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2014 08 25 * notizie.radicali.it * Preparati (per resistere) al peggio * Maurizio Turco

Nel 1930 un gruppo di giovani coordinati da Ernesto Rossi decise di raccogliere una serie di scritti di Antonio De Viti De Marco, deputato radicale, fondatore della lega antiprotezionista italiana, economista salentino i cui testi sulla finanza sono ancora oggi oggetto di studio, uno tra i poco più di dieci professori universitari su milleduecento che non giurò fedeltà al fascismo, mentre Togliatti consigliò ai cattedratici di sinistra di giurare per rendersi utili alla causa antifascista del partito e Pio XI suggerì a quelli cattolici di farlo ma con riserva interiore.

Il volume, Un trentennio di lotte politiche, è preceduto da un intervento di De Viti De Marco rivolto “al lettore” nel quale premette che sono scritti “che non esprimono il pensiero di un partito politico, ma neppure quello di un solitario; essi ricordano lo sforzo continuativo e crescente compiuto per oltre un trentennio da un gruppo di persone le quali han mirato alla formazione di un partito liberale-democratico - ossia radicale - che non è mai esistito nel parlamento italiano, o vi è esistito soltanto nel nome”. Prosegue ricordando che l’unico “che ebbe la visione integrale e precisa di un indirizzo liberale in tutte le sue concrete esplicazioni, fu il conte di Cavour; ma il suo programma nacque e morì con lui.” Vi è poi una magistrale descrizione della “piaga del “trasformismo”, che confuse le persone dei vecchi partiti, senza chiarire le idee dei nuovi indirizzi. (…) una sola idea, ereditata dal vecchio regime, continuava a dominare in ogni gruppo: l’idea del privilegio di classe.” I nuovi arrivati difesero i propri interessi non combattendo “il privilegio altrui per arrivare all’egual trattamento di tutti sulla base della legge comune, ma nel reclamare nuovi privilegi per sé.” A cui seguì la guerra “che fu per l’Italia uno sforzo gigantesco del tutto sproporzionato al consolidamento politico del giovane Stato (dove) l’impero della legge era passato dal potere dello Stato all’arbitrio dei singoli gruppi, anzi all’istinto distruttore dei bassifondi e dei violenti di ogni singolo gruppo. (…) contro il caos sorse il fascismo (…) noi avemmo col fascismo un punto di partenza : la critica e la lotta contro il vecchio regime. La nostra critica, però (…) aveva pur sempre di mira la difesa e il consolidamento dello Stato liberale e democratico. Così il nostro gruppo fu travolto.”

L’ho fatta lunga perché nella letteralità di quel che scriveva nel luglio del 1929 De Viti De Marco, fatte le debite conseguenze, la storia si ripete. Nel ’29 non si era usciti dal vecchio regime che già se ne affacciava uno nuovo, il fascismo, dal quale se ne usciva nel '45 per entrare - senza soluzione di continuità sostanziale e per la verità solo apparentemente formale - in quello partitocratico nel quale i partiti sono ancora oggi i soggetti che occupano e si sostituiscono allo Stato e che risultano indeboliti solo se rapportati alla visione organizzativa che se ne aveva nel secolo scorso.

Oggi anche un profano si accorge che i mass medi hanno ridotto sempre più gli spazi informativi a beneficio della propaganda di regime, insomma la Rai sta all’Istituto Luce come la partitocrazia sta al partito unico.

Il gruppo dei radicali di inizio novecento, liberali e democratici, con una forte accentuazione liberista, fu travolto, cioè fu sconfitto dalla violenza del regime che era innanzitutto violenza contro il consolidamento dello Stato liberale e democratico, la cui difesa era l’oggetto della lotta radicale.

Tornando a noi, non poche sconfitte abbiamo subito ma, sinora, non siamo stati ancora travolti dalla "violenza democratica" dello "Stato di diritto" essenza della pestifera partitocrazia italiana che ha ormai infettato paesi ed istituzioni europee.

A questo proposito ricordo ancora la rabbia che nell'aprile del 2002 provai ad ascoltare le parole dei mammasantissima del Parlamento europeo, i capigruppo, che dovevano affrontare una novità: l’applicazione per la prima volta di un articolo del regolamento che consentiva al 10% dei deputati di attivare la procedura per violazione dello stato di diritto in un paese dell’Unione europea. Avevamo infatti raccolto le firme per ben due volte, a causa di un inesistente cavillo, su una risoluzione che condannava l’Italia perché da oltre un anno non aveva provveduto a sostituire due membri su quindici alla Corte costituzionale e legiferava in assenza di 13 deputati a causa di una legge elettorale che doveva essere fatta su misura per far vincere chi l'aveva scritta, l'eccesso di zelo fece però accadere l'impensabile. Si accodarono tutti al Presidente del gruppo del PPE e futuro Presidente del Parlamento europeo, Hans-Gert Pöttering che si dichiarò “sorpreso da tale iniziativa. Il Parlamento europeo deve rispettare lo stato di diritto negli Stati membri, indipendentemente dal fatto che si approvi o no un determinato governo. L’Italia dispone senza alcun dubbio di uno stato di diritto e di una democrazia che funzionano. Sarebbe un segno di arroganza, se il Parlamento europeo si elevasse a giudice a seguito di eventuali carenze in uno Stato membro. Spetta agli Stati membri risolvere questo genere di questioni.” Infine fu deciso di “non dar seguito alla richiesta formulata e d'invitare il Presidente a esaminare con il presidente della commissione per gli affari costituzionali gli aspetti evocati nella summenzionata proposta di risoluzione”. Per farla breve, la Commissione Affari costituzionali propose di cambiare il regolamento e il Parlamento decise di rinunciare a uno dei pochi poteri che aveva di controllo sul rispetto della democrazia nei paesi membri.

Ma non era ancora niente a confronto di quanto ha "denunciato" a distanza di dodici anni, cioè pochi mesi fa, Viviane Reding vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la Giustizia, i Diritti fondamentali e la Cittadinanza: "Negli ultimi anni sono stati conferiti nuovi poteri alle istituzioni europee per evitare che in futuro si verifichino altre crisi economiche come quella da cui stiamo iniziando ad uscire. In un certo senso la gestione della crisi ha preso il sopravvento sulla democrazia, ma ora dobbiamo ristabilire l'equilibrio.” di conseguenza “Io voglio gli Stati Uniti d'Europa, (..) in cui le riforme economiche importanti vengano discusse pubblicamente, in seno a un Parlamento europeo eletto democraticamente, anziché essere decise a porte chiuse da troiche o esperti finanziari."

E direi che con questa affermazione torniamo all’inizio del novecento con un distinguo, allora si proteggeva l'economia mettendo dazi sui prodotti, oggi si protegge la finanza mettendo dazi sulla democrazia, cioè spogliando il cittadino dei diritti fondamentali.

Credo che noi siamo - ancora una volta - destinati a pagare dazio nell’ennesimo tentativo di difendere ed affermare lo Stato liberale e democratico per dirla con De Viti De Marco o lo Stato di diritto, democratico, federalista e i diritti umani, per dirla con Pannella. Senza dimenticare che, a differenza del gruppo di radicali liberisti di inizio novecento, siamo riusciti a durare molto più tempo per due fattori, Pannella e la nonviolenza. Nonviolenza pannelliana che è riuscita ad affermare o far avanzare alcune riforme, a fermare o rallentare i continui tentativi di controriforme, in sostanza a rallentare l’avanzata della violenza di regime.

La vicenda umana e quindi politica di Pannella non può essere letta e compresa senza il rilancio politico e l'apporto anche teorico che ha dato alla nonviolenza gandhiana coniugandola ai connotati di transnazionalità e transpartiticità. Questo dato è un connotato indelebile perché Pannella con il Partito radicale è riuscito a passare dalla teoria all'azione cioè ad incardinare la nonviolenza nelle lotte, rafforzandole e rendendole, nei limiti delle proprie capacità e finché ci è stato consentito, pubbliche, cioè conosciute dai cittadini che hanno potuto sostenerle o aborrirle. Se è vero che il sostegno alle lotte che si sono espresse essenzialmente, ma non solo, attraverso i referendum non sempre si sono tradotti in voti è anche vero che quando abbiamo investito 15 miliardi di lire informando i cittadini in occasione delle europee del 1999 il risultato elettorato c'è stato; ed è altrettanto vero che non abbiamo raggiunto ragguardevoli risultati elettorali quando ci è stato negato l'accesso agli organi di informazione di massa, cioè sempre tranne eccezioni dovute più alla "nostra" bravura che ad una effettiva volontà di restituire il maltolto di conoscenza ai cittadini.

Mai come in questo momento difficile per il paese e per riflesso naturale anche per noi che con il paese siamo in sintonia, è necessario resistere. Non è la prima volta che siamo chiamati a pagare questo prezzo per salvare speranze e ragioni del partito radicale nell'evoluzione pannelliana, con la differenza che se prima eravamo chiamati ad attraversare il deserto con la prospettiva di un orizzonte oggi si ha davvero la sensazione di essere nel bel mezzo della desertificazione più totale.

Non dobbiamo arretrare di un millimetro e nemmeno pensare che stare fermi sia una possibile soluzione, dobbiamo continuare nel faticoso cammino del millimetro al giorno con chi lo vuole percorrere.

E' stato così per Antonio De Viti De Marco, ma anche per Salvemini, Rossi e Spinelli; c'è chi non ha giurato fedeltà al totalitarismo, chi è andato in esilio volontario, in carcere, al confino.

Queste sono le eredità, gli averi radicali. Certo non viviamo nel totalitarismo che dall'olio di ricino finisce nei lager siberiani passando per Auschwitz; viviamo in un sistema più subdolo quello della democrazia reale illiberale, contro lo stato di diritto, il federalismo, la democrazia i diritti umani.

Di fronte al contesto purulento che ci circonda chi lo vuole ha ancora molte armi per difendersi dall'infezione; quello che va rafforzato è lo strumento. Perché senza Partito, senza il Partito radicale dello Stato di diritto, federalista democratico e dei diritti umani, le sue idee, le sue ragioni, le sue lotte non ci sono molte alternative. C'è il carcere e il confino di Ernesto Rossi, oggi magari solo metaforici ma non è detto; l'esilio di Gaetano Salvemini; il ritiro a vita privata di De Viti De Marco non prima di insieme a una decina d'altri di rifiutare di giurare fedeltà al regime mentre altri milleduecento quel giuramento lo fecero, chi per il bene del partito o della chiesa, senza trascurare quello personale, naturalmente con sofferenza postuma. Nulla di nuovo, è il vecchio chiagne e fotte che ha nutrito generazioni di spregevoli avvoltoi e simpatiche cicale.

Chi ha avuto i mezzi per capire, gli strumenti per agire, la forza per lottare non ha alibi anche se può sempre darseli. Siamo preparati (per resistere) al peggio senza criminalizzare alcuno, solo gesti di umana pietà.