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1997 10 09 * Il Foglio *

COSÌ UNDICI ANNI FA IL FOGLIO SCRIVEVA DI EMANUELA ORLANDI E DI UN MISTER X CHE "PORTA LA TONACA"

Sul giallo della scomparsa di Emanuela Orlandi, la giovane figlia di un messo pontificio svanita nel nulla la sera del 22 giugno 1983 nel centro di Roma, il Vaticano non ha offerto tutta la collaborazione necessaria alle indagini. Ne sono convinti i magistrati che da quattordici anni cercano di far luce su un mistero complesso fatto di messaggi trasversali, depistaggi e inutili tentativi di mediazione.

Mentre la prima inchiesta si avvia verso l’archiviazione e una seconda, forse più scottante, sta per essere avviata, dalle carte dei giudici emergono particolari inquietanti. Uscita dalla scuola di musica in un caldo pomeriggio di giugno e scomparsa nel centralissimo corso Rinascimento, praticamente davanti al Senato, la figlia quindicenne del dipendente vaticano non ha mai fatto ritorno a casa.

La segreteria di Stato della Santa Sede aveva messo a disposizione una linea telefonica riservata grazie alla quale i rapitori potevano contattare direttamente il cardinale Agostino Casaroli. Lo stesso Giovanni Paolo II chiese per otto volte pubblicamente il rilascio di Emanuela. I messaggi e le telefonate si erano susseguiti: alcuni misteriosi interlocutori avevano chiesto la liberazione di Ali Agca in cambio della vita della giovane e avevano collegato la scomparsa di Emanuela con quella di un’altra ragazza romana, Mirella Gregori, svanita nel nulla il 7 maggio dell’83.

Sono gli anni dell’attentato al Papa, della nascita di Solidarnosc in Polonia, del crack del Banco Ambrosiano, della vicenda di monsignor Paul Marcinkus al vertice dello Ior, della guerra delle Falkland. Per gli inquirenti l’ipotesi più accreditata è che dietro le quinte vi sia stato qualcuno di molto potente, in grado di mandare precisi segnali oltretevere per cercare di condizionare in qualche modo la politica della Santa Sede: “Da parte degli interlocutori”, ha affermato in un’intervista il giudice istruttore Adele Rando, “l’importante era far arrivare dei segnali, facendo capire che essi erano a conoscenza di certi particolari sulla vita privata delle due ragazze”. Il padre di Emanuela, Ercole Orlandi, nel maggio 1992 si era detto addirittura convinto dell’esistenza di un basista in Vaticano.

Le perplessità del prefetto Parisi. “L’intera vicenda Orlandi fu caratterizzata da una costante riservatezza da parte della Santa Sede che, pur disponendo di contatti telefonici, e probabilmente diversi, non rese partecipi dei contenuti dei suoi rapporti la magistratura e le autorità di polizia”. Così si esprimeva il 9 febbraio 1994 il prefetto Vincenzo Parisi (l’ex capo della polizia deceduto tre anni fa) di fronte al giudice Rando.

La deposizione di Parisi, all’epoca della scomparsa di Emanuela vicedirettore del Sisde, è contenuta nella richiesta di proscioglimento, avanzata dal sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Roma, Giovanni Malerba, di alcuni esponenti dei “Lupi grigi” indiziati nel corso di questi anni di concorso in sequestro di persona. “Ritengo che le ricerche conoscitive sulla vicenda”, disse ancora Parisi nel ’94, “siano state viziate proprio per il diaframma frapposto tra lo Stato italiano e la Santa Sede.

L’intero svolgimento del caso fu caratterizzafini di palese depistaggio, lasciando nel dubbio gli operatori. Intendo dire che non è ancora agevole stabilire se la scomparsa della ragazza e le vicende che ne sono seguite fossero collegate da un unico nesso, o se invece l’attività destabilizzante si fosse sovrapposta alla scomparsa della ragazza, avvenuta, eventualmente, in modo autonomo”.

Riportando ampi stralci della deposizione del prefetto, il pg Malerba sottolinea: “Le riferite valutazioni circa il riserbo che ha costantemente caratterizzato la condotta delle autorità vaticane, lungi dal costituire isolate e personali opinioni del teste (cioè di Parisi, ndr.), trovano concreto supporto negli atti della formale istruzione”. Al sostituto procuratore generale “non risulta agevole comprendere le ragioni” della condotta assunta dalla Santa Sede. E il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, due giorni fa ha affermato: “Il Vaticano non ha aiutato una sua cittadina”.

Tre rogatorie senza risposta. Il pg Malerba offre anche qualche esempio di questa scarsa collaborazione e descrive le tre rogatorie “richieste ed espletate presso la Santa Sede”, il 13 novembre 1986, il 2 marzo 1994 e, infine, il 7 marzo 1995. Nella prima il giudice istruttore chiedeva al Vaticano “la trasmissione di ogni utile notizia” e in particolare “se effettivamente siano pervenuti nello Stato della Città del Vaticano, o siano stati indirizzati alle autorità del medesimo, messaggi telefonici o scritti riferentisi alla scomparsa delle due giovani”.

La Santa Sede rispose per via epistolare precisando che tutte le notizie utili erano “state trasmesse a suo tempo al pm dottor Domenico Sica”. Malerba però osserva che “di tali notizie lo scrivente non rinviene traccia in atti”. Nella seconda rogatoria, il giudice istruttore Rando puntò molto in alto e chiese di poter ascoltare direttamente i cardinali Agostino Casaroli e Angelo Sodano (cioè l’ex segretario di Stato e l’attuale segretario di Stato), l’ex assessore alla segreteria di Stato e attuale sostituto Giovanni Battista Re, l’ex reggente e attuale prefetto della Casa pontificia Dino Monduzzi e infine l’ex sostituto (oggi cardinale) Eduardo Martinez Somalo, “che aveva seguito il tentativo di stabilire un contatto con i presunti rapitori della Orlandi”.

Il Vaticano, al contrario di quanto dice il portavoce del Papa Joaquin Navarro Valls, secondo il quale la Santa Sede ha sempre fornito sul caso il massimo della collaborazione possibile, non accolse la richiesta e, appellandosi a una “normativa interna” impedì che gli alti prelati parlassero con il giudice istruttore. Decisione formalmente ineccepibile, dato che la Città del Vaticano è uno Stato straniero, ma che ha suscitato qualche perplessità.

Per quanto riguarda i documenti, da oltretevere arrivarono soltanto carte che Malerba definisce prive di utilità. Anche alla terza e ultima rogatoria, quella del marzo ’95, la Santa Sede rispose negando la possibilità al giudice istruttore di ascoltare i testimoni. Perché questo muro di gomma? Perché questa scarsa collaborazione? E, soprattutto, perché il caso Orlandi, a distanza di quattordici anni, è ancora in grado di tenere sulle corde l’establishment vaticano? Il sostituto procuratore generale, prosciogliendo dalle accuse i Lupi grigi e Ali Agca, a proposito dell’atteggiamento tenuto dalle autorità della Santa Sede, osserva: “Se tale riserbo era doveroso nei confronti dei mass media, non altrettanto può apparire nei confronti degli inquirenti”.

Una pista che porta in Vaticano. “Ci sono elementi nell’istruttoria che fanno molto pensare… un solco misterioso che porta molto in alto… Una pista che passando attraverso le mura vaticane potrebbe condurre vicino alla soluzione del mistero”. Parola di Ilario Martella, il magistrato che ha condotto fino al 1990 le indagini sul caso Orlandi. Il caso Orlandi in questi anni è stato fatto riesplodere ciclicamente: se ne è parlato l’ultima volta diffusamente nel marzo 1995, quando sono finiti in prigione un sacerdote foggiano, don Tonino Intiso, e altri due loschi personaggi. Questi ultimi avevano chiesto, tramite l’ingenuo sacerdote, un riscatto miliardario in cambio di un contatto con i presunti rapitori di Emanuela, che sarebbe ancora viva. Tutto falso. Si è trattato soltanto di un tentativo di estorsione. Resta da spiegare perché, per circa un anno, alcune persone del Vaticano hanno tenuto in piedi una trattativa con i ricattatori senza avvertire la polizia italiana.

L’uomo che in questi tredici anni ha seguito passo dopo passo le indagini sul caso è Nicola Cavaliere, che all’epoca dei fatti lavorava alla squadra mobile di Roma. Il dirigente di polizia ha invitato a tener presente il contesto in cui il rapimento Orlandi è maturato, quello dei “primi anni Ottanta, un periodo in cui sono accaduti, o stavano per accadere, importanti avvenimenti sulla scena internazionale” e ha sempre smentito l’ipotesi che la scomparsa di Emanuela fosse dovuta a una fuga d’amore o a un allontanamento volontario da casa della ragazza.

“Non credo proprio che sia fuggita volontariamente”, ha detto, “e non esiste alcuna prova certa della sua esistenza in vita fin dal primo momento successivo alla scomparsa, così come, d’altra parte, non esiste alcuna prova certa della sua morte”. Cavaliere ritiene plausibile l’ipotesi del ricatto al Vaticano: “Se il caso si fosse risolto positivamente o tragicamente, saremmo arrivati comunque alla verità. Invece questa incertezza è stata voluta. Gli organizzatori hanno probabilmente ancora oggi interesse a tirare fuori la vicenda in determinati momenti per tenere sulle corde certi ambienti. Si vuole che qualcuno resti sempre allertato sul caso, nonostante sia passato così tanto tempo”.

Mister X porta la tonaca. Una traccia importante per comprendere il contesto in cui si è sviluppato il caso è rappresentata da un documento del Sisde, dal quale risulta che il personaggio che ha gestito il sequestro e ha inviato messaggi al Vaticano potrebbe essere un monsignore americano. Nel dossier, preparato da un’equipe di analisti che hanno avuto in mano gli originali delle lettere, vengono analizzati i messaggi che “furono indicati in un primo momento come redatti da un soggetto sgrammaticato e confuso. Al contrario essi appaiono a un attento esame non solo grammaticalmente corretti ma addirittura linguisticamente superiori alla norma.

Infatti sia gli assiomi desueti riportati, sia il particolare inizio di ogni frase - quasi sempre mister X esordisce con un verbo - sia il caratteristico uso del plurale appaiono come tendenza linguistica di non facile riscontro. Il tutto però ha una sua giustificazione: verosimilmente il soggetto in esame è un profondo conoscitore della lingua latina, anzi possiamo affermare che mister X conosceva meglio la lingua latina di quella italiana. E ciò è solamente possibile nel caso che il soggetto sia uno straniero che in un primo momento ha acquisito l’idioma latino e poi successivamente quello italiano.

Infatti un italiano con profonda conoscenza del latino manterrebbe inalterato il suo background stilistico e linguistico, che al limite ne sarebbe migliorato. Non si sognerebbe mai di utilizzare ‘translatare’ al posto di ‘trasferire’, ‘novello’ al posto di ‘nuovo’…”. Il dossier si conclude riassumendo le caratteristiche dell’uomo che ha gestito il caso Orlandi: “Un uomo straniero di età superiore ai 45/50 anni, di altissima cultura, abituato a convivere con le gerarchie ecclesiastiche, domiciliato a lungo a Roma, città che conosce bene”. L’identikit di un ecclesiastico.