IL PASSAGGIO DI PROPRIETA’ DEL 1984
Le ragioni dell'ex editore del Corriere della Sera e la replica del direttore del nostro giornale
Caro Direttore,
è con profondo stupore e amarezza che ho letto l'articolo pubblicato venerdì a pagina 39 del Corriere della Sera a firma Sergio Bocconi sulle vicende della vendita Rizzoli. L'articolo comprende infatti una serie di falsità e inesattezze tali da farmi tornare col ricordo agli anni in cui i giornali basavano i loro scritti sulle «veline» fornite loro dai potenti di turno, politici o padroni che fossero. In particolare, le vicende giudiziarie che mi riguardano sono raccontate in modo impreciso e sconclusionato. Per fare il punto della situazione ad oggi, 28 maggio 2010, desidero informare Lei e i Suoi lettori che io, Angelo Rizzoli, sono tuttora un cittadino incensurato che non ha condanne a suo carico né procedimenti penali pendenti nei suoi confronti. Cosa che certamente non tutti gli imprenditori, inclusi i Suoi azionisti, potrebbero affermare.
È vero che io ho ricevuto tre
ordini di carcerazione preventiva e ho trascorso tredici mesi in carcere per
sei procedimenti penali da tutti i quali -salvo un'unica eccezione-sono stato
assolto o prima del rinvio a giudizio o fin dalla sentenza di primo grado.
Aggiungo che io ho trascorso
tredici mesi di carcerazione da malato di sclerosi multipla, una malattia
incompatibile con la permanenza in carcere e, come potrebbe testimoniare un
qualunque studente di medicina, portatrice di rischi gravissimi per
l'incolumità e la vita stessa del paziente. Inoltre, per rendere più amaro il
mio soggiorno in carcere, mi sono state sospese tutte le cure destinate ad
alleviare le sofferenze causate dalla malattia. Ciononostante, al termine della
carcerazione preventiva, io sono stato prosciolto da tutte le accuse.
È rimasta in piedi soltanto
un'imputazione di bancarotta impropria collegata all'amministrazione
controllata del Gruppo Rizzoli che si è sviluppata secondo due singolari
caratteristiche:
1) il caso più unico che raro in
Italia di una bancarotta che viene sancita priva della dichiarazione di
fallimento che la deve necessariamente precedere e nonostante l'amministrazione
controllata si sia conclusa in bonis;
2) l'accusa di associazione a
delinquere con Bruno Tassan Din-certamente imputato colpevole-ma anche con mio
fratello Alberto Rizzoli arrestato ingiustamente, scarcerato, prosciolto e
risarcito dallo Stato per ingiusta detenzione anni prima del processo.
Un'associazione a delinquere zoppa quindi, nella quale manca il terzo imputato
necessario perfino alla sua qualificazione.
Le ricordo inoltre che,
nell'ambito di queste vicende, mio padre Andrea è morto di infarto poche
settimane dopo il mio arresto e quello di mio fratello; che le mie sorelle sono
state indagate, sequestrati i loro beni, private dei documenti per l'espatrio e
minacciate di arresto. A causa di quella terribile tensione mia sorella minore,
Isabella, si è suicidata a 22 anni buttandosi dalla finestra di casa.
Ricordo, infine, che dopo una
condanna a due anni e quattro mesi in Corte d'Appello con le motivazioni che ho
citato, la Corte di Cassazione ha annullato il provvedimento anche perché nel
frattempo era stata abolita l'amministrazione controllata, come in questi
decenni moltissimi altri articoli del Codice Penale Rocco che, come Lei sa,
risale al 1930.
Si trattava in ogni caso
dell'unico caso in cui l'amministrazione controllata veniva equiparata al reato
di bancarotta, non ve ne sono stati altri in Italia. Quanto alla crisi
finanziaria che portò all'amministrazione controllata alla fine del 1982, sono
minuziosamente descritte nella sentenza finale del processo relativo al Banco
Ambrosiano le operazioni che hanno portato alla spogliazione dell'Azienda e,
più in particolare, il trasferimento dei 150 miliardi di aumento di capitale,
sottoscritto da La Centrale Finanziaria S.p.A., non già nelle casse della
Rizzoli, ma presso alcuni conti della Banca Rothschild di Zurigo denominati Zinca,
Recioto, Telada ad opera di funzionari di quella stessa Banca fiduciari di
Bruno Tassan Din e Umberto Ortolani, come emerge con chiarezza sia dalle carte
del processo Ambrosiano a Milano, sia dalle sentenze della Corte Suprema
d'Irlanda a Dublino, sia dalle sentenze del Tribunale Federale di Zurigo che ha
condannato i vertici della Banca svizzera a vari anni di reclusione per avere
distratto circa 180 milioni di dollari di fondi destinati alla Rizzoli verso
conti del cosiddetto «gruppo dei BLU» (Bruno Tassan Din, Licio Gelli, Umberto
Ortolani), conti che sono stati tutti regolarmente individuati dalle
magistrature italiana ed elvetica.
Nonostante ciò che asserisce il
Vostro Sergio Bocconi, il cosiddetto «pattone» di cui si parla nell'articolo è
una bufala; un'invenzione giornalistica poiché, a quanto mi risulta, esistono
solo appunti informali e non del tutto decifrabili, scritti dal Tassan Din con
l'ausilio di Ortolani e Gelli ma senza alcuna mia partecipazione, presenza o
conoscenza. Io ho semplicemente firmato con Roberto Calvi, Presidente de La
Centrale, un accordo ufficiale in data 29 aprile 1981 che è un atto pubblico
facilmente rintracciabile tra le carte dell'archivio Rizzoli e Nuovo Banco
Ambrosiano.
Quanto all'intervento dei nuovi
azionisti, questo è avvenuto in una situazione in cui tutti i miei beni,
incluso il 50,2% delle azioni della Rizzoli, mi erano stati sequestrati dai
magistrati di Milano e affidati a dei custodi giudiziari che li hanno venduti,
a chi loro indicato dai giudici del Tribunale, senza negoziarli e con
l'esplicita minaccia nei miei confronti di farmi tornare in carcere nel caso di
una mia opposizione.
Poiché ritengo che questi
comportamenti abbiano creato a me, alla mia famiglia e alla mia vita danni
incalcolabili, oltre che ingiuste sofferenze e gravi persecuzioni, dopo aver
chiuso, senza condanne, il lungo iter giudiziario penale che mi ha visto
coinvolto per 25 anni, ho ritenuto di chiedere un risarcimento che compensasse
almeno in parte le ingiustizie subite.
Come ho avuto modo di dirLe anche
personalmente, caro Direttore, io non ho alcuna intenzione di tornare al
Corriere della Sera né come editore, né come azionista e nemmeno come
visitatore. Chiedo solo che la verità su queste vicende ancora oscure venga
definitivamente accertata per non essere ancora una volta il capro espiatorio
di operazioni più o meno illecite e spregiudicate realizzate da altri soggetti
nel loro esclusivo interesse.
Angelo Rizzoli
Caro Rizzoli,
ci conosciamo da più di trent'anni. Il nostro è un rapporto amichevole, sincero. Dunque, uso il lei con una certa fatica. Ma lo facciamo entrambi per rispetto di chi ci legge. Quando lei era presidente del gruppo, che portava il nome del suo grande nonno e del suo grande papà, io ero un suo semplice giornalista. Ripensando a quegli anni assai dolorosi, e abbiamo avuto modo di parlarne più volte, sono convinto che lei abbia pagato un prezzo personale assai elevato, e abbia subìto una lunga e penosa detenzione.
Sulle sue spalle giovanili pesarono eredità ingombranti, ambizioni eccessive e, soprattutto, amicizie pericolose. Lei, certamente, fu vittima di molte circostanze. Ma non una vittima priva di responsabilità personali. Conoscendola, mi aspetterei che qualche errore, a trent'anni di distanza, lo riconoscesse. Posso aiutarla?
L'affiliazione alla loggia P2, che non era, come qualcuno pensa oggi, un'innocente società di mutuo soccorso. L'essersi consegnato, per scelta o necessità, a personaggi del calibro criminale di Licio Gelli, Umberto Ortolani, Bruno Tassan Din. E quest'ultimo («certamente colpevole» come scrive nella sua lettera) era il consigliere delegato del gruppo editoriale del quale lei era presidente.
Dunque, l'aveva nominato, o subìto, certamente non controllato. Lei dice che quei tre signori intascarono parte delle risorse messe a disposizione dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Solo loro tre? L'aumento di capitale fu effettivamente versato nelle casse della società di cui lei era presidente; come risulta dall'istanza di ammissione all'amministrazione controllata da lei firmata (non può adesso disconoscere quella firma); e dalla relazione del commissario, Luigi Guatri, del 20 gennaio 1983, oltre che dal rapporto del collegio sindacale sul bilancio della Rizzoli al 31 dicembre 1981.
E ancora, ma l'elenco potrebbe essere lungo, la decisione di acquistare nel '74 l'editoriale del Corriere della Sera, tutta a debito, fu certamente una mossa azzardata che portò già nel '77 il gruppo Rizzoli allo stato di insolvenza, con perdite nel triennio 1980-82 stimate in circa 300 miliardi di lire (anche questo appare nella relazione, già citata, del commissario Guatri).
Il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, nonostante le responsabilità dei suoi amministratori (tra i quali lei, caro Angelo) seppe risollevarsi, grazie al lavoro e al sacrificio delle sue maestranze e alla riduzione degli interessi passivi accordata dai creditori, in particolare il Nuovo Banco Ambrosiano.
È raro che una società, con oltre 600 miliardi di debiti, quasi tutti a breve, esca in bonis da un'amministrazione controllata. Ma ciò avvenne anche in nome della sua famiglia, verso la quale continuiamo ad avere affetto e gratitudine. Si rilegga le relazioni del commissario giudiziale con minore partecipazione emotiva. E poi ne riparliamo.
Veniamo alla cessione. L'intera vicenda è stata oggetto di accertamenti giudiziari, in sede civile, tutti conclusisi con la sua condanna. Quando, nell'84, si presentarono due offerte, lei stesso, ancora una volta con una lettera a sua firma indirizzata ai custodi giudiziali, e diramata dall'Ansa, dichiarò di aver scelto la proposta Gemina perché riteneva che desse il massimo di affidamento ai fini del salvataggio del gruppo.
In quell'occasione, lei realizzò dieci miliardi di lire, a fronte di una partecipazione sostanzialmente priva di valore, oltre alla liberazione delle fidejussioni bancarie per decine e decine di miliardi e la rinuncia, da parte della società, ad esperire azione di responsabilità nei suoi confronti, peraltro già deliberata.
Caro Rizzoli, sarebbe oltremodo ingeneroso ricordare quanto lei disse davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, a giustificazione della scelta di cedere parte delle azioni a Calvi e allo stesso Tassan Din. E il cosiddetto «pattone», di cui parlava Sergio Bocconi nell'articolo che dava la notizia della proposta di una commissione d'inchiesta parlamentare sul passaggio di proprietà dell'84, un articolo corretto senza nessuna falsità, esiste eccome, ed è un documento di dodici pagine sottoscritto da lei, Gelli, Calvi, Ortolani e Tassan Din.
La verità, caro Rizzoli, bisogna dirla tutta. E allora si devono rileggere le sentenze del Tribunale civile di Milano del '92 e della Corte d'appello civile di Milano del '96: entrambe hanno respinto in linea di fatto le sue doglianze sulla cessione. Così come si deve ricordare la sentenza del Tribunale civile di Brescia del '98 che la condannò al risarcimento dei danni per diffamazione nei confronti di Giovanni Bazoli, allora presidente del Nuovo Banco Ambrosiano. Non contesto il diritto di ciascuno, lei compreso, di far valere le proprie ragioni e i propri interessi. Ma lei si ricordi di quello che ha scritto. E firmato.
Caro Angelo, un'ultima cosa. Lei afferma di essere stato assolto definitivamente dall'accusa di bancarotta con sentenza della Cassazione del 2009. Dovrebbe anche dire che quella sentenza non ha affatto ritenuto che gli amministratori dell'epoca non fossero responsabili di distrazioni e falsi in bilancio, ha semplicemente revocato le decisioni in sede penale, perché la bancarotta impropria non è più prevista (ma solo dal 2006) come reato. I fatti sono stati commessi, purtroppo per lei... e per noi. (f. de b.)