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1997 04 10 * La Repubblica * I due banchieri e l’oro dei boss * Giuseppe D’Avanzo

Si può raccontare di Roberto Calvi senza ricordare Michele Sindona? Come Michele Sindona, Roberto Calvi venne su dal nulla come un fungo.
Come Sindona, la sua morte è stata archiviata per lungo tempo con un fascicolo di morte con su stampigliato in nero “suicidio”. Senza Sindona, Calvi non sarebbe diventato quel che diventò, non avrebbe avuto le protezioni e i legami che ebbe, gli amici che lo depredarono, i nemici che lo uccisero. Forse, senza Michele Sindona, quella mattina del 18 giugno 1982 il corpo di Roberto Calvi non avrebbe dondolato sotto il Blackfriars Bridge con 11 libbre e sei once di mattoni nelle tasche della giacca. Il valtellinese Roberto Calvi piaceva al siciliano Michele Sindona. Piaceva al siciliano la sua disciplina un po’ ottusa, l’efficienza lombarda, l’ambizione di far carriera, il desiderio di imparare. Roberto Calvi era un piccolo borghese impacciato senza uso di mondo, non sufficientemente spavaldo per giocare allo scoperto la sua partita. A Sindona piaceva così.
Anzi, doveva essere così perche un gregario deve stare “al suo posto”, deve essere obbediente e devoto. Da Sindona, il piccolo borghese della Valtellina imparò tutto. O quasi tutto. Ne conobbe il metodo di avventuriero brillante e cinico. Ne scrutò le scorribande in Borsa. Ne valutò le protezioni. Osservando il lavoro del finanziere di Patti, comprese i punti deboli del sistema finanziario italiano che - allora - imbrigliava severamente l’attività delle banche pubbliche e concedeva soltanto a Mediobanca la possibilità di raccogliere denaro a medio termine per poi distribuirlo alle imprese in via di espansione e a poche finanziarie private, autorizzate dalla Banca d’Italia, di investire in attività produttive rastrellando capitali sul mercato azionario. Nel solco tracciato da Sindona, che era stato il primo a capire i punti deboli di questo sistema, il timido, introverso, tenacissimo Roberto Calvi diventò direttore generale del Banco Ambrosiano nel 1971, vicepresidente nel 1974, presidente dal novembre del 1975. Con Sindona (come hanno scritto Sandra Bonsanti e Gianfranco Piazzesi nel loro ‘La storia di Roberto Calvi’ , Longanesi), il piccolo borghese impacciato “fu perfetto fino al 1972, accettabile negli anni successivi, dal 1974 insopportabile”.
Non solo aveva fatto troppa carriera, ma Roberto Calvi lentamente, mossa dopo mossa, si era sostituito a colui che gli aveva insegnato a muoversi nella giungla degli affari. Sindona aveva lottato per diventare il grande banchiere privato, il rivale di Enrico Cuccia, che a Mediobanca ricopriva lo stesso ruolo per conto dello Stato.
Aveva perso la sua battaglia e aveva dovuto anche buttar giù che il “fido” Calvi, senza clamore, s’era preso per se l’Ambrosiano, la Centrale, aveva stretto i rapporti con il Vaticano di fatto diventando il suo successore e senza che Cuccia o i santoni della “finanza laica” alzassero un dito. E, quel che contava di più per ‘don Michele’ , s’era messo a trafficare anche con gli uomini d’onore di Cosa Nostra. Non erano ‘coppole storte’ senza peso, gli interlocutori di Calvi. Erano i ‘viddani’ di Corleone, i Liggio, i Riina, i Provenzano, i loro alleati della Sicilia profonda. A loro modo e nel loro mondo, erano gli “emergenti”, i parvenu di un potere mafioso che aveva riconosciuto lo scettro del comando sempre e soltanto ai “palermitani” e che ora doveva fare i conti con gente che “in città ci veniva una volta all’anno, con il vestito della festa”.
Ha spiegato ai magistrati Francesco Marino Mannoia, un uomo d’onore di Santa Maria del Gesù che “si arrese” a Giovanni Falcone: “Avevo sentito dire da Stefano Bontate e da altri uomini d’onore della mia famiglia che Pippo Calò, Salvatore Riina, Francesco Madonia e altri dello stesso gruppo corleonese avevano investito somme di denaro a Roma attraverso Licio Gelli che ne curava gli investimenti e che parte del denaro veniva investito nella ‘banca del Vaticano’ . Di queste cose parlavo con Stefano Bontate e Salvatore Federico che erano i ‘manager’ della nostra famiglia. In sostanza, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo avevano Sindona, gli altri avevano Gelli...
anche Carboni era un canale dell’attività finanziaria di Pippo Calò”. Erano anni d’oro per Cosa Nostra. Secondo una stima elaborata da Pino Arlacchi, i laboratori siciliani in quel periodo - dal 1975-76 al 1980 - erano in grado di produrre, quattro o cinque tonnellate di eroina pura l’anno. La distribuzione di questa nuvola bianca, sufficiente a soddisfare il trenta per cento del fabbisogno americano del tempo, produceva un utile di settecento-ottocento miliardi di lire l’anno. Questa imponente liquidità aveva bisogno di allontanarsi rapidamente e con sicurezza dalla sua origine illecita.
La selva delle holding finanziarie e anstalt di Roberto Calvi faceva al caso giusto. Avevano nomi importanti e fantasiosi (Centrale, Bastogi, Pacchetti, Pantanella), vagamente astratti (Cisalpine, Setomor, Zitropo), banalmente allusivi (Ultrafin, Suprafin, Compedium), avevano nomi di piante esotiche (Lantana, Marbella, Cascadilla). Roberto Calvi pensava che quei capitali avrebbero reso il suo impero finanziario più forte e inattaccabile e protetto.
Sottovalutò che quei tre, quattromila miliardi a disposizione delle famiglie mafiose siciliane stavano trasformando il consolidato equilibrio tra potere legale e poteri criminali. Cosa Nostra, gonfia di danaro, non aveva più voglia, infatti, di essere suddita e subalterna alle lobby più spregiudicate del mondo politico e finanziario italiano. Alla fine degli anni Settanta, agli inizi degli Anni Ottanta - mentre a mano armata i Corleonesi liquidavano l’aristocrazia mafiosa di Palermo - l’economia del crimine chiedeva un posto in prima fila, l’integrazione con l’economia della corruzione delle istituzioni poste a guardia delle legalità, magistratura, guardia di finanza, ministeri economici. Calvi sottovalutò, non capì i “nuovi clienti” del suo sistema. Quando cadde schiacciato dalle stesse piramidi di carta che aveva costruito (il Banco Ambrosiano, al tracollo, aveva un’esposizione diretta o indiretta di 1287 milioni di dollari), non comprese che il suo destino era segnato. I Corleonesi gli avevano affidato i loro ‘piccioli’ e lui li aveva fatti diventare fumo. “Calvi - ha spiegato Tommaso Buscetta - venne ucciso per vendetta. Aveva avuto in gestione soldi mafiosi per il riciclaggio e ne aveva fatto un cattivo uso”. E’ ancora Mannoia a spiegare che “Roberto Calvi si era impadronito di una grossa somma di denaro che apparteneva a Licio Gelli e Pippo Calò. Si trattava di somme ingenti per decine di miliardi. Quel Calvi era ormai inaffidabile. Gelli e Calò avevano recuperato - non seppi se in tutto o in parte - i soldi prima della morte di Calvi”. Calvi non capì. Non aveva mai capito. Parlava sempre della Mafia con ammirazione e diceva che ‘Il Padrino’ era un libro “meraviglioso”.
Gli piaceva tanto. Ma non ci aveva capito gran che, ammetteva. Non capì nulla neanche quella notte quando un camorrista ingaggiato da Pippo Calò, Vincenzo Casillo, lo convinse a salire nella barca sul Tamigi. Gli disse di sedersi in fondo alla barca. Gli scivolò alle spalle e lo strangolò con una corda color arancione.