l’altro il Banco Ambrosiano, il terzo lo stesso Ruiz-Mateos e quindi l’Opus Dei, il quarto l’Inneclesia, un istituto che gestisce i beni di capitale della Chiesa venezuelana. Il quinto, forse Roberto Calvi”. Berti, che ufficialmente è presidente della Inneclesia, avrebbe anche spiegato il complicato meccanismo dell’investimento, di cui lui era un vero maestro. E avrebbe indicato anche lo scopo. Ai giudici che registravano fedelmente le sue dichiarazioni, ha detto: “Quei soldi li ho lavati e benedetti”. Come dire: riciclati. La prova che una delle cinque entità fosse Roberto Calvi la fornisce lo stesso Berti. Due giorni prima di essere trovato sotto il ponte dei Frati neri, il presidente del vecchio Banco Ambrosiano chiamò il finanziere di Caracas. Gli lasciò un messaggio al suo studio di Londra, pregando di raggiungerlo al Chelsea Cloisters, il residence dove il banchiere italiano aveva deciso di nascondersi. Scopo di quel colloquio - ha raccontato Berti ai giudici - era la possibile utilizzazione di un fondo di due miliardi e 200 milioni di dollari, a cui Calvi pensava di poter attingere. Si trattava proprio del tesoro che nel giro di 13 anni, grazie a generosi interessi, era cresciuto fino a 6000 miliardi di lire. Perché Calvi chiedeva di riscattare una parte di quel tesoro? Berti lo ha spiegato ai magistrati. E ha raccontato i retroscena di un accordo valido ancora oggi. Nei primi mesi del 1980, preceduto da molte e insolite lettere di presentazione, si affaccia nel suo studio londinese Juan Antonio Mora-Figueroa, un parente di Riuz-Mateos. Ha l’incarico di investire 2 miliardi e 200 milioni di dollari. Berti accetta e gli spiega come si sarebbe svolta la complessa operazione. Figueroa ascolta e poi pone delle condizioni. I soldi appartenevano a sei (ma uno era svincolato) entità che dovevano rimanere segrete. Le quote dovevano essere rigidamente ripartite e separate. Ma il fondo avrebbe dovuto essere gestito all’unanimità. Berti, in cambio, avrebbe consegnato una speciale contromarca in filigrana, tagliata a zig zag, ad ognuno dei proprietari. Solo chi avesse presentato l’altra contromarca era dunque il reale proprietario di una parte dei fondi versati. L’accordo viene raggiunto, l’ingente somma consegnata e l’operazione avviata. Ma di quelle cinque contromarche da allora non c’è traccia. Nessuno, mai, si è presentato all’incasso. Solo Calvi, due giorni prima di morire, proprio nell’atrio del Chelsea Cloisters gli avrebbe chiesto se era possibile attingere ai fondi. Berti gli disse che ogni svincolo era legato ad una condizione precisa: tutti e cinque i proprietari dovevano essere d’accordo. Gli aggiunse che comunque, forse, si poteva fare qualcosa e questo tranquillizzò molto il banchiere italiano. Poi, due giorni dopo, il corpo di Calvi venne trovato sotto un ponte del Tamigi. “In quel momento”, ha detto Berti ai giudici, “ho pensato che forse non si erano messi d’accordo”.