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2008 08 17 * La Stampa * Fabio Martini

LA “VERA STORIA” DELLA CADUTA DI PRODI – SU FORCING DI USA, CHIESA CONFINDUSTRIA, MASTELLA LASCIA IL GOVERNO MA FA IL FURBETTO: QUEL PATTO COL COMPARE PIERFURBY ARRIVA ALL’ORECCHIO DI BERLUSCONI…

Una domenica di gennaio, tra le mura di casa Mastella a Ceppaloni, accadde qualcosa di drammatico. Qualcosa che non trapelò all’esterno, ma che nel giro di poche ore avrebbe cambiato il corso della storia politica italiana. Una vicenda familiare, intima e sinora sconosciuta, che aiuta a ricostruire la “vera storia” della caduta di Romano Prodi, battuto sul campo il 24 gennaio del 2008. Una storia nei mesi scorsi raccontata a fette grosse, ma ricca di personaggi appartati e decisivi.

Tutto era iniziato una settimana prima della crisi di governo: il 16 gennaio Clemente Mastella non aveva potuto non dimettersi da ministro di Grazia e Giustizia dopo l’improvviso arresto della moglie Sandra: «Tra il potere e la famiglia - aveva scandito in Parlamento - scelgo la famiglia!». Erano seguiti quattro giorni asperrimi per i Mastella e molto incerti per la sorte del governo Prodi, che purtuttavia restava in piedi, visto che l’Udeur aveva ritirato il ministro ma non l’appoggio parlamentare. E finalmente arriva quella domenica.

E’ il 20 gennaio, nella sua casa appollaiata tra le Forche Caudine, il capofamiglia dei Mastella si sveglia all’alba, incertissimo sul da farsi: restare fedele a Prodi o buttarsi con Berlusconi? Angosciato dal dilemma, alle 9 Clemente Mastella sfida il destino e si mette in viaggio verso Roma, diretto a piazza San Pietro per ascoltare l’Angelus del Papa. Davanti al colonnato del Bernini la sorpresa: Mastella in cuor suo teme gli sberleffi e invece molti fedeli solidarizzano con lui.

E il pomeriggio, tornando verso casa, un’altra sorpresa. Squilla il cellulare: «Sono Massimo...». E’ D’Alema, il vicepresidente del Consiglio, assicura che anche Prodi è d’accordo: per evitare il referendum, si farà una legge elettorale proporzionale, proprio come piace all’Udeur e nella imminente raffica di nomine in enti strategici (Rai, Finmeccanica, Enel, Eni, Inps e tanti altri) una trentina di posti sarebbero andati agli amici di Clemente.

Dopo quattro giorni di onta mediatica, Mastella si sente rinfrancato, ma a sera, quando apre la porta della sua casa di Ceppaloni, scopre che non c’è più tempo per cincischiare. Trova il figlio Elio provato. Molto provato. Trent’anni, mai immischiato con le faccende politiche, un’indole studiosa, due giorni prima Elio aveva tenuto testa alle Iene di “Italia1”, che si erano presentate sotto casa con un chilo di arance da portare alla madre: «Io sarei il figlio del boss? Ma lo sapete che io mi sono laureato in ingegneria a 24 anni con 110 e lode e lavoro con un contratto da metalmeccanico?». E rivolto alla iena Alessandro Sortino, figlio di un commissario dell’Authority delle comunicazioni, Elio aveva contrattaccato: «Dillo, cosa fa tuo padre! Dillo, quanto guadagni tu... Me lo dici?». In poche ore Elio diventa un mito per i navigatori di You-Tube.

Ma poi i riflettori si erano abbassati ed era salito lo stress. Quella domenica sera Elio è giù, pronuncia frasi forti, il padre si preoccupa. Passionale, con un culto meridionale per la famiglia che è sopra ogni altra cosa, papà Clemente decide che bisogna fare in fretta, chiudere con il «giustizialismo» dei Di Pietro che lo ha scalzato dalla Giustizia e che ora - ecco la cosa che brucia di più - gli sta scompaginando la famiglia, moglie, figli, parenti.

Alle 21,30 il primo, vero contatto con casa Berlusconi, alle 22 la telefonata di Mastella a Mauro Fabris, il suo braccio destro: «Domattina ti aspettano a Milano i vertici di Forza Italia, si può chiudere un accordo con 20 deputati e 10 senatori». L’indomani mattina - ironia dei destini incrociati - è Prodi a cercare Mastella, ma Clemente non si fa trovare. E’ ansioso, da Milano aspetta la telefonata “libera-tutti” di Fabris, che infatti arriva all’ora di pranzo: «Tutto a posto, c’è il timbro di Berlusconi!». Alle sei della sera Mastella può annunciare ai giornalisti: «Lasciamo la maggioranza, l’esperienza del centrosinistra è finita». E’ il 21 gennaio, il ribaltone è compiuto: tre giorni più tardi Prodi cade al Senato.

E Berlusconi, che ha promesso posti e prebende? Mastella va a trovarlo due volte a palazzo Grazioli, la prima “nascondendosi” dentro la Mini Minor del suo amico Francesco Borgomeo. Il Cavaliere è rassicurante, sia nella prima che nella seconda circostanza. Il 9 febbraio Mastella va ad Arpaise nel Beneventano, un piccolo centro, nel cuore del consenso Udeur, tira aria di grande annuncio, di accordo con il centro-destra.

Ma gli amici sanniti aspetteranno invano. Si nota solo tensione, in quelle ore. Il 9 febbraio, infatti, si rivela il giorno della beffa: dal predellino milanese, il Cavaliere annuncia la lista unica del centro-destra, soluzione che volutamente taglia fuori il duo Casini-Mastella. Per Clemente è il fine-corsa: nei giorni successivi nessuno lo vorrà in lista.

La “vera storia” della caduta del governo Prodi è davvero una saga all’italiana, nella quale si intrecciano “generi” diversi: familismo e trasformismo, sentimenti e tradimenti, melodramma e operetta. Con storie apparentemente minori che ne spiegano altre più grandi. Se l’attuale governo Berlusconi (senza l’Udc) appare più coeso del centro-destra 2001-2006, una ragione si può trovare in un colloquio riservato che risale al fatidico 16 gennaio, il giorno delle dimissioni di Mastella, tra i corridoi che fiancheggiano il transatlantico.

Il primo che si apparta con l’ex Guardasigilli negli uffici del governo è il suo vecchio sodale, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, ancora dentro al centrodestra (poi più tardi la crisi con il Cavaliere). Pier dice a Clemente, ma anche al suo vice Antonio Satta, sempre presente in quei giorni di crisi: «Tu chiedi 20 deputati a Berlusconi, io mi faccio la mia trattativa e poi uniamo le forze». Mastella - che sostiene ancora Prodi - annunisce, accarezza la suggestione di un Centro decisivo nella futura Cdl con 50-60 deputati. Ma quel patto tra le due volpi democristiane arriva all’orecchio di Berlusconi, che tre settimane più tardi, annunciando il Pdl, dimostrerà di essere diventato più furbo degli allievi di Forlani e De Mita.

In quegli otto caldissimi giorni di gennaio, vanno in scena anche sprazzi da commedia dell’arte. Il 16, subito dopo le dimissioni del guardasigilli, a Montecitorio, si riunisce l’ufficio politico dei Popolari-Udeur e nel pieno della riunione squilla un telefonino. E’ quello di Andrea Abbamonte, avvocato, ma anche assessore regionale alla Sicurezza della Regione Campania: «Si, pronto...Ma...come?...Che?...Io?».

Finita la telefonata Abbamonte guarda gli amici e mestamente confida: «Devo andare...Erano i carabinieri...devo rientrare...mi hanno detto che mi arrestano pure a me...»

Certo, Mastella è l’esecutore materiale del “delitto”, ma appena colpito Prodi cade a terra di schianto, anche perché il suo governo già dal 23 luglio 2007 stava andando avanti sostanzialmente senza l’appoggio di Rifondazione comunista. Una crisi aggravata a partire da dicembre, quando Fausto Bertinotti, in una intervista molto irrituale per un presidente della Camera, aveva paragonato Prodi ad «un poeta morente» e bollato l’Unione come «un progetto fallito». Il Professore si era infuriato, Bertinotti gli aveva confidato «Romano, l’ho fatto per il tuo bene», Prodi non ci aveva creduto.

E la costante, logorante ostilità dei poteri forti - gli Usa, la Chiesa, Confindustria - era venuta allo scoperto anche all’ultimo minuto con un intervento passato inosservato in quei giorni convulsi. E’ il 21 gennaio e Mastella, “forte” dell’accordo con Berlusconi, fa sapere con uno scambio di telefonate nei “giri” giusti (non a Prodi) che tre ore più tardi si sarebbe ritirato dalla maggioranza. Alle 17,05, l’Ansa batte una durissima nota del presidente della Cei Angelo Bagnasco nella quale si denuncia un’Italia «sfilacciata» e ridotta addirittura a «coriandoli», dove prevale una «pericolosa sfiducia nel futuro».

Una tempestività spettacolare: un’ora più tardi il buon Clemente, pecora mai smarrita nel gregge di Santa Romana Chiesa, annuncia la crisi di un governo. E quattro giorni più tardi, a Prodi definitivamente caduto, il cardinale Bagnasco si riprende la parola: «La Cei? Non c’entra nulla con la caduta del governo».