Privacy Policy Cookie Policy Termini e Condizioni

2008 12 03 * Libero * stralci da “Clementina Forleo. Un giudice contro”

“Clementina Forleo. Un giudice contro”, edita Aliberti e scrive Antonio Massari. Pubblichiamo stralci del libro dedicato a Clementina Forleo, il gip più famoso d’Italia. Si è occupata, fra le altre, dell’inchiesta Antonveneta-Bnl e quindi di D’Alema, Fassino, Latorre. In una lunga intervista la Forleo affronta punti cruciali: il conflitto tra esecutivo e magistratura; il caso del pm Luigi de Magistris che lei ha difeso; ma soprattutto il nodo dei rapporti fra politica e magistratura

Dottoressa, lei diventa giudice nel 1994. Un anno importante per la sua storia personale... Che ricorda, di quei mesi?

«In quel momento l’“avversario” era il potere politico. Ed è altrettanto vero che i magistrati erano uniti. Mettiamola così: era una sorta di battaglia. Una battaglia - a mio avviso fisiologica - che vedeva contrapposto il potere giudiziario al potere politico. Quel potere politico, però, aveva un colore ben definito: c’era un nemico».

Il nemico era Berlusconi?

«Il pool di Mani Pulite si ribellò a un decreto del Governo Berlusconi, fu allora che convocò la famosa conferenza stampa».

Al Governo c’è ancora Berlusconi. Chi l’ha vinta quella fisiologica battaglia?

«Non credo che siano questi i termini giusti per affrontare la questione. Lasciamo perdere, almeno per un attimo, la presenza di Berlusconi. Ragioniamo in termini più astratti».

In termini più astratti chi l’ha vinta questa battaglia?

«La battaglia è sempre in corso. Altrimenti non sarebbe fisiologica. A mio avviso, però, s’è accresciuta la forza del potere politico e s’è indebolita l’immagine della magistratura. E le radici di questo mutamento risiedono anche in taluni innegabili eccessi che furono compiuti in quegli anni. Mi riferisco al 1994, al contesto storico di Mani Pulite, che non va sottovalutato per analizzare anche l’attuale rapporto tra politica e magistratura».

Ci dica.

«Alcuni eccessi hanno rafforzato il consenso popolare verso certa politica. E hanno minato già da allora la fiducia popolare nella magistratura».

Quali eccessi?

«Non dimentichiamo: qualcuno s’è suicidato in carcere. Non voglio dire che il carcere fosse immeritato, intendiamoci, perché in carcere non devono finirci solo i ladruncoli. Però...».

Però?

«Però ci fu un abuso dello strumento carcerario. Ripeto: non lo dico perché vennero coinvolti personaggi eccellenti. Condanno l’abuso, sia quando investe i colletti bianchi, sia quando investe i più deboli, magari l’immigrato che spintona il commesso dell’ipermercato che l’ha appena sorpreso a rubare. L’abuso è abuso. Punto».

Poi s’è messa a difendere Luigi de Magistris.

«È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e di cui però non mi pento. Avevo seguito la vicenda di de Magistris attraverso i giornali e mi aveva incuriosito l’immagine di questo giudice coraggioso, che nel Sud lotta da solo. Io sono nel Sud, amo la mia terra, e una volta sono stata invitata a scrivere una frase in calce a un calendario paesaggistico.

Le dico questo perché le stesse frasi le ho riportate ad Annozero, nella prima delle due trasmissioni “incriminate”: scrissi che quella è la mia terra, dove sempre vivrò attratta da un indescrivibile desiderio, ovvero: spero che nel frattempo, il buio che la offusca sia stato debellato, e con esso la rassegnazione della sua gente. E’ questo il sentimento che nutro verso il mio Sud. In de Magistris ho visto una persona che, in quest’ottica, per la vicenda che stava affrontando, era “liberatorio” nei confronti del Sud. Liberatorio rispetto ai tanti don Rodrigo che sopravvivono del nostro Sud. Ma c’era qualcosa in più, che avevo capito, seguendo le sue vicende».

Cosa?

«Avevo capito che il nervo scoperto non erano tanto le inchieste Why Not e Poseidone, quanto quella sulle Toghe Lucane, che apriva uno squarcio sui malanni del terzo potere dello Stato, il potere giudiziario. de Magistris, a mio avviso, a prescindere dai singoli indagati in Toghe Lucane, stava affondando le mani in un contesto ben preciso: le infiltrazioni nella masso-mafia meridionale, ed era incappato in magistrati che rivestivano ruoli direttivi (...).

Nella sua vicenda, a un certo punto, irrompe anche il presidente della Repubblica...

«Sì, ho vissuto questo come una pressione, perché si trattava del capo dello Stato, e un capo dello Stato non era mai intervenuto per dire quello che un giudice deve scrivere, o non scrivere, in suo provvedimento. Ciampi o Pertini sicuramente non avrebbero detto quelle cose. Quelle parole mi hanno fatto male: le ho ritenute un’offesa al Paese. Quando qualcuno ha scritto cose più pesanti, in altre ordinanze, e in Italia ce ne sono state, Napolitano ha taciuto».

Tra le icone della magistratura c’è anche Gerardo D’Ambrosio: ha nutrito dubbi pure sul suo comportamento.

«Gerardo D’Ambrosio è stato ai vertici della Procura fino a poco tempo fa. Poi diventa senatore DS e si schiera pubblicamente contro la mia iniziativa di trascrivere le telefonate di D’Alema e gli altri parlamentari. Ma questo non mi riguarda. Il punto è un altro: lo vedo, per caso, mentre va a pranzo con alcuni pm che s’occupavano delle scalate. E questo m’indigna. Perché ritengo che, se qualcuno lascia la toga per diventare un politico, poi dovrebbe avere il buon gusto di non creare confusione di ruoli (...). Aveva stigmatizzato l’idea di trascrivere le telefonate di D’Alema, Fassino e Latorre, che in quel momento erano i vertici del suo partito. Per questo, quel pranzo tra D’Ambrosio e i colleghi, nel quale avremmo potuto parlare di tutto, io lo ritenni inopportuno (...)».

Le è capitato di piangere in pubblico. E qualcuno l’ha criticata per questo.

«Io non rinnego quelle lacrime. Le lacrime hanno un senso. E hanno avuto ancora più senso alla luce di quello che è successo. Quando dicevo: qualcuno vuole delegittimarmi, vuole farmi passare per una pazza, sono stata la Cassandra di me stessa».