Silone ha diretto l'Avvenire dei Lavoratori negli anni 40 del secolo scorso, cioè nel periodo più difficile per il movimento socialista italiano. I socialisti fuoriusciti, in esilio, in Francia soprattutto, non potevano contare sulla solidarietà e l'appoggio, politico, logistico e finanziario dell'URSS. La repressione fascista aveva colpito duramente il suo gruppo dirigente in Italia, ma anche i quadri intermedi dei suoi militanti. L'invasione della Francia delle truppe tedesche aveva dato il colpo di grazia al Centro Estero socialista, che aveva sede a Parigi. La Svizzera appariva l'unico luogo sicuro per ricostituire il Centro Estero e notamente a Zurigo, dove operava da decenni la Società Cooperativa, con il suo ristorante e dove si stampava l'Avvenire dei Lavoratori. Tuttavia le condizioni materiali non sarebbero state sufficienti se non si fosse potuto contare sulla capacità di lavoro e l'intelligenza politica di Ignazio Silone, oltre sulla sua professionalità organizzativa e cospirativa, appresa come funzionario dell'Internazionale Comunista. Grazie a Silone l'Avvenire dei Lavoratori è stato uno strumento di propaganda socialista in lingua italiana, ma di più un luogo di elaborazione politica, con intuizioni, che se fossero passate nella prassi politica del PSI del secondo dopoguerra, che ne avrebbero fatto un protagonista maggiore della vita politica italiana.
Nel destino del PSI ha negativamente pesato che due figure socialiste d'eccezione, come Eugenio Colorni e Bruno Buozzi, fossero eliminate alla vigilia della Liberazione, con le conseguenze cui accenneremo dopo. Il Centro Estero di Zurigo era stato sciolto il 16 aprile 1944 e Colorni fu arrestato poco più di un mese dopo, il 28 maggio di quel fatidico anno. L'assassinio di Colorni ebbe risonanza in Svizzera dove viveva un gruppo di federalisti della prima ora, come Guglielmo Usellini, un altro dei direttori dell'AdL, che commemorò Colorni sulla “Libera Stampa” di Lugano il 24 giugno del 1944[1].
Il circuito socialista federalista era molto stretto. Colorni è tra gli ispiratori e successivamente uno dei diffusori del Manifesto di Ventotene con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi[2].
Colorni fa rapporti sulla situazione italiana a Spinelli, Rossi e Ursula Hirschman, sua moglie, come lo sarà in seguito di Spinelli[3].
Eugenio Colorni scriveva su l'Avvenire dei Lavoratori del 1 febbraio del 1944: “Socialismo, umanismo, federalismo, unità europea sono le parole fondamentali del nostro programma politico.”
Vi era indubbiamente un clima politico culturale se l’idea di Unità Europea, legata sempre a programmi di riforma sociale, venivano da gruppi francesi come «Combat», «France-Tireur» e «Liberté» ovvero come ricorda sempre Silone dal Movimento del lavoro libero in Norvegia o dal Movimento Vrij Nederland in Olanda ed anche da sparsi gruppi di tedeschi antinazisti.
A leggere i nomi dei fondatori del Movimento Federalista in Italia si trovano un sacerdote come Don Ernesto Gilardi insieme con Leone Ginsburg e Arialdo Banfi (un futuro protagonista del socialismo milanese) con Vittorio Foà e Lisli Carini, la moglie di Lelio Basso o Alberto Mortara, il fondatore del CIRIEC per enumerarne solo qualcuno. Nel gruppo fondatore ebrei e valdesi erano sovra rappresentati rispetto alla popolazione italiana, ma è facile capirlo sia per il legame antifascista che per l’esperienza storica di minoranze perseguitate, in quanto lo Stato nazionale si presentava come comunità di lingua, di razza e di religione. Una forte presenza di persone della tradizione politica di sinistra, socialista ed azionista soprattutto.
Una riflessione si impone sul ritardo invece della sinistra nel dopoguerra rispetto al processo di costruzione europeo: certamente la prematura scomparsa di Eugenio Colorni, uno dei diffusori del Manifesto, perché riuscì ad evadere nel maggio del 1943, cioè alcuni mesi prima di Spinelli, ha contribuito a questo ritardo, come quella di Bruno Buozzi nella storia della CGIL.
Due compagni che, se non fossero stati eliminati, sarebbero stati tra i protagonisti della rinascita politica del dopoguerra e di un diverso rapporto di forze tra comunisti e socialisti. Un diverso rapporto di forze sarebbe stato essenziale, per la costruzione anche in Italia di un grande partito socialdemocratico europeo, la cui assenza è tra le cause della debolezza della sinistra in Italia e della sua incapacità di porsi come credibile alternativa maggioritaria al centrodestra italiano.
Due sono gli articoli di Silone nel
quale delinea la sua visione europea del socialismo. Il primo fu pubblicato
dall'”Avanti!” di Roma[4] con
il titolo “Prospettiva attuale del Socialismo Europeo”. Il secondo sempre
dall'”Avanti!” di Roma del 28 gennaio 1945 col titolo “Europa di Domani”[5].
Per Silone “l'Europa moderna ed il socialismo sono termini storici intimamente
connessi. Il socialismo moderno infatti è nato in Europa nel corso del secolo
passato, contemporaneamente all'Europa moderna. Le fasi di sviluppo e le crisi
del socialismo moderno sono coincise con il progresso e le difficoltà dell'Europa”[6].
“Per
verificare la precisione del legame storico tra socialismo ed Europa basta
riflettere a questo fatto essenziale: ancora oggi non vi è socialismo ed Europa
basta riflettere a questo fatto essenziale: ancora oggi non vi è socialismo
politico democratico fuori del nostro continente. Non v’è né in Africa, né in
Asia, né nell’America del Nord (l’America del Sud nell’ordine delle idee e
delle forme politiche, è un riflesso dell’Europa e non basta a smentire la
nostra affermazione). Il noto saggio di Werner Sombart: Perché non vi è
movimento politico [socialista] nell’America del Nord? contiene la più esauriente
dimostrazione del carattere europeo del socialismo moderno e la prova
indiscutibile della stretta parentela tra socialismo ed Europa”.
L’affermazione di Silone è in gran parte vera ancora oggi, si è solo dimenticato di citare tra le filiazioni del socialismo europeo, quello australiano e neozelandese, che hanno le loro radici nel laburismo britannico e l’unica vera eccezione costituita dal socialismo giapponese, mai in grado tuttavia di rappresentare un’alternativa di governo.
Per Silone il socialismo non è il frutto automatico, naturale dell’esistenza di un’industria e di un proletariato, questi ci sono ed in misura maggiore nel Nord America ed oggi in Cina ed in India.
Per l’esistenza di un vero e forte movimento socialista “è indispensabile qualcosa d’altro: una certa tradizione, una certa atmosfera spirituale, una certa eredità politica, un certo modo di concepire lo stato, la società, i diritti dei cittadini”.
Il socialismo moderno è un progetto della storia dell’Europa e pertanto – secondo Silone – non è esagerato “affermare che i problemi del socialismo democratico sono, oggi, in fin dei conti, i problemi del destino dell’Europa”.
Per Silone, presago con troppo anticipo, i problemi fondamentali della libertà del benessere e della pace dei singoli paesi europei hanno una portata che sorpassa le frontiere nazionali, sono problemi continentali.
Con la guerra ancora in corso Silone prefigurava il futuro compito dei partiti socialisti, gli unici che avrebbero potuto sviluppare una politica europea: i partiti espressione della borghesia e dello stesso movimento politico dei cattolici erano espressione di una borghesia, cioè di un ceto medio, irrimediabilmente nazionale ed autarchico. “I ceti medi sono sempre stati una preda relativamente facile dei miti nazionali o di quelli astrattamente universalistici”. Silone, che pure aveva drammaticamente rotto, pagando un grosso prezzo nazionale, con il movimento comunista internazionale, aveva colto l’inattualità della divisione tra comunisti e socialisti.
Quattro erano le questioni
fondamentali sulle quali avvenne la scissione:
“a) difesa nazionale o disfattismo;
b)
partecipazione
ministeriale o opposizione sistematica;
c)
legalità o
insurrezione;
d)
dittatura o democrazia.
Ora, nessuno di questi quattro motivi sono ancora oggi attivi nel dialogo
politico tra socialisti e comunisti. Se una differenziazione organizzativa
persiste ancora tra socialisti e comunisti non è certo per divergenze attuali
su qualcuno di questi quattro punti fondamentali”[7].
Silone, inoltre, vedeva nella lotta antifascista ed antinazista un’ulteriore ragione di superamento della divisione.
Lo sviluppo nel dopoguerra andò in tutt’altra direzione: nei paesi conquistati dall’Armata Rossa si compì l’unificazione forzata dei partiti socialisti e comunisti, con la scomparsa politica dei primi, anche quando il nome del Partito non divenne formalmente comunista come il POUP (Partito Operaio Unificato Polacco) o mantenne il riferimento socialista come nei casi del Partito Operaio Socialista Ungherese e della SED (Partito di Unità Socialista della Germania).
In Occidente la Guerra Fredda portò i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti ad una scelta di campo occidentale, con la sola eccezione fino alla rivoluzione ungherese del 1956 del PSI.
Nel caso italiano il patto di unità d’azione portò i socialisti ad essere critici nei confronti dei primi passi della Costituzione europea, anche se alla fine si astennero sulla ratifica del Trattato di Roma istitutivo della C.E.E., mentre il PCI votò contro.
Nello schema siloniano il superamento della divisione avrebbe però lasciato inalterato il fatto che nei paesi economicamente più progrediti dell’Occidente il partito maggioritario sarebbe stato quello socialista, mentre in quelli più arretrati il comunista.
L’Italia era un caso intermedio per Silone, ma l’esito è stato quello di un movimento socialista, anche a causa della scissione di Palazzo Barberini, diviso e più debole del PCI.
Questo fatto non impedì ai socialisti di essere, grazie alla politica autonomista, un fattore dinamico della sinistra, pagato anche esso con la scissione del 1964 della PSIUP.
L’articolo di Silone sulla “Prospettiva attuale del socialismo europeo” si concludeva che la previsione che dopo la guerra avrebbe perso centralità la socialdemocrazia tedesca a favore del laburismo britannico.
Un caso di presbiopia perché bisogna aspettare gli anni ottanta/novanta e Blair per sostituire la centralità politica a sinistra della socialdemocrazia tedesca in particolare sotto la guida di Willy Brandt, per non dimenticare la rinascita socialista francese con Mitterrand.
Altrettanto significativo della
visione europeista di Silone è lo scritto l’Europa di Domani[8].
L’esito del conflitto era ormai
segnato anche se mancavano pochi mesi alla liberazione dell’Italia ed alla resa
senza condizioni del III Reich.
Lo spunto delle sue riflessioni è un
libro del socialista inglese G.D.M. Cole “Europe, Russia and the Future” del
1943.
Cole insieme con Larky era indicato
nel precedente articolo come uno dei pensatori che avrebbe sostituito Karl
Kautsky.
Cole faceva una affermazione forte: “Il capitalismo dell’Europa continentale non
può essere restaurato. Esso è minato fin nelle fondamenta. Ma lo stesso non si
può dire del capitalismo britannico, il quale rimane tuttora in possesso dei
controlli principali della vita economica nazionale. Scuotere questo potere del
capitalismo è di importanza vitale come il solo mezzo per impegnare la Gran
Bretagna a partecipare alla ricostruzione europea. Il laburismo britannico è
orientato, non verso l’America, ma verso l’Europa. Ma il Partito Laburista non
potrà attuare il socialismo in Inghilterra se non lavora per il socialismo come
base della ricostruzione non solo britannica ma europea”.
In effetti nel secondo dopoguerra i
laburisti furono il partito socialista che più di ogni altro procedette a
massicce nazionalizzazioni, però rimanendo refrattari ad ogni ipotesi di unificazione
europea.
Dalla guerra sarebbero riusciti
rafforzati gli Stati Uniti e l’URSS. Se il capitalismo resterà la forza
dominante, si sarebbe rafforzato l’asse della Gran Bretagna con l’America: per
l’Europa sarebbe un disastro, conclude Cole con l’approvazione di Silone.
Soltanto il socialismo democratico
può unificare l’Europa e farla servire da mediatrice storica tra il continente
sovietico e il continente americano.
Nel pensiero socialista di Cole e
Silone non si può arrivare ad una federazione europea lasciando intatte le
economie nazionali autarchiche.
In questa analisi vi è una frattura
con il pensiero federalista, come emerge dal Manifesto di Ventotene. Per i
federalisti la prima sfida è quella istituzionale, anche se la lotta ai
monopoli ne era un aspetto, così come un certo grado di pianificazione: l’idea
che aveva portato alla creazione della Comunità Europea del Carbone e
dell’Acciaio.
L’unità europea non sarebbe però caratterizzata da istituzioni comuni e gli stessi raggruppamenti economici avrebbero visto da un lato la Gran Bretagna, la Scandinavia, l’Olanda, il Belgio, la Spagna, la Svizzera e l’Italia da un lato e dall’altro Germania, Austria, Ungheria, Cecoslovacchia ed i Paesi balcanici.
Non dobbiamo sorridere pensando a
queste utopie, studiate a tavolino e soprattutto influenzate dalle alleanze di
guerra.
Resta un fatto che si indicava una
direzione che dava il giusto peso alla dimensione internazionale dei problemi e
alla necessità di coniugare gli assetti istituzionali alle riforme economiche,
di cui la pianificazione era un momento centrale.
Lo sviluppo del dopoguerra è andato
in un’altra direzione, l’unificazione europea si è fatta ponendo alla base la
libera concorrenza ed il mercato, guidate da un centralismo burocratico senza
effettivi contrappesi democratici.
La denuncia dell’Europa, come
l’Europa dei capitalisti e dei banchieri, è stato un bell’alibi per i partiti
della sinistra per non impegnarsi nella costruzione di un’altra Europa, dando
vita per esempio ad un Partito Socialista Europeo transnazionale.
Per descrivere la perdita di
influenza della sinistra e dei socialisti in Europa si cita il fatto che
nell’Europa a 15, ben 12 primi ministri erano di partiti del PSE ed il 13° era
Prodi dell’Ulivo. Nell’Europa a 27 sono ridotti a 6. Vorrei, però, che si
facesse un’altra osservazione: l’opinione pubblica aveva percepito una qualche
differenza sul piano europeo da questa esplosione di socialisti al potere in
Europa?
La conclusione riprende una
considerazione iniziale e sulla quale siamo tributari a Silone e Colorni, cioè
che non c’è prospettiva socialista se non c’è una chiara scelta federalista,
cioè senza una dimensione internazionale della politica, al di là delle singole
proposte, perché il destino del socialismo democratico e dell’Europa sono
indissolubilmente legati.
Silone questo lo aveva compreso ed è
esempio di come si possa unire la discussione internazionale con salde radici
locali. Con un’espressione contemporanea Silone è stato un autentico glocal[9]: marsicano ed
internazionalista fino in fondo.
[1] Riprodotto a pag. 56 del Reprint dell'I.E.S.S., al pari, nelle pagine seguenti, delle commemorazioni di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.
[2] Un Manifesto di cui Ignazio Silone, allora a capo del Centro Estero di Zurigo del PSI e dell’Avvenire dei Lavoratori ebbe già sentore nell’autunno del 1941 e più tardi ricevette un appello analogo, dal Movimento «Libérer et Fédérer» di Tolosa, nel quale militava Silvio Trentin, il padre di Bruno.
[3] Cfr. in Leo Solari, Eugenio Colorni,Venezia, 1980, pp. 149-156, la lettera del novembre 1943, riprodotta a pag. 70 Del Reprint dell'Avvenire dei Lavoratori a cura dell'Istituto Europeo di Studi Sociali, e nei carteggi 1942-1945 le lettere di Silone ed Usellini a Rossi ne costituiscono la grande maggioranza.
[4] In tre puntate del 29 ottobre, 31 ottobre e 5 novembre 1944, in Reprint I.E.S.S., pag.61.
[5] Reprint, pag. 67
[6] Reprint, pag. 61
[7] Reprint, pag. 62.
[8] Reprint, pag. 67.
[9] Neologismo che significa una visione al contempo globale e locale.