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2010 09 11 * Milano Finanza * Orsi&Tori * Paolo Panerai

Se 'La Storia siamo noi', come dice la bella trasmissione di Giovanni Minoli, allora permettetemi di rivelare frammenti di una storia che proprio l'ultima puntata del programma televisivo ha riportato di attualità, con la tremenda battuta in romanesco di un uomo saggio e accorto come il pluripresidente del consiglio, Giulio Andreotti.

Secondo il senatore a vita, le grane (e fin qui la battuta sarebbe stata meno schifosa), ma in realtà la morte, l'avvocato Giorgio Ambrosoli se la sarebbe andata a cercare. In che modo se la sarebbe andata a cercare, secondo la cinica battuta di colui che in realtà è stato uno dei protagonisti principali del crack di Michele Sindona, con il successivo ignobile omicidio del giovane liquidatore della Banca privata italiana? In un solo modo: facendo fino in fondo il suo dovere.

Ambrosoli è stato ribattezzato da una certa corrente radical Un eroe borghese, titolo anche del film a lui dedicato. In realtà Ambrosoli è stato un Eroe tout court. Borghese, per lui che era monarchico, stona. Mentre l'attributo di eroe è forse insufficiente. Ma ecco i frammenti della storia da rivelare.

Per molto tempo sono stato il giornalista che sapeva di più di Sindona e del suo crack. Avevo rivelato su Panorama il finanziamento di 3 miliardi di lire di Sindona alla Dc (nelle mani del segretario amministrativo Filippo Micheli) perché il segretario politico, Amintore Fanfani, spingesse il Banco di Roma a nominare un terzo amministratore delegato (struttura non prevista nelle banche dell'Iri) nella persona dell'avvocato Mario Barone, vecchio amico di Sindona dai tempi della Guerra mondiale quando insieme giocavano a poker a Messina (il padre di Barone era ammiraglio), ma anche strettamente legato ad Andreotti.

E così il Banco di Roma finanziò Sindona con 100 milioni di dollari nel tentativo di salvare la banca americana, Franklin National bank, ventunesimo istituto del Paese, di cui l'avvocato siciliano aveva acquistato il controllo nonostante lo stato comatoso in cui si trovava.

A darmi le informazioni dettagliate (compreso il particolare che a portare i 3 miliardi alla sede della Dc, in una valigetta, era stato Silvano Pontello, che poi si riscatterà rendendo grande la Banca Antonveneta) era stato, dal rifugio in Svizzera, Carlo Bordoni, un tempo braccio destro di Sindona come amministratore delegato della Banca Unione (poi confluita nella Privata).

Bordoni sostenne con me che rivelava tutto perché Sindona lo aveva umiliato tentando di possedere sua moglie Virginia durante un soggiorno all'Hotel St. Regis di New York. Poi, a crack avvenuto, e quando per i giudici italiani Sindona era latitante, fui il primo giornalista a intervistarlo sul fallimento a New York, nell'appartamento 1112 dell'Hotel Pierre, dove l'avvocato finanziere se ne stava tranquillo, protetto da omertà e tutela di alcune autorità americane, visto che era stato uno dei maggiori finanziatori della campagna elettorale di Richard Nixon, in precedenza suo avvocato tramite lo studio Alexander.

In realtà, pochi mesi prima del crack, Sindona era stato carinamente intervistato da Enzo Biagi per la terza pagina del Corriere della Sera con dichiarazioni, non controbattute, secondo cui il suo impero era di una solidità granitica. Sapendo che sapevo, Biagi ha tentato successivamente più volte di ostacolare la mia carriera giornalistica.

Dopo Sindona, e dopo il libro 'Il Crack' che ho scritto con Maurizio De Luca, intervistai Bordoni, finito nel carcere modello di Caracas, dove era riparato, per aver frodato le autorità venezuelane per ottenerne la cittadinanza. Bordoni fece le rivelazioni fondamentali perché il procuratore John J. Kenney di Manhattan, con il giudice Thomas Griesa (che ora sta perseguendo il governo argentino per i tango bond non pagati), potesse incarcerare Sindona.

Bordoni rivelò per mio tramite che quanto Sindona aveva dichiarato alla Sec relativamente all'origine dei capitali per comprare la Franklin era falso: i soldi non erano suoi ma delle banche italiane che controllava e se ne era impossessato con prestiti fiduciari. Quella confessione è valsa a Bordoni eterna protezione di tre marshall e il cambiamento dei connotati nel programma dei collaboratori di giustizia.

Per questa mia attività giornalistica, ero in costante contatto con il giudice istruttore Ovilio Urbisci ed ero diventato buon amico del liquidatore Ambrosoli, nonché dei suoi collaboratori, con in primo piano il maresciallo della Guardia di finanza, Silvio Novembre.

Il rapporto di fiducia con Ambrosoli era assoluto e del resto ci accumunavano anche le minacce da parte di Sindona tramite un suo familiare. Fu così, che proprio per parlare delle minacce comuni, che un giorno andai a trovare Ambrosoli negli uffici della banca in via Boito.

Come al solito, Ambrosoli era sorridente e con il volto sereno, nonostante lo stress del lavoro di 16 ore al giorno. «Ho qualcosa da mostrarti», mi disse Giorgio. «Visto che loro alzano il tiro, è giusto che la verità emerga». E mi mostrò la lista cosiddetta dei 500 perché conteneva i nomi e i conti cifrati di 500 italiani presso la banca svizzera di Sindona, la Finabank di Ginevra.

«Ma voglio che tu ti trascriva un solo nome: eccolo». Il martedì dopo, giorno di chiusura de Il Mondo, di cui ero diventato direttore, passai in tipografia una finta copertina a colori. All'ultimo minuto, prima che iniziasse la stampa, passai la foto del presidente della Repubblica, Giovanni Leone, con lo strillo «Lista dei 500 - C'è anche lui».

Angelo Rizzoli, presidente della casa editrice, era molto amico di Mauro Leone, il figlio del presidente, ma quando uscì il giornale e io gli portai la prima copia, con la lettera di dimissioni in tasca, da vero editore il nipote del fondatore non fece una piega. Era turbato, ma non mi disse una parola negativa.

La lista dei 500, che nessuno aveva voluto vedere (il vicepresidente del Banco di Roma, Ferdinando Ventriglia, era addirittura fuggito quando gliela volevano mostrare), dimostrava inequivocabilmente la profondità dei rapporti politici di Sindona, non solo negli Usa ma anche in Italia, e anche oltre al noto legame con Andreotti. Ma nessuno di questi rapporti era così stretto come quello con il pluripresidente del Consiglio.

L'encomio che Andreotti fece a Sindona, definendolo in una cena americana «salvatore della lira» (lira che lo stesso Sindona aveva attaccato attraverso Bordoni, il re dei cambisti, e i legami di quest'ultimo con la banca centrale ungherese), era niente. Andreotti fece di tutto per salvare Sindona anche dopo il crack, quando Ambrosoli ne metteva a nudo le malefatte.

L'operazione, che coinvolse Enrico Cuccia fino all'incontro americano fra questi e Sindona, passava attraverso Franco Evangelisti, che a sua volta operava attraverso l'avvocato Rodolfo Guzzi, l'unico che ha seguito Sindona sino alla fine.

Il salvataggio doveva essere fatto attraverso Mediobanca e le minacce pesanti a Cuccia avevano sortito i loro effetti, appunto sino a spingere il capo di Mediobanca a recarsi a New York per incontrare Sindona. In sostanza, doveva avvenire una sorta di concordato stragiudiziale per rimettere le banche in bonis. Un'operazione impossibile, alla quale Ambrosoli si oppose fin dal suo delinearsi. E fu proprio questo rifiuto che lo condannò.

Lei, Senatore Andreotti, conosce perfettamente quei fatti. Sa anche che Cuccia tacque alle autorità le palesi minacce di cui Sindona stesso gli aveva parlato contro l'avvocato Ambrosoli. Lei sa bene che il suo più diretto collaboratore, Evangelisti, esercitò ogni forma di potere per salvare Sindona. Ma né Lei, che pure conosceva benissimo il clima che si era creato, né Cuccia (che sorprendente combinazione!) faceste niente per salvare un Eroe, come Ambrosoli.

E ora è riuscito perfino, alla sua tenera età, a farsi scappare quella schifosa battuta. Non cerchi di spiegarsi. Si vergogni e basta, chiedendo perdono a Dio perché solo lui potrà perdonarlo. Non certo gli uomini né men che meno Umberto Ambrosoli e sua madre, Annalori.