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2002 08 15 * Liberazione * 41bis ma con garanzie * Giuseppe Di Lello

Lotta alla mafia nel rispetto di quanto è già stato sancito dalla Corte Costituzionale


Gli scioperi della fame, i pubblici proclami, le proteste dei mafiosi detenuti contro il rinnovo (e, forse, la stabilizzazione) del regime speciale previsto dall'articolo 41bis del Regolamento penitenziario alludono palesemente agli impegni politici non mantenuti da parte di chi, avendo vinto tutte le competizioni elettorali degli ultimi tre anni, era ed è in grado di onorare quel patto di mutua assistenza stipulato per tacito consenso e senza ridicoli contratti scritti.

Non sfugge a nessuno, per esempio, come nella partita del 13 maggio 2001, finita in Sicilia 61 a 0 per la Casa delle libertà, la squadra vincente sia fraudolentemente scesa in campo con qualche uomo in più ed è difficile credere che le lamentele di Leoluca Bagarella & Co. non si riferiscano alla mancata compartecipazione agli utili di questa vittoria "comune".

Può anche essere, però, che, ferma restando l'esistenza del patto, i mafiosi detenuti sbaglino nell'identificarsi tra i beneficiari dello stesso e che, nel loro caso, valga una sorta di 41bis politico che li esclude dai benefici della vittoria riservati ai soli mafiosi in libertà (appalti, affari, rientro anonimo dei capitali, rogatorie, legittimo sospetto e prescrizioni con le leggi Cirami e Pittelli, ecc.).

Trattandosi, infatti, di criminali detenuti, per una questione di pudore insuperabile, questa maggioranza quanto mai spudorata in altri campi, non se la sente di toccare un tabù della lotta alla mafia qual è il "carcere duro". Sta di fatto, però, che il 41bis è in cima ai pensieri dei mafiosi detenuti e che, e per chi abbia un minimo di frequentazione delle carceri per scopi istituzionali, il "tradimento" per la sua riconferma viene collegato, come già detto, al massiccio voto espresso e fatto esprimere per la Cdl nelle elezioni politiche del 2001 e reso ancor più determinante da una improvvida legge elettorale maggioritaria: da patto di mutua assistenza a patto leonino?


Cosa dice quell'articolo

Se questi fossero i termini del problema, trattandosi di una lite in famiglia altrui, come Rifondazione comunista potremmo anche lavarcene le mani e continuare a votare con tranquillità e coerenza per il rinnovo o la stabilizzazione dell'art. 41bis.

Dal canto mio, però, non mi sento né tranquillo, né ancor meno coerente sulla posizione oltranzista della sinistra in questo campo e ciò per una serie di (mie, ovviamente) ragioni sulle quali (o contro le quali) si dovrebbe pur spendere un qualche argomento sensato che non sia quello del fine che giustifica i mezzi.

In sintesi, l'art. 41bis del regolamento penitenziario, prevede che, in situazioni di emergenza o quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, il ministro della Giustizia ha la facoltà di sospendere, nei confronti dei detenuti per reati gravi (tra i quali l'associazione mafiosa) l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dal regolamento che possono porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.

In buona sostanza, i mafiosi e i criminali pericolosi sono esclusi da tutti i benefici quali l'assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, con tutta una serie di altre limitazioni per colloqui, ore d'aria, telefonate, così come sono ristretti in carceri speciali per facilitare l'applicazione del 41bis.

Tale esclusione dai benefici può essere evitata solo se il detenuto non ha più alcun collegamento con la criminalità organizzata o eversiva o se collabora con la giustizia: le due condizioni disgiunte sembrano essere alternative, ma in realtà è solo la seconda quella che conta perché è la sola che può provare la sussistenza della prima.

Va ricordato che quei benefici e regole di trattamento, raccordandosi con i divieti di violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizione di libertà e di pene che comprendano trattamenti contrari al senso di umanità, tendono alla rieducazione del condannato (articoli 13 e 27 Costituzione).

La Corte costituzionale del luglio 1993 ha statuito che la norma, per essere conforme ai precetti costituzionali, per essere applicata con alcuni limiti, precisando, tra l'altro, che i provvedimenti ministeriali di applicazione devono recare una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti, non possono disporre trattamenti contrari al senso di umanità e debbono dar conto dei motivi di una eventuale deroga del trattamento rispetto alle finalità rieducative della persona. E, ancora, tali provvedimenti sono impugnabili davanti al giudice ordinario che deve esercitare sugli stessi un controllo giurisdizionale.

Non voglio impelagarmi in una discussione circa la possibilità per un mafioso di "rieducarsi" o meno. Non c'è dubbio che di "rieducati" in giro, per quanto se ne capisca, non ce n'è nessuno, tanto meno tra i "collaboratori" che hanno sempre fatto una scelta utilitaristica, decidendo di pentirsi un attimo dopo la cattura e mai un attimo prima. Che siano stati e siano utilissimi alla lotta alla mafia è un fatto indiscutibile, come pure è indiscutibile che rimangono dei grandi criminali piegati dalle circostanze a far finta di essere diventati buoni.


L'onere del primo passo

Certo è che se si scarta l'ipotesi di una redenzione per i mafiosi al di fuori del pentimento e della collaborazione, la stessa nostra decennale battaglia per l'abolizione dell'ergastolo diventa debole e, alla fine, si dovrà accettare il compromesso di una normativa che mantenga la pena perpetua per determinati reati o, peggio ancora, per determinati "tipi di autore" ripescando dottrine giuridiche e prassi nazi-fasciste: varrebbe la pena fare tanto rumore per nulla?

Si obietta che il carcere duro imposto dal 41bis è indispensabile per la lotta alla mafia in quanto i mafiosi, seppur detenuti, riescono ad esercitare un potere di comando sull'esterno e in ciò si è confortati dall'esperienza che non sembra mostrare elementi che confutano l'assunto. Si tratterebbe di capire fino a qual punto il 41bis impedisca questi collegamenti con l'esterno, ma anche se fosse vero rimarrebbe da accertare, e questo è il problema, che i paletti posti dalla corte costituzionale siano rispettati e se sia rispettato quello che ritengo fondamentale: un trattamento che non sia contrario al senso di umanitario.

Dato per scontato che i mafiosi, ancorché irredimibili, sono essere umani, bisognerebbe mettersi d'accordo su cosa si intenda per "senso di umanità" e accertare se, nella sua applicazione pratica, questo benedetto 41bis lo rispetti.

Non si dica che, essendo stati spietati da liberi, il "senso di umanità" nei loro confronti dovrebbe essere inteso in maniera oltremodo restrittivo. Bobbio ce lo insegna a proposito della pena di morte, ma l'argomento è universale: è lo Stato, come portatore di una moralità superiore, che deve fare il primo passo, che deve rompere il circolo vizioso della violenza cui si risponde con altrettanta violenza, che alla disumanità deve rispondere con l'umanità del trattamento carcerario come, appunto, prescritto dalla Costituzione.

Ce lo insegnano, comunque, anche le tante battaglie che, a livello nazionale e internazionale, combattiamo per il rispetto dei diritti umani fondamentali e che valgono solo se non ammettono eccezioni.


Quel "senso di umanità"

Non mi piace visitare le carceri e, come parlamentare, sono stato una sola volta all'Ucciardone di Palermo. Nove detenuti comuni ammassati in una cella di pochi metri quadrati, con un "cesso" aperto alla vista di tutti e piazzato a fianco di un cucinino-lavatoio: sovraffollamento a causa di emergenza per ristrutturazione.

Chi gira per le carceri, però, riferisce di alcuni mafiosi (anche malati) con regime detentivo al limite della sepoltura da vivi: come Rifondazione, prima di schierarci acriticamente per il 41bis, vogliamo controllare, renderci conto delle specifiche realtà o vogliamo accedere ad una nozione del "senso di umanità" ristretta a vitto con una tomba come alloggio?

La Corte costituzionale ha detto ciò che doveva dire. Vogliamo, per lo meno, accertare se quei paletti sono rispettati, se i detenuti sono messi in grado di ricorrere nei termini contro i provvedimenti ministeriali e, sopratutto, se il trattamento reale corrisponde al comune "senso di umanità"?

Se proponessimo un'inchiesta (non ministeriale, ovviamente) sulle modalità di applicazione del 41bis, saremmo sicuramente additati come amici dei mafiosi: è, però, un rischio che dobbiamo correre se vogliamo essere credibili quando ci proponiamo di rafforzare l'argine contro l'onda che si sta abbattendo su tanti altri diritti, fondamentali, umani, sociali e sindacali.