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2009 08 28 * Il Giornale * Si riapre il caso Sme. De Benedetti nel mirino dei pm * Gian marco Chiocci

Si riapre l'affaire Sme. Due Procure, Salerno e Nocera Inferiore, indagano in gran segreto laddove Milano e Perugia non vollero scavare in profondità. Ovvero sui misteri irrisolti dell'appalto Sme e della tentata svendita a Carlo De Benedetti da parte dell'amico Romano Prodi, all'epoca presidente dell'Iri.

Più in particolare i pubblici ministeri Vincenzo Senatore ed Elena Guarino, supportati dalla Guardia di finanza, stanno ultimando gli accertamenti sul fallimento pilotato, da parte di un «potere economico-finanziario» in corso di definizione, della società Cofima risultata inizialmente vincitrice della gara per l'acquisizione del colosso alimentare, società che non doveva essere dichiarata insolvente poiché godeva di ottima salute tra patrimonio immobiliare e ingenti fidi.

Sotto inchiesta sono dunque finiti i maggiori istituti di credito nazionali, noti banchieri e svariati funzionari. Lungo l'asse Salerno-Nocera al momento sarebbero decine gli indagati per reati che svariano dalla truffa all'estorsione fino all'usura.

Una volta definito il capitolo bancario, fanno sapere fonti investigative, si passerà automaticamente a scandagliare tra i mandanti eccellenti che avrebbero ispirato l'azione concentrica dei colossi del credito finalizzata a colpire Giovanni Fimiani, patron della Cofima, l'imprenditore campano che con la sua maxi-offerta sbaragliò la concorrenza (in primis la Buitoni di De Benedetti, quindi la Iar del trio Berlusconi, Ferrero, Barilla, poi Conservitalia delle coop bianche e quindi la Lega delle Cooperative).

De Benedetti, e dunque Prodi, sono destinati a tornare nel mirino. Anche perché il lavoro delle due Procure prende il la dalle conclusioni di una precedente perizia tecnica stilata nel 1998 dai consulenti dell'ex pm salernitano Raffaele Donnarumma (trasferito a Castellamare di Stabia quando si apprestava a chiedere il rinvio a giudizio anche per Prodi) che portavano il magistrato a concludere come «tutto induce a ritenere concreta l'ipotesi di un preciso disegno criminoso ordinato da ignoti e teso a eliminare Fimiani quale pericoloso concorrente in gara per l'aggiudicazione della Sme (...). Fimiani ha evidentemente rotto equilibri delicati e violato santuari finanziari tanto che non appare una fortuita coincidenza del concentrarsi, nello stesso periodo, di inique attività contro l'imprenditore».

Il 19 ottobre 1999 sempre il pm Donnarumma faceva presente, ai colleghi di Perugia presso i quali il procedimento veniva in quei giorni trasferito, che «dalle indagini e dalla consulenza svolta presso accessi e acquisizioni in numerosi istituti bancari, risultavano provate molte delle doglianze e delle circostanze denunciate dal Fimiani che avevano portato al fallimento delle sue aziende». A cominciare dalla capacità finanziaria di Fimiani, incredibilmente dichiarato fallito «attesa la dimostrata disponibilità dell'istituto di credito bancario tedesco che mise a disposizione la somma di un miliardo in marchi tedeschi», pari a 700 miliardi di lire.

Come se non bastasse il pm osservò che «da numerosi fatti accertati emergevano comunque elementi che portavano alla necessità di completare le indagini sulle complesse vicende per accertare chi avesse beneficiato delle attività illecite poste in essere contro Fimiani». Già, chi ne aveva beneficiato?

Per scoprirlo il pm Donnarumma fece presente ai colleghi umbri di aver dato incarico al consulente tecnico, in data 26 novembre 1998, di svolgere ulteriori accertamenti per verificare «il danno reale arrecato alla Cofima» e per scoprire se fra le cause del dissesto vi potesse essere una responsabilità di vari soggetti interessati all'operazione, fossero politici o imprenditoriali: «Ho chiesto al consulente - scriveva l'allora pm di Salerno - di verificare se dette attività dell'Iri abbiano procurato vantaggi a terzi e/o soggetti fisici nazionali e o esteri», specificando che l'indagine «su una delle più complesse operazioni di privatizzazioni mai avvenute in Italia» si era svolta sullo sfondo di «fatti e avvenimenti, interessanti attività commerciali nonché personaggi finanziari e politici del massimo rilievo nazionale ed internazionale».

Per la cronaca, il suddetto consulente tecnico non è stato praticamente mai contattato dalla Procura di Perugia e mai sono stati utilizzati, integrati e sviluppati i suoi accertamenti. Undici anni dopo, altri magistrati di altri distretti giudiziari li hanno invece ritenuti meritevoli di approfondimento, con ciò sconfessando l'azione dell'allora titolare dell'inchiesta perugina su Prodi e la Sme, Silvia Della Monica, diventata recentemente senatore del Partito democratico.

Proprio a Perugia l'imprenditore Giovanni Fimiani nel 2002 depositò un esposto di fuoco nel quale snocciolava cifre, perizie e documenti per dimostrare come il fallimento «pilotato» in suo danno venne realizzato «con un'operazione speculativa realizzata con i metodi classici della criminalità organizzata» attraverso «uno stratagemma posto in essere in maniera del tutto ingiustificata da una banca dietro la quale operava uno sponsor di De Benedetti».

Dichiarato fallito ingiustamente, e pure perseguitato mediaticamente. Lo aveva ripetuto a verbale lo stesso Fimiani: «Grazie a quanto da noi messo a nudo nelle sedi competenti sulle palesi irregolarità riscontrabili nel pre-contratto Prodi-De Benedetti che produceva danni immensi per lo Stato, improvvisamente è cominciata una campagna denigratoria, vendicativa, sapientemente orchestrata da chi aveva interesse a togliere di mezzo la società che aveva fatto l'offerta più alta, smascherando, carte alla mano, l'accordo al ribasso» vantaggioso solo per la Buitoni di Carlo De Benedetti.

A fronte del vergognoso patto (privato) fra il Professore e l'Ingegnere per la svendita della Sme a soli 497 miliardi, fu provvidenziale l'azione di Fimiani che si aggiudicò la gara (stavolta pubblica) per 620 miliardi di lire.

Undici anni dopo la partita sulla Sme si riapre. Nel mirino le banche-strozzine e i mandanti occulti collegati. Contattato dal Giornale, Giovanni Fimiani risponde con un secco no-comment: «Quello che avevo da dire l'ho detto nelle sedi competenti. Addio». Anzi, arrivederci.

DAI DIARI DI BETTINO CRAXI
La discussa vicenda Sme era iniziata con un accordo Prodi-De Benedetti. La vicenda aveva suscitato lo sdegno e l'opposizione del Manifesto, del Pci e dei sindacati, oltre che di Bettino Craxi, allora capo del governo.
La cessione era stata fatta a trattativa privata.

L'Iri vendeva il 54,36% della Sme per 497 miliardi: il 51% andava alla Ibp (Industrie Buitoni Perugina, che De Benedetti aveva appena comprato) per 395 miliardi, il resto a Mediobanca-Imi per 102 miliardi. Veniva anche ceduta, gratuitamente, la Sidalm, la società di Motta e Alemagna.
Con la Sme, De Benedetti comprava gli Autogrill e i supermercati Gs, Italgel (Surgela, Gelateria del Corso), Pavesi, Pai, Cirio, Bertolli, De Rica, Burghy, Ciao.

L'accordo fu sottoscritto il 29 aprile 1985. L'operazione fu giustificata con il fatto che la Sme aveva bisogno di capitali mentre l'Iri non poteva far fronte e che De Benedetti avrebbe dato vita ad un grande gruppo alimentare nazionale, fondendo la Sme con la Buitoni Perugina.

Sul Manifesto Valentino Parlato dedicò il 1° maggio l'apertura del giornale all'affare Sme, citando il liberale Ernesto Rossi, denunciando senza mezzi termini l'operazione. Ancora sul Manifesto, Galapagos descriverà «undici zone d'ombra» nell'accordo Prodi-De Benedetti. Negative furono anche le reazioni del Pci, dei sindacati, della Lega delle Cooperative.

Giorgio Napolitano, presidente dei deputati Pci, presentò a nome del gruppo un'interrogazione parlamentare. Il prezzo fu ritenuto del tutto incongruo per un gruppo che fatturava circa 4500 miliardi che lavorava in utile (50 miliardi netti). Nella Sme erano stati fatti investimenti per 435 miliardi, più 160 miliardi per la Sidalm.
Un piccolo quotidiano di area socialista, Reporter, denuncia i particolari dell'accordo. Appaiono tutti di favore. Il pagamento è in quattro tranches: 150 miliardi a fine giugno, il resto l'anno successivo, 75 miliardi al 31 marzo 1986, 75 miliardi al 30 giugno, e 197 miliardi a fine dicembre.

De Benedetti acquisisce il gruppo con un esborso minimo. Non ci sono sovrapprezzi e non ci sono interessi. A questo veniva aggiunto il beneficio degli utili del 1985 e di quelli previsti per il 1986, 140-160 miliardi. Inoltre è De Benedetti che vende il 13% a Mediobanca e Imi, due banche allora pubbliche, incassando subito 102 miliardi. Infine risulta che la Sildam (Motta e Alemagna) non è ceduta gratis, ma accompagnata da un aumento di capitale Iri di 30 miliardi, che De Benedetti rimborserà in tre anni, al tasso del 5%, contro il 14-15% di quello di mercato.

Prodi allora scrisse a Reporter per dire che tutto era assolutamente regolare. Craxi, presidente del Consiglio, blocca però l'accordo, sottolineando la «non congruità» del prezzo in sede di Consiglio dei ministri. Vengono avanzate altre offerte. Scalera, professore di Diritto fallimentare a Roma, offre 550 miliardi. Il 29 maggio la Iar, formata da Fininvest, dalla Barilla e dalla Ferrero, offre 600 miliardi, 100 subito, 500 entro due anni. Da Cava dei Tirreni, il signor Giovanni Fimiani, titolare della Cofima, alza la posta a 620. Arrivano la Unicoop (Cooperative bianche) e poi anche la Lega delle Cooperative.

De Benedetti imbocca la via giudiziaria: chiede in Tribunale il rispetto dell'accordo, ma gli viene dato torto. Il 19 luglio 1986 il Tribunale di Roma dà ragione a Prodi, che nella vertenza è paradossalmente diventato antagonista di de Benedetti, il compratore al quale aveva forse con troppa fretta promesso una «svendita».

Il 10 ottobre 1985, poi, l'Iri indice l'asta per la Sme. L'asta durerà a lungo. La Sme sarà privatizzata in tre tranches, tra fine 1994 e metà 1995, con un esborso, da parte degli acquirenti Benetton-Del Vecchio-Moewenpick di 1700 miliardi per il residuo 62% Iri. A parte erano state già cedute nel 1993 le partecipazioni (sempre 62%) in Italgel, pagata da Nestlè 437 miliardi, e in Cirio-Bertolli-De Rica per 310 miliardi.

In Italgel erano confluiti i gelati Motta e Alemagna, e i panettoni della Nuova Forneria. In totale l'Iri ha ricavato poco meno di 2500 miliardi. Forse l'intento dell'allora presidente del Consiglio Bettino Craxi a proposito della «congruità» del prezzo aveva qualche fondamento.
Una vicenda nella quale l'interesse pubblico è stato salvaguardato con intervento tempestivo che ancora oggi si ha la faccia tosta di considerare una interferenza «politica», mentre fu un atto assolutamente corretto e doveroso.